Non è un paese per videogiochi (e per videogiocatori)

Il medium videoludico anche in Italia è ormai all’apice del mercato dell’intrattenimento: il numeri di fruitori, investimenti e ricavi di denaro e tecnologie impiegate è di gran lunga superiore a quelli dei media cosiddetti tradizionali, dalla carta stampata alla televisioni. Tuttavia decenni di sviluppo tecnologico e di creazione di nuovi sbocchi occupazionali, che si traducono in tangibile produzione di ricchezza, non hanno scalfito minimamente quello stigma popolare sui videogiochi, secondo il quale i videogiocatori siano bambinoni perdigiorno con qualche rotella fuori posto, magari proprio a causa del loro tempo trascorso giocando. L’ultimo episodio in merito è stata la polemica su Twitter a seguito di alcuni interventi dell’ex Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda. La polemica è partita da alcune sue scelte educative per i propri figli sì opinabili, tuttavia strettamente personali, ed è giunta ad una lampante dimostrazione di una sua errata visione dei videogiochi (chiamati da lui “giochi elettronici”, locuzione davvero desueta per usare un eufemismo), sia come mezzo comunicativo in sé che come fenomeno economico in espansione. Esattamente ciò che non ci si aspetterebbe da una figura politica che ha retto in passato quel dicastero.

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Uno dei tweet dell’ex ministro Calenda che ha scaturito tale polemica.

Quest’articolo non nasce con lo scopo di ripetere i benefici per la propria salute psicofisica dell’avere tra i propri hobby i videogiochi e i rischi in casi di abuso: sono tematiche già ampiamente dimostrate e analizzate, basta una rapida ricerca su Internet. Piuttosto l’intento è quello di discutere sulle origini di tali pregiudizi e sulle sue storture nell’opinione pubblica.

È la Nintendomania (per bambini da 0 a 12 anni)

Quasi tutti i luoghi comuni partono da fatti comprovati, che da essi per sineddoche si estendono a tutte le casistiche inerenti ad una particolare categoria e ne diventano erroneamente delle caratterizzazioni. Ad esempio, il pregiudizio sui rom secondo cui siano dediti al furto di metalli deriva da una secolare tradizione metallurgica di tale etnia, che affonda le sue radici nel pieno Medioevo. Il luogo comune per cui i videogiochi siano considerati dai non addetti un’attività destinata esclusivamente ai bambini non fa eccezione: nel 1985 il mercato dei videogiochi era ancora pesantemente scosso dalla crisi di vendite dei primi anni Ottanta, schiacciato dall’eccessivo avanzo d’offerta rispetto alla domanda e dalla scarsa qualità dei prodotti venduti se confrontati con i corrispettivi videogiochi per gli home computer dell’epoca, che avevano dalla loro anche un vantaggio tecnologico sull’hardware e una notevole varietà d’offerta sul software. In parole povere, con una console ci si poteva solo giocare, con un computer ci si poteva fare molto altro.

Nintendo, ancora lontana dall’essere il colosso odierno, stava pianificando da un po’ la distribuzione fuori dal Giappone della sua console di punta dell’epoca, il Famicom, ed era alla ricerca di partner commerciali più esperti nel mercato occidentale. In patria il Famicom stava vendendo di più rispetto al suo diretto concorrente, il SEGA Mark-III, ma SEGA aveva già avviato una distribuzione all’estero della sua console, modificata esteriormente e ribattezzata fuori dal Giappone SEGA Master System. SEGA distribuiva personalmente la console e i videogiochi in giro per il mondo, tuttavia adoperava campagne pubblicitarie “classiche” e vendeva i prodotti nei negozi di elettronica. Ciò si rivelò un mezzo fiasco, poiché il pubblico dell’epoca non vedeva di buon occhio l’ennesima console di videogiochi in un mercato ancora saturo di Atari ed Intellivision invenduti.

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Pubblicità del NES all’interno di un catalogo Toys’R’Us per il Natale 1986.

Nintendo fece tesoro di ciò e cambiò completamente lo scenario: decise sì di espandere il suo mercato oltre i patrii confini, modificando la scocca e parte dell’hardware per il mercato occidentale e ribattezzando la console in Nintendo Entertainment System (NES), ma in modo tale da rendere il prodotto più neutro ed “ambiguo” nei nomi. Non più console di videogiochi e cartucce, ma “sistema d’intrattenimento” e “pacchetti gioco” (Game Pak). Tuttavia la strategia di mercato vincente fu un’altra: Nintendo decise di distribuire il NES nei negozi di giocattoli e di prodotti per l’infanzia, con campagne pubblicitarie dedicate piene di bambini felici del loro nuovo NES ricevuto come strenna natalizia, e stringendo accordi di distribuzione con partner attivi nel settore dei giocattoli, come ad esempio Mattel per l’Europa occidentale (erano altri tempi). Nintendo non stava vendendo una console di videogiochi, stava vendendo un giocattolo a tutti gli effetti.

Ciò cambiò completamente lo scenario e spinse SEGA ai ripari, adattandosi in fretta e furia al paradigma imposto dal suo diretto concorrente. Venne venduta una nuova versione del Master System, riveduta nel design in modo tale da risultare più “giocattolosa”, e cercò altri partner del settore dei giocattoli, trovando proficue collaborazioni con Giochi Preziosi in Italia e TecToy in Brasile. Indimenticabili ad esempio gli spot qui da noi in Italia all’interno di Bim Bum Bam. Questo paradigma si protrasse anche nella generazione successiva, negli anni più vividi della console war tra Super Nintendo e Sega Mega Drive, fino a quando poi le evoluzioni tecnologiche introdotte nel settore dei videogiochi da Sony prima nella seconda metà degli anni Novanta e da Microsoft poi nei primi anni Duemila hanno riportato il baricentro del mercato nuovamente verso l’elettronica di consumo ed un pubblico adulto.

Evviva il piccolo mondo antico, quando fa comodo

La strategia di mercato che Nintendo perseguì circa trent’anni fa non fu l’unica causa del pregiudizi sui videogiochi come prodotto esclusivo per l’età scolare, tuttavia rimase così impressa nell’immaginario collettivo da risultarne polarizzante ancora oggi. D’altronde il NES fu la prima vera console di videogiochi blockbuster in Italia, successo poi bissato da Sony con la sua prima Playstation, che per tutti i non addetti ai lavori divenne di fatto sinonimo stesso di videogioco, ma pur sempre destinato ad un pubblico molto giovane.

È bizzarro constatare come, in un’epoca di tecnologia così presente nelle vite di tutti i giorni, persistano per alcune particolari casistiche visioni assolutamente anacronistiche, quasi da rigetto psicologico, nonostante ad esempio ormai tutti abbiano uno smartphone in tasca e non più dei gettoni telefonici. Parlando sempre di smartphone, essi di fatto sono diventati anche le maggiori “console portatili” nel mercato, inoltre contro-intuitivamente il loro utilizzo come appunto piattaforme per videogiochi è considerato tranquillamente normale. Nonostante vada sempre posta una distinzione in quest’ambito tra videogiochi propriamente detti e scacciapensieri stile Candy Crush Saga, questa discrepanza d’opinione popolare rientra all’interno della auto-categorizzazione alla base della teoria dell’identità sociale: uno smartphone in tasca è oggi giorno normalità, quindi utilizzarlo per giocare al freemium stampinato di turno mentre ad esempio si aspetta il tram non desta alcun sentimento, appunto per l’essere ormai pratica comune. Fare lo stesso con un Nintendo Switch o un Playstation Vita invece suscita reazioni diverse, perché considerato un comportamento “estraneo” al proprio gruppo d’appartenenza.

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Angry Birds o Super Mario World, non fa tanta differenza se si gioca con uno smartphone.

La mancanza di una critica maestra

«Quando la ragione è debole, il pregiudizio è forte» recita un’aria del Midas di O’Hara. L’accettazione del luogo comune non nasce di certo dall’ignoranza sull’argomento, ma di certo prolifera se a mancare è un giudizio critico che esperti del settore dovrebbero in teoria divulgare verso tutti gli altri, e non pontificare auto referenziandosi. Certo, ciò non eliminerà del tutto alcuni processi mentali che tendono a semplificare forma e sostanza in un tutt’uno, confondendo quindi messaggio e mezzo di comunicazione ed elaborando di conseguenza giudizi sommari e non veritieri (ciò non vale solo per i videogiochi come medium, basti pensare ad esempio all’animazione e alla computer grafica).

Parlare oggi di critica videoludica può sembrare come sparare sulla croce rossa; gli strascichi del Gamergate sono ancora vivi all’interno di una comunità internazionale che ha di fatto espulso la componente critica dal mondo dei videogiochi. Ciò è un peccato, poiché a causa dell’incapacità e/o dell’assenza di deontologia da parte di qualcuno ci ha rimesso un’intera categoria. Il mero gusto personale di ognuno resta insindacabile, purché quest’ultimo non venga scalato a giudizio più o meno oggettivo: affinché ciò sia possibile occorre far proprio un minimo bagaglio di conoscenze sul medium e sulle sue sfaccettature, tecniche (programmazione, modellazione grafica, etc.) e artistiche (sceneggiatura, regia, musiche, etc.). Nulla di eccessivo, basi acquisibili con esperienza e studio personale, tuttavia propedeutiche per poter affrontare un giudizio su un’opera così come viene venduta al pubblico, senza cadere eccessivamente nei propri bias né lisciare il pelo ad un politicamente corretto forzato che valuti un videogioco ad esempio in base a quanti personaggi LGBT siano presenti nella sceneggiatura.

In Italia per fortuna il Gamergate è stato completamente ignorato: sarebbe stato ancor più ghettizzante per un videogiocatore italiano avere a che fare con un’ulteriore stigma sociale infondato, quello dell’estremista di destra, misogino e xenofobo. Tuttavia la stortura dei videogiochi come “roba per bambini” ha fatto sì che non si sviluppasse una vera e propria classe giornalistica da terza pagina con tutti i crismi, quanto piuttosto una schiera di recensori pubblicisti dediti a tale attività più per “passatempo” o per gavetta finalizzata ad un giornalismo “dei grandi”. Insomma una critica che, anziché cercare di fornire gli strumenti per scardinare i luoghi comuni sul mondo dei videogiochi, praticamente li alimentavano. Inoltre l’evoluzione digitale e la globalizzazione commerciale degli ultimi due decenni ha permesso a chiunque di usufruire di beni e servizi prima preclusi solo a pochi eletti con gli agganci giusti, quali appunto redattori di riviste specializzati con collaborazioni intercontinentali (USA e Giappone principalmente); l’annullamento di quel vantaggio ha comportato la fine di quell’oligopolio che teneva su la baracca.

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Claudio Todeschini (foto dal suo account LinkedIn).

Un lungo articolo di qualche mese fa redatto da Claudio Todeschini, una delle firme italiane più illustri in quest’ambito, che voleva essere una denuncia di un depauperamento ormai completato della stampa videoludica italiana, sembra in realtà una dichiarazione di resa incondizionata, ma non priva di polemiche sterili e di accuse semplicistiche che non gli fanno affatto onore. Rendere a macchietta i pubblicisti o prendersela con youtuber che non fanno critica, quanto piuttosto mero intrattenimento ad un pubblico quello sì molto giovane, e non hanno affatto intenzione di sostituire il formato visivo a quello scritto è inutile verso lo scopo stesso della critica ed è inoltre mortificante verso le nuove leve che comunque vogliono provarci a fare critica videoludica con tutti i crismi. Si può fare con a disposizione conoscenze tecniche e lessicali e tanta passione, senza bisogno di “tesserini”, di inserire necessariamente “numerini” e “commentini” o di piazzare una miriade di banners pubblicitari per tirar su qualche spicciolo. Provare per credere!

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