Il genocidio dei Rohingya in Birmania

I Rohingya sono un gruppo etnico che conta un numero compreso tra 1.400.000 e 2.000.000 individui, la cui maggior parte risiede a cavallo tra Bangladesh e Myanmar, sebbene la diaspora li abbia portati in altri paesi come Arabia Saudita, Thailandia, Indonesia e India. Buona parte di questi è di fede musulmana e parla una lingua indoeuropea (il Rohingya) facente parte del ramo delle lingue indoarie. Ad oggi questo popolo è oggetto di una pulizia etnica da parte del Myanmar, che adduce motivazioni legate all’immigrazione o, di massima, nega di aver adottato misure che avessero come scopo a sua eliminazione.

I Rohingya, dal canto loro, si considerano nativi dello stato di Rakhine (una volta detto Arakan), che nella loro lingua è detto Rohang. Tale regione, ad oggi suddivisione amministrativa situata nella parte occidentale del Myanmar (nome ufficiale della Birmania), è inaccessibile a stranieri e ai media internazionali in quanto, secondo indiscrezioni, questo sarebbe stato trasformato in un gigantesco campo profughi. La capitale è Sittwe e al suo interno si trovano diversi luoghi d’interesse, come il sito archeologico di Mrauk U.

Rohingya
Da agosto ad oggi quasi 400.000 Rohingya sono scappati in Bangladesh sotto la pressione delle azioni dell’esercito (AFP/Getty Images)

La Birmania divenne indipendente nel 1948, in seguito alla decolonizzazione britannica. Nata come democrazia, nel 1962 la Birmania sperimentò un colpo di stato militare le cui conseguenze sono perdurate fino ad oggi, con la giunta militare che si è dissolta solo nel 2010. Nel 1989, nel tentativo di smarcarsi ulteriormente dal periodo trascorso come colonia britannica, la giunta impose un cambio di denominazione a città, luoghi e perfino allo stato, che assunse il nome di Myanmar. In questo periodo iniziarono i primi attacchi contro i Rohingya, rei di essere di non essere del posto e di essere entrati nel paese solo nel secolo precedente, durante la colonizzazione. Ecco che i Rohingya entrarono a far parte di una serie di simboli delle vecchie vestigia coloniali di cui i birmani, secondo il governo militare, si dovevano liberare a tutti i costi.

I Rohingya vennero quindi privati della cittadinanza birmana e spogliati di tutti i diritti. Nel frattempo, a fare da sfondo alla vicenda si ebbe l’inizio di quelli che saranno tre decenni piuttosto travagliati, con la guerra civile tra ribelli e governo centrale. Infine, oltre alla differenza etnica pesò anche quella religiosa, dato che i Rohingya erano uno tra i pochi gruppi etnici musulmani in un contesto prevalentemente buddhista. Le origini di questo popolo sono però diverse da quelle che vennero imputate dal governo militare, in quanto arrivarono nella regione di Rakhine molto prima della colonizzazione britannica, intorno alla metà del XVI secolo, come attestato anche dal vocabolario comparativo scritto dai britannici, e che tra le varie etnie nominava appunto i «mohammedans, who have long settled in Arakan, and call themselves Rooinga» (i musulmani, da tempo stanziati ad Arakan, che si definiscono Rooinga).

All’inizio degli anni ’90 il regime birmano iniziò a mostrare la corda: si verificarono le prime insurrezioni, e le proteste in strada con i monaci che scortavano i manifestanti. Probabilmente questi sono tra i motivi per cui la giunta individuò nei Rohingya uno dei capi espiatori per distrarre i cittadini dalle proprie mancanze. Gran parte delle speranze della popolazione di un governo democratico era riposta in un’attivista che risponde al nome di Aung San Suu Kyi. Dopo pesanti pressioni, infatti, nel 1990 la giunta concesse le prime elezioni libere dove l’NLD (National League for Democracy) vinse la maggioranza dei seggi. La giunta militare si rifiutò però di cedere il passo.

Il premio Nobel, difensore dei diritti umani e membro del governo birmano Aung San Suu Kyi (Spencer Platt/Getty Images)

Aung San Suu Kyi venne dapprima confinata agli arresti domiciliari, mentre nel 1995 la pena venne commutata in un più blando divieto di espatrio, comminato nella speranza che la leader (che nel frattempo acquistava sempre maggiori consensi e appoggi all’estero) non stringesse accordi con potenze straniere al fine di rovesciare la giunta. Nel 2003, in seguito a un corteo di manifestanti da lei guidato sul quale i militari aprirono il fuoco, Aung San Suu Kyi venne nuovamente rinviata ai domiciliari, interrotti solo per i ricoveri in ospedale dato il suo stato di salute. La pena le venne confermata per gli anni successivi. Nel 2009, un pastore mormone statunitense, John Yettaw, si gettò nel lago circostante la sua casa nel tentativo di riuscire a comunicare con lei. In seguito a questo, la leader birmana subì un processo per violazione degli arresti domiciliari, che la mise nuovamente fuori gioco prima di sottoporre a referendum la continuazione del proprio mandato.

Nel 2011, come detto in precedenza, il governo della giunta militare cadde a causa delle pressioni interne ed esterne, e venne avviato un percorso verso la democrazia che però finì per riguardare solo una parte dei cittadini birmani: i Rohingya vennero tenuti da parte rispetto a questo processo e, anzi, la situazione si inasprì ulteriormente. Nemmeno il ritorno alla democrazia, infatti, alleggerì il comportamento di Naypidaw nei confronti di questa minoranza: tra il 2010 e il 2011 si contarono quasi 200.000 profughi costretti a fuggire dal Myanmar verso il Bangladesh, dove il governo allestì dei campi di accoglienza, ma senza prendere i necessari provvedimenti: la situazione sfociò in una rivolta nei pressi di Cox’s Bazar, una zona turistica costiera del Bangladesh.

La rivolta di Cox’s Bazar fu probabilmente la prima occasione in cui l’occidente venne seriamente a contatto con le problematiche dei Rohingya: la popolazione si era notevolmente ridotta a causa della bassa aspettativa di vita e della fuga verso l’India e il Bangladesh. In molti nella comunità internazionale si rivolsero ad Aung San Suu Kyi nella speranza che rimediasse alla situazione data la sua posizione di ministro nel primo governo democratico post dittatura militare, ma le dichiarazioni del premio Nobel per la pace del 1991 fecero intendere che fosse a favore dello status quo.

Nel 2012 le forze armate del Myanmar iniziarono in una vera e propria campagna di sterminio contro i Rohingya, utilizzando come pretesto attacchi a posti di blocco piazzati da Naypidaw affinchè gli stessi Rohingya non defluissero in altre parti del paese e rimanessero confinati nell’Arakan. Nell’ultimo anno circa 50.000 persone appartenenti a tale gruppo etnico sono fuggite in Bangladesh in seguito a tali rappresaglie.

Ad oggi, il governo birmano agisce con una doppia strategia: da un lato con attacchi armati dell’esercito che arriva nei villaggi, inizia a sparare contro la popolazione civile e ne tiene sotto scacco gli abitanti, con episodi di stupro, uccisioni extragiudiziarie ed esecuzioni sommarie. Dall’altra parte lo stesso esercito appicca incendi nei pressi dei villaggi costringendo alla fuga gli abitanti. L’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’Onu, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha definito quanto sta accadendo «un caso da manuale» per quanto riguarda la storia dei genocidi.

Logo dell’Alto Commissariato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite

Proprio l’ONU si è mobilitata con specifico riferimento a questi ultimi mesi su segnalazione del Bangladesh, che sta facendo fatica ad accogliere le centinaia di migliaia di rifugiati (400.000 da fine agosto) che entrano dal confine orientale. Al Hussein ha già cercato di coinvolgere il Consiglio di Sicurezza, che è tuttavia stato distratto dalla questione nordcoreana, definendo gli avvenimenti come «una manovra chiaramente definita a far sì che molta gente si sposti senza possibilità di tornare alle proprie case».

Nei giorni scorsi le riprese satellitari hanno mostrato villaggi Rohingya in fiamme: alla richiesta di spiegazioni, le autorità Birmane hanno detto che sono stati gli stessi fuggitivi a dare alle fiamme le proprie case. La mobilitazione della comunità internazionale è per ora avvenuta principalmente a livello di opinione pubblica, con alcune grandi personalità e premi Nobel (il vescovo Tutu, il Dalai Lama Tenzyn Gyatso, Malala Yousafzai) che hanno esortato Aung San Suu Kyi a prendere una posizione in qualità di eminente membro del governo, ma ad oggi gli appelli sembrerebbero caduti nel vuoto. Il governo della Birmania non dà segni di voler cooperare con la missione che l’UNHCR (United Nations High Committee for Refugees) ha istituito per investigare sull’accaduto, e la soluzione alla crisi dei Rohingya sembra ad oggi più lontana che mai.

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