Fenomenologia dell’SJW hollywoodiano

Una digressione semantica

L’eguaglianza è un tema molto sentito nella contemporaneità occidentale, un principio che risveglia gli animi di diverse classi sociali, una volontà astratta che attraverso gli individui ricerca una lecita e generale applicazione in ogni ambito umano: essa è il nucleo del costituzionalismo legale, è la prescrizione del dogma divino, è la risposta dell’analisi scientifica antropologica. Eppure, mai nella storia dell’umanità sono venute a mancare le tassonomie di una differenziazione tra sessi, “razze” e sessualità, scogli sociali e morali i cui strascichi appaiono tuttora insormontabili, forti dell’ignoranza di un’unica specie, quella umana appunto, che non può fare a meno di scadere nella categorizzazione. Le innegabili radici cristiane, che tanto alimentano l’aura umanistica e acculturata del civilizzato Occidente e delle sue appendici americane, non sono riuscite a cancellare l’onta del patriarcalismo misogino e del costituito mito dell’uomo bianco. Ma come ogni male la discriminazione possiede la capacità di generare, per contro, un estremismo di emancipazione, nato in replica a quelle stesse ingiustizie subite e che ora si appresta a ribaltare e riproporre. È il caso di quella particolare linea politica progressista e radicale, coagulo delle peggiori sfaccettature di movimenti altrimenti genuini (femminismo in primis), denominata SJW.

La disonorevole apposizione di social justice warriors (“combattenti per la giustizia sociale”) – questo il significato dell’acronimo – è addotta a quella schiera di ispirazione liberal-democratica capace di rimarcare le disparità sociali con tale pesantezza ed esasperazione da screditare l’argomento di protesta. Nata in grembo agli strumenti mediatici dei millennials, l’onda informe degli SJW, sulla scorta del rivoluzionario attivismo “twitteriano”, si sviluppa sui siti di massa quali Tumblr, Reddit, 4chan e vari altri nodi telematici in cui la libertà di opinione è regolarmente abusata. Forte delle conquiste giuridiche novecentesche e inebriata dall’idealismo dell’uguaglianza assoluta, la neonata scuola di pensiero si manifesta in marce variopinte e affollati convegni per discutere, con fare puntualmente anacronistico, delle disparità convenzionali. Gli ex leoni da tastiera e ora rivoluzionari in erba analizzano in modo ingannevole la politica, l’umorismo, la letteratura e perfino madre natura stessa; non soddisfatti, si prodigano per denunciare il marciume della mentalità occidentale, arrivando a coniare improbabili locuzioni come “il razzismo shakespeariano”, “la misoginia delle serie tv anni Novanta” e “l’ingiustizia biologica che gli uomini siano mediamente più alti delle donne”.

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Una breve quanto sarcastica enumerazione delle prerogative di un social justice warrior, qua paragonato alla sua “destrorsa” e altrettanto disdicevole controparte, un esponente dell’Alt-Right.

In tempi recenti, lo spirito del movimento si è esteso fuori dalla vacuità astratta del web per insinuarsi nelle università e negli annoiati salotti di quelle élite benpensanti pasciute nell’ipocrisia hollywoodiana e tuttavia investite, oltre che di una fasulla integrità morale, di un’indebita visibilità che le abiliti a dar lezioni di giustizia al mondo.

Le guerre dell’Academy

E proprio quell’ambiente hollywoodiano, un tempo fortino commemorativo dei pionieri dell’Ovest alle prese coi pellerossa, si è trasformato in terreno fertile per il risentimento politicamente corretto: i grandi nomi della comicità (Seth MacFarlane e Louis C.K. per dirne un paio) sono degradati a sessisti e le nomination ridotte a liste di proscrizione. Cavalcando gli scandali dei vari Weinstein, Spacey, Allen e Polansky, e rimarcando la vergognosa chiarezza somatica dei premiati agli Oscar, la ghigliottina dell’Academy (tra un abuso sessuale, un naso incipriato e un gomito alzato) affila il taglio della lama e alza gli scudi contro l’esordiente minaccia del trumpismo. Ecco sovvertito l’ancien règime: ecco la rinuncia alla meritocrazia artistica in favore dell’equità politica, ecco il rifiuto del garantismo per far spazio all’inappellabile processo mediatico.

E benché il giornalismo trovi interesse nell’esplorare i discorsi avanguardistici degli adirati Robert De Niro, Meryl Streep, J.K. Rowling e Scarlett Johansson, ciò che più preme al “basso” pubblico sono le ripercussioni della nuova intransigente forma mentis sui riadattamenti e seguiti dei franchise cinematografici, fumettistici e letterari preferiti.

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Il celebre monologo di Robert De Niro contro il neoeletto presidente Trump.

Blackwashing e femalewashing

Benché si tratti di una pratica introdotta dal piccolo schermo, in particolare dai programmi d’intrattenimento giovanile a sfondo fumettistico firmati BBC, CW e FOX, il blackwashing e, con minor frequenza, il femalewashing non hanno tardato a raggiungere le grandi pellicole. Con i suddetti termini si suole indicare la tendenza delle distribuzioni cinematografiche a modificare radicalmente, nell’etnia o nel sesso, un personaggio protagonista dell’opera trasposta. Si fa riferimento ai sempre più frequenti casi di attori di colore selezionati per il ruolo di personaggi canonicamente bianchi o di attrici per parti canonicamente maschili.

Un fenomeno, quello dell’aumento forzato delle quote rosa e nere, che pecca non tanto di audacia quanto di coerenza. Se l’obiettivo preposto è quello dell’integrazione, l’approvazione del pubblico è altresì essenziale o le variazioni sul tema rischieranno di essere capricci fini a sé stessi o, peggio, di suscitare avversione: tale è la sensibilità degli appassionati che l’effetto sostitutivo non farebbe che generare diffidenza al botteghino (la poco memorabile riedizione dei Fantastici 4 insegna). Piuttosto è il completamento, o meglio la conciliazione del vecchio e del nuovo a convincere le masse sulla necessità e la bellezza dell’innovazione. L’ormai inarrivabile Marvel, che pure ha fatto più volte ricorso ai citati discutibili metodi nel rinomato Cinematic Universe, offre nella sua controparte cartacea un’ampia gamma di reclute mascherate più equamente diversificate in termini di colore, sessualità e genere: e in virtù della loro natura supplementare, questi nuovi eroi riescono non solo a conquistare quelle particolari categorie etniche e culturali cui sono esplicitamente indirizzate, ma ad interessare anche i lettori incalliti in cerca di novità, non di storpiature. L’iconografia è tutto fuorché una sciocchezza, le immagini non sono vuoti simulacri: i personaggi che accompagnano lettori e spettatori per intere generazioni divengono un patrimonio, un retaggio non suscettibile di cambiamento.

Nessuno discute la britannicità di Idris Elba, ma perché, piuttosto che minacciare un rimpiazzo dell’universalmente noto 007 (James Bond), non impiegare un interprete di tale bravura per impersonare l’agente 009 che da 55 anni a questa parte resta ancora una menzione senza volto? Nessuno ha da ridire sulle qualità recitative di Noma Dumezweni nel ruolo di Hermione Granger nell’ottava iterazione di Harry Potter, ma perché compromettere la canonicità dei romanzi contraddicendo le inequivocabili descrizioni ivi contenute? Nessun critico avrebbe ragionevolmente da sindacare sulle abilità attoriali di Tony Revolori, ma perché (nell’ormai terzo tentativo di dar forma ad uno Spiderman cinematograficamente credibile) compromettere l’essenza di un personaggio come quello di Flash Thompson, uno stereotipato bullo della suburra newyorkese “tutto muscoli e niente cervello”, affidandone l’interpretazione ad un artista che – con ogni dovuto rispetto – non gode della fisicità adatta a costituire una minaccia per i corridoi del liceo?

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Il tweet della Rowling sul casting di Hermione Granger in Harry Potter and the Cursed Child, piece teatrale sequel della serie a romanzi originale.

Riflessioni che ci conducono inevitabilmente ad un’unica conclusione: creare costa, sostituire no. Plasmare una personalità ex novo, allegarle un’origine credibile e inserirla con coerenza nel contesto e negli antefatti di una realtà preesistente, ingaggiare sceneggiatori e scrittori capaci di formulare storie interessanti e non riciclate che spingano i seguaci ad avvicinarsi e conoscere le potenzialità della neonata creatura… è un sacrificio che rischia di non essere ricompensato dalle adeguate attenzioni. È più facile – e maggiormente remunerativo – ripiegare sullo scialbo rimaneggiamento, mascherarlo da guerra per i diritti e violentare i capolavori a discapito di quei fan della prima ora a cui è dovuto ogni successo e ogni grandezza.

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