Alternanza Scuola-Lavoro, addestramento alla precarietà

La Buona Scuola e le direttive del MIUR

È il 13 maggio 2015 quando gli italiani, interpretando la parte di comparse studentesche davanti ai televisori, prendono figurativamente posto ai banchi per assistere alla spiegazione dell’improvvisato “professor” Renzi il quale, per la breve durata di un quarto d’ora all’incirca, intreccia per loro un’apologia della fantomatica Buona Scuola, una riforma che definire nociva sarebbe adoperare un mero eufemismo. A seguito di un cappello che sembra introdurre tutt’altro genere di emendamento legislativo (magari uno a favore della pubblica istruzione), il gesso dell’ex premier incide sulla lavagna tre parole d’un azzurro sbiadito che da allora segnano negativamente la già travagliata vita dei discenti liceali: Alternanza Scuola-Lavoro.

Vessati dalle sanzioni Europee per una disoccupazione giovanile pari al doppio (44,2% a giugno 2015) della media dell’eurozona (22%), l’esecutivo Renzi si prodigò per riabilitare il futuro della gioventù italiana con la mantenuta promessa di conciliare l’educazione scolastica, apparentemente troppo poco pragmatica e tuttavia manchevole della giusta dose di cultura umanistica (o “umanista” volendo riproporre l’errore marchiano dell’ex presidente del consiglio), e un impiego secondario necessario a far comprendere agli studenti il valore formativo del lavoro, anche a costo di bruciare – perlomeno in queste modalità – qualche tappa essenziale del percorso didattico e pedagogico. Ma quest’Alternanza Scuola-Lavoro – poi risultata in una scoordinata sovrapposizione – non è che il primo di svariati problemi riscontrati in un testo normativo a dir poco confusionario: la costituzione italiana ci insegna che, di fianco alla semplicità lessicale e sintattica, è altrettanto essenziale una più efficace e sinottica articolazione del testo funzionale alla comprensione del medesimo. La riforma Giannini non bada a “futilità” come la compartimentazione e la sintesi, anzi coniuga l’economico e il sociale sotto la voce di un unico articolo, saturando di dati ognuno dei suoi 212 commi e dilungandosi in interminabili susseguirsi di sottopunti.

Un testo di legge che – per carità, si è visto e si continua a vedere anche di peggio in ambito finanziario con le leggi di bilancio – tutto ha da invidiare alla semplicità della precedente riforma Moratti, già colpevole al suo tempo dell’introduzione del piano di Alternanza. E stupisce pensare che, contrariamente a quanto avvenuto per la norma giuridica, la già citata presentazione di Renzi alla lavagna vantasse una suddivisione per argomenti meglio scandita e più facilmente comunicabile alle masse: invece, senza titoli o preavvisi, si passa dalla possibilità per gli istituti di utilizzare finanziamenti esterni (ai sensi del comma 29, per scelta della presidenza scolastica di comune accordo con gli organi collegiali) alla definizione della durata complessiva dei percorsi extra-didattici (ai sensi del comma 33, da ridistribuirsi nell’arco del secondo triennio di superiori, 400 ore per istituti tecnici e professionali, 200 ore per i licei); dallo svolgimento di attività in materia di salute e sicurezza (ai sensi del comma 38) all’istituzionalizzazione di un registro nazionale per l’alternanza scuola-lavoro (ai sensi dei commi 40 e 41, per l’individuazione da parte della presidenza scolastica di imprese disponibili all’attivazione dei percorsi), che ad oggi conta 26.633 soggetti iscritti.

A questo vadano ad aggiungersi i non meno trascurabili problemi col piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato per i docenti precari (ai sensi dei commi 95, 96, 97 e 98, per la copertura di tutti i posti comuni e di sostegno rimasti vacanti), una mossa audace che tuttavia, con l’algoritmo “cervellone” per l’assegnazione di cattedre in base alle sole graduatorie degli insegnanti, non prevede alcuna indennità di trasferimento a fronte del processo di delocalizzazione. È accaduto così che i professori, in preda all’arbitrarietà geografica, abbiano dovuto sopperire di propria tasca alle spese di trasferimento e affitto nella città sede dell’istituto assegnatogli.

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L’ex premier Matteo Renzi durante l’elencazione dei punti fondamentali della Buona Scuola.

Le parti offese

A sperimentare su pelle il fallimento dell’Alternanza sono, in primis, ovviamente gli studenti. Già costretti a destreggiarsi tra orari in sede scolastica per nulla ristretti e una mole didattica tutt’altro che facilmente organizzabile, causa il continuo susseguirsi di disamine tra loro parecchio ravvicinate, i giovani alunni dei licei (con minor fortuna dei loro cugini degli istituti tecnici e professionali) reclamano contro la poca attinenza dei percorsi ai programmi: al di là della più logica protesta per l’incompatibilità del nuovo impegno coi tempi di studio pomeridiano o “casalingo”, sembra che che gli estensori del provvedimento non abbiano fatto ricorso a un minimo di immedesimazione quando ponevano le basi affinché un discente dovesse interrompere – alla buona – la lettura dei classici o la dose giornaliera di equazioni per fare da porta-caffè in un’impresa aderente al progetto.

Tale cortocircuito è ovviamente dovuto al fatto che non sia lo stato a individuare e mobilitare specifici ambienti lavorativi in funzione di una formazione coerentemente utile agli alunni, bensì l’esatto opposto: ecco allora presentarsi scenari in cui gli enti, mossi unicamente dai contributi in base o al numero di assunzioni (secondo le disposizioni dei bandi della Camera di Commercio Roma, da un minimo di € 500 per una assunzione fino ad un massimo di € 1200 per quattro assunzioni) o ai servizi svolti (secondo le disposizioni dei bandi della Camera di Commercio Milano, da un minimo di € 240 ad un massimo di € 468 per i servizi obbligatori, da un minimo di € 266,36 ad un massimo di € 1018,32 per i servizi facoltativi), prelevino piccoli gruppi di ragazzi all’interno della medesima classe, relegandoli talvolta a orari scomodi, se non da sovrapporsi addirittura alle lezioni stesse. Il tutto da svolgersi nel timore costante che gli impresari rammentino di comunicare la convalida dei percorsi svolti agli istituti, pena la compensazione delle ore “perse” tramite la frequentazione di ulteriori progetti.

Ma vittime altrettanto penalizzate sono i professori. Per effetto di quanto detto finora, i programmi didattici risultano discontinui e l’apprendimento lacunoso: se da un lato le corpose assenze di studenti della mattina impediscono ai docenti di spiegare con continuità, dall’altro gli invasivi impegni del pomeriggio li costringono a sconti sulle interrogazioni per mancata occasione di studio. E anche qualora fossero disposti a recuperare nelle ore di buco, il già citato piano straordinario di assunzioni prevede l’impiego dei cosiddetti “professori di potenziamento” per sostituzioni e supplenze brevi. Il tutto coronato dai marginali e poco malleabili 500 euro del rinomato buono SPID, un contentino, un mero palliativo che risarcisce assai limitatamente il disagio causato all’istruzione giovanile.

E d’istruzione compromessa si parla anche quando l’orale dell’esame di maturità viene svalutato, spogliato di quell’incarico essenziale che è la preparazione ai futuri colloqui universitari e ridotto ad una disquisizione sulla propria esperienza di Alternanza (sulla falsa riga del Premio “Storie di Alternanza”, un’iniziativa promossa dalle Camere di Commercio d’Italia) in luogo della più classica e consona discussione della “tesina”.

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La manifestazione degli studenti romani contro la Buona Scuola, nei pressi del Colosseo.

Il confronto Europeo

Se da un lato bisogna concedere qualche plauso a questa guerra alla disoccupazione giovanile (scesa di più di dieci punti solo nell’ultimo biennio), è altrettanto corretto asserire la sua inefficacia qualora comparata alle soluzioni dei nostri vicini europei. Gli esoneri contributivi (assegnati alle imprese per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani che hanno svolto presso il medesimo datore di lavoro periodi di apprendistato per il diploma di istruzione secondaria superiore) hanno certamente aiutato, ma è ancora troppo presto per cantar vittoria, visto il divario che intercorre tra il nostro attuale 32,7% e la nuova media dell’eurozona (13%). Ci sarà un motivo per cui l’estensione dell’obbligatorietà dell’Alternanza ai licei in Italia costituisce un unicum europeo – la qual cosa suggerisce non si tratti di un isolato colpo di genio; al riguardo, infatti, i governi d’oltralpe hanno optato per la (quasi) totale esclusione degli istituti generalisti dai percorsi extra-didattici facendone prerogativa esclusiva dei tecnici e professionali.

È forse chiedere troppo perlomeno un tentativo di emulazione del modello tedesco/francese? In questi paesi esiste infatti la facoltà di scegliere, raggiunti i 15 anni di età, se interpolare o meno la didattica con la preventiva immersione nel mondo del lavoro (che in caso di risposta negativa risulterà al massimo in uno stage di una settimana in Francia, di due settimane in Germania). E laddove i francesi semplicemente ripiegano sul potenziamento di quelle istituzioni scolastiche nate con lo scopo di iniziare gli alunni all’occupazione lavorativa (istituti tecnici e professionali appunto), i tedeschi hanno appositamente elaborato un meccanismo sociale infallibile: concluso il primo biennio di superiori, grazie al sistema duale (duale ausbildung) ogni studente potrà decidere se continuare il suo regolare corso di studi o se sottoscrivere un contratto biennale, triennale o quadriennale con un’azienda per intraprendere un percorso formativo (da scegliersi tra oltre 350 programmi professionali) che lo impegnerà per più della metà della settimana lavorativa (70% delle ore annuali da spendersi in azienda), nella garanzia di una stabile remunerazione mensile (tra i 795 e i 950 euro lordi) e di un quasi sicuro e immediato riassorbimento a diploma intascato. Un’abile mossa, quella dei tedeschi, che gli ha fruttato un tasso di occupazione dei diplomati che sfiora la totalità (95%). E dovendo, in chiusura, raffrontare questo genere di risolutezza alla disorganizzazione italiana, bisogna tuttavia riconoscere al bel paese la coerenza di aver educato i suoi figli alla precarietà piuttosto che al reale impiego.

Per consultare il testo della Buona Scuola, Legge 13 luglio 2015, n. 107 (Riforma Giannini), cliccare qui.

Per consultare il testo della Legge 28 marzo 2003, n. 53 (Riforma Moratti), cliccare qui.

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