Mama Africa: le origini africane del blues

Il blues è una delle espressioni musicali più caratteristiche degli Stati Uniti, oggi è diffuso in tutto il mondo ed è stato adattato a culture diversissime per tempo e luogo. Ma ciò che forse lo rende affascinante, più d’ogni altra cosa, è la sua storia.

Sull’origine della musica degli schiavi sono state proposte diverse teorie, che si possono dividere in due gruppi principali. Da una parte quelle che propugnavano un’origine del blues totalmente scollegata dal contesto africano, come risultato delle condizioni sociali americane e di un background culturale spazzato via dall’esperienza schiavistica. Di impostazione totalmente opposta erano le teorie che sostenevano un’origine del blues totalmente africana, come se questo genere musicale fosse la semplice trasposizione di uno stile musicale africano unitario. Ma – come spesso accade – la strada più fruttuosa per la ricerca è quella di mezzo.

Il blues è africano?

Un qualsiasi dizionario come definizione di ‘africano’ porterebbe «relativo all’Africa ed ai suoi abitanti», definizione che non sfigurerebbe né nell’interpretazione di un blues di matrice totalmente africana né di matrice afroamericana. Tuttavia nel definire il blues “africano” si compie un errore di fondo che consiste nel considerare più o meno implicitamente la cultura e la musica africane come un corpo unitario.

Dando un’occhiata alla storia del continente nero si nota immediatamente la sua estrema frammentazione politica e, di riflesso, culturale: centinaia di tribù spesso in guerra tra loro, regni di breve vita legati per lo più a una figura carismatica, uniti a massicci fenomeni migratori per mezzo di vie carovaniere, rendono il quadro culturale del continente nero fluido, oltre che frammentato in decine di nicchie musicali isolabili solo fino ad un certo punto.

Bilād al-Sūdān: la terra dei neri

Dal punto di vista geografico (e culturale) l’Africa si può dividere in due aree: quella del Maghreb (ovvero il nord) e quella subsahariana (il centro-sud), chiamata anche “fascia sudanica” dal nome tradizionalmente attribuitole di Bilād al-Sūdān cioè “terra dei neri”. Questa divisione sembra essere in contrasto con quanto detto prima di non poter fare generalizzazioni quando si parla di Africa: tuttavia in questo caso c’è la presenza di un confine stabile quale è il Sahara a validare questa divisione, mentre sul piano culturale questa schematizzazione rappresenta la divisione tra l’Africa a maggioranza islamica e quella a maggioranza animista-tribale, considerando come periodo di riferimento quello della tratta degli schiavi.

È importante fare questa distinzione dal momento che la tratta degli schiavi si concentrò quasi interamente nella fascia sudanica che è quindi il terreno di ricerca più adatto a rilevare eventuali antenati del blues.

fascia sudanica, africa subsahariana
In marrone chiaro e beige l’estensione della fascia sudanica e dei due gruppi linguistici principali. Credits to: Mark Dingemanse.

Una ricostruzione senza prove?

Prima di passare in rassegna la genetica del blues è opportuno specificare il metodo usato da chiunque si occupi di questo campo di studi: esso si basa sulla comparazione tra le registrazioni blues più antiche in nostro possesso (circa 1925), le fonti che menzionano e descrivono la musica degli schiavi neri prima di tale anno, eventuali documenti sulla cultura africana durante il periodo della tratta e infine registrazioni e ricerche sul folklore africano attuale, che vengono effettuate sul campo. Quest’ultimo punto può sembrare l’anello debole che invalida qualsivoglia teoria così sviluppata: non è così, o meglio, finora non sono state trovate significative discrepanze o stratificazioni tali da rendere irriconoscibili gli elementi musicali interessati da questi studi. In altre parole: è ancora possibile individuare gli elementi musicali presenti nelle musiche tradizionali dell’Africa di secoli fa.

La tratta anglo-francese

La fascia sudanica resta comunque una zona troppo estesa da esaminare sia geograficamente sia culturalmente: possiamo ridurre la zona di interesse per la formazione del blues alla sua sezione occidentale, che è quella maggiormente sfruttata dagli inglesi e dai francesi, i quali erano in possesso di quasi tutto il territorio che sarebbe diventato parte degli Stati Uniti.

All’interno di quest’area possiamo riconoscere a loro volta altre due macro-sezioni culturali. La prima corrisponde alla costa centro-settentrionale della fascia sudanica occidentale, chiamata Mauretania fin dai tempi della repubblica romana. Essa è una zona di confine con la regione del Maghreb, quindi ha una cultura musicale molto influenzata da quella arabo-islamica. La seconda comprende la parte centro-meridionale delle coste e la maggior parte delle zone interne della fascia sudanica occidentale e appartiene a una tradizione musicale di tipo tribale con forti significati rituali. Una volta circoscritto il terreno di ricerca, andiamo ad analizzare i punti più importanti dell’estetica blues cercandone gli antenati.

I geni del blues

Il blues è noto per essere un genere musicale dove l’interprete principale – cioè il cantante – è sempre in rapporto con un pubblico, sia esso realmente presente o immaginario. Ne abbiamo esempi nei blues di Robert Johnson come Sweet Home Chicago e Hellhound on My Trails (ca. 1932), in cui il bluesman si rapporta rispettivamente con una non meglio nota ragazza e con il suo stesso pubblico “abituale”. Questa caratteristica declamatoria si trova anche in molte culture della fascia sudanica occidentale concentrate per lo più nella parte nord, cioè la Mauretania, dove sussiste ancora oggi una forte tradizione bardica in quasi tutte le culture della zona. Questo stile canoro è probabilmente di derivazione araba in quanto è presente anche nelle zone del nord Africa che non confinano con la Mauretania.

Robert Johnson, rare, bluesman
La figura di Robert Johnson è a tratti leggendaria e a questo contribuisce anche la rarità di sue immagini originali.

L’influenza araba sul blues non si ferma qui. Sempre nello stile canoro è possibile trovare un’altra somiglianza con la musica folk araba nella forte ambiguità dell’intonazione della voce, che alle orecchie di un occidentale poco avvezzo a questo tipo di musica produce un effetto molto dissonante. Per ultima ma non meno importante caratteristica araba del blues è possibile trovare il cosiddetto “ostinato” in riferimento all’armonia di molti blues basata su un solo accordo: ne sono esempi molti blues di John Lee Hooker come la famosissima Boom Boom.

John Lee Hooker, Boom Boom
Immagine giovanile di John Lee Hooker.

Su quest’ultima caratteristica si è a lungo dibattuto, dal momento che la struttura armonica a oggi più famosa del blues è quella a dodici battute, in cui sono però presenti cambi di accordo. Tuttavia in questa struttura non ci sono molti riferimenti africani, il che porta a trarre due possibili conclusioni: o la struttura a dodici battute è stata importata in Africa (in tempi relativamente recenti) e non il contrario, oppure una minoranza di schiavi che facevano riferimento a questo stile musicale è riuscito col tempo a imporsi musicalmente sugli altri stili.

Da Nord a Sud

Una cosa che spesso è tralasciata dagli appassionati di blues, nonostante sia piuttosto evidente soprattutto nelle composizioni più antiche a noi giunte, è la standardizzazione di alcuni tipi di ensemble a discapito di altri. Il motivo principale di queste codificazioni è con molta probabilità dovuto allo stile musicale  delle etnie nomadi che vivevano lungo le vie carovaniere della fascia sudanica e che ancora oggi è possibile trovare in alcuni punti nevralgici di questo antico percorso.

Questi popoli erano composti da nomadi e mercanti ma anche da appartenenti ad altre etnie che si spostavano stagionalmente lungo le principali vie carovaniere della fascia sudanica occidentale. Il loro essere nomadi permetteva il trasporto di soli strumenti di dimensioni ridotte e in numero limitato. A questo si deve aggiungere che i nuclei familiari larghi erano rari e la maggioranza delle persone vivevano da sole, cosa che favorì la formazione di ensemble standardizzati da una fino a tre o quattro persone, di cui i primi composti da un cantante che si accompagnava  con uno strumento a corde pizzicate (un liuto o affini), mentre i secondo composti da  due o tre strumenti a corde e un cantante che poteva anche non suonare uno strumento.

Tutte queste caratteristiche possono essere trovate nel blues anteriore e (per un certo periodo) posteriore al secondo dopoguerra, caratterizzato da ensemble di una fino a tre persone. Di questi gruppi ci restano poche testimonianze, per lo più in foto.

blues jug band circa 1930

Nel caso degli ensemble a tre persone si trattava per lo più di gruppi formati da chitarra o banjo, violino e cantante con o senza un altro strumento. Nel caso di ensemble da una persona abbiamo una schiacciante prevalenza di chitarristi e suonatori di banjo sugli armonicisti e altri musicisti.

L’arrivo al Sud

Se da una parte furono i nomadi a sviluppare quella che sarà la tipica ensemble blues, dall’altra è anche vero che le principali caratteristiche strumentali del blues furono con molta probabilità sviluppate nei luoghi dove essi avevano i loro “scali” più frequenti e dove ebbero contatti con altre etnie. Non sappiamo se e quando ci fu effettivamente un primo contatto ma quasi sicuramente fu nella parte sud della fascia sudanica occidentale che si sviluppò il germe del futuro fraseggio blues.

Oltre alle blue notes di derivazione araba (esse sono infatti un residuo della ambiguità di intonazione di cui sopra), gli elementi tipici del fraseggio blues sono la scala pentatonica e la tecnica del call and response. Il motivo per cui questi elementi devono essere considerati in coppia è che si trovano sparsi su quasi tutto il territorio dell’Africa nera ma si trovano in coppia solo nella zona Sud della fascia sudanica occidentale.

Far away form Sudan

Gli stilemi citati finora sembrano confermare un’origine del blues circoscritta alla fascia sudanica occidentale. Tuttavia a mettere se non in crisi almeno in difficoltà questa assunzione è l’assenza in queste zone di uno stilema tipico del blues e in seguito di tutta la popular music: è il cosiddetto “schema AAb”, cioè un modo di comporre strofe consistenti in due versi uguali e uno diverso a conclusione della strofa. Ognuno di questi versi è accompagnato da una frase strumentale, venendo a formare quindi tre call and response costituiti da un verso e la rispettiva frase strumentale, e un call and response generale costituito dai due versi uguali e quello conclusivo. Se ne possono ascoltare esempi nei blues di Blind Lemon Jefferson.

Blind Lemon Jefferson, ritratto
Forse l’unica immagine pervenutaci di Blind Lemon Jefferson.

Dunque questo schema compositivo è puramente blues, anche se finora i maggiori studiosi della materia hanno trovato solo esempi sporadici in terra africana e tutti nella fascia sudanica orientale. Questo ha fatto pensare che potesse essere uno schema compositivo sviluppato quando gli schiavi erano già in America, come evoluzione del call and response classico, ma questo non risolve il problema della presenza dei vari esempi in terra africana, dando adito quindi alla teoria di una minoranza culturale africana poi divenuta maggioranza una volta giunta in America.

Il grande assente: il ritmo

Un altro elemento di ambiguità che riguarda il blues a confronto con i suoi antenati è il ritmo. Quando si pensa all’Africa il pensiero spesso va a ritmi sincopati e complessi, suonati su tamburi di grandezza anche considerevole, mentre nel primissimo blues americano e nei suoi capostipiti africani analizzati finora non c’è traccia di strumenti percussivi e quindi di complessità ritmica: ma si tratta di mera apparenza.

Dal punto di vista musicale è vero che molte musiche africane usano tamburi e percussioni in modo anche esagerato per i gusti occidentali, ma non è vero che dove c’è l’assenza dei tamburi si dia poco peso al groove. Negli stili citati finora i musicisti tenevano il ritmo percuotendo la cassa degli strumenti a corda e lo facevano in modo regolare e ostinato, aiutandosi con le corde più basse, motivo per cui abbiamo dei blues a un solo accordo. Ovviamente non tutte le musiche africane erano così semplici nel ritmo. In genere quelle suonate con tamburi usavano pattern ritmici molto complessi, ma con una caratteristica di fondo: il pattern iniziale era ripetuto uguale per tutta l’esecuzione dal suonatore più bravo che fungeva così da metronomo per l’intero complesso. Da qui viene logico pensare che in ensemble ridotte o addirittura soliste il ritmo non poteva essere così articolato.

C’è un altro motivo per l’assenza di tamburi e percussioni nel blues per lungo tempo, almeno fino alla fine della schiavitù e nel sud degli Stati Uniti anche fino al 1868. Ai neri infatti era proibito suonare tamburi o in ensemble numerose, in quanto la loro era considerata una musica contraria al cristianesimo. Tuttavia veniva loro permesso di suonare in ensemble ristrette, in quanto si era visto che la musica poteva aiutare gli schiavi a combattere la depressione e a essere più produttivi, tanto che era permesso loro di suonare anche durante il viaggio in nave.

Un trama fitta

Dalle osservazioni fatte finora sembra emergere un quadro anche abbastanza chiaro della situazione musicale all’origine del blues: ma non è così. Il riferimento fatto allo schema AAb non è casuale, in quanto suggerisce una stratificazione più complessa di quanto si pensasse prima nell’analizzare la tratta dal punto di vista demografico e geografico. Se la teoria di una minoranza divenuta poi maggioranza culturale tra i neri d’America prima sembrava al limite del possibile, adesso può essere una valida via di interpretazione che andrebbe a complicare ulteriormente la trama culturale del blues. Anche l’assenza della complessità ritmica sembra suggerire una nuova interpretazione delle origini del blues in chiave più sociologica che musicologica e soprattutto meglio bilanciata a favore degli avvenimenti in terra americana rispetto a quelli in terra africana.


Bibliografia minima:

Di seguito un elenco di alcuni tra i testi che affrontano le origini del blues in modo più generale, in ordine consigliato di lettura.

  • Piccolo, Francesco (2015) Storia del Blues. Gli eventi, gli stili, i protagonisti. Leipzig: Narcissus Self Publishing;
  • Martorella, Vincenzo (2009) Il Blues. Torino: Giulio Einaudi editore;
  • Kubik, Gerhard (2007) L’Africa e il Blues. Roma: Fogli volanti edizioni;
  • Lomax, Alan (2005) La terra del Blues. Delta del Mississippi. Viaggio all’origine della musica nera. Milano: il Saggiatore.
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