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Per una storia dell’umor nero: melanconia e nostalgia

Published by
Bianca Coluccio

Esistono degli interrogativi che hanno attanagliato gli uomini di ogni tempo, in qualsiasi luogo. Se la forza delle domande sta nel loro costante e continuo riproporsi, alcune di queste possiedono una carica distruttiva. Oltre alle domande di ordine filosofico, di cui non si ha la presunzione di parlare in questa sede, ve ne sono alcune che – seppur considerabili minori – continuano nonostante il trascorrere del tempo a non trovare risposta. Uno degli interrogativi sui quali non si è mai smesso di interrogarsi riguarda la natura dell’umor nero, dell’insorgenza inspiegabile – o inspiegata –  di tristezze e dispiaceri. Già gli Assiri si erano domandati da dove venisse questo malessere, fino a giungere alla conclusione che arrivasse all’uomo quando gli fosse stata negata la protezione divina. Chiaramente, col trascorrere del tempo, andava rendendosi evidente la scaturigine del tutto ignota oltre che ingiustificata di quella che poi i Greci chiamarono melanconia.

Fino alla fine del V secolo, tristezza, senso di solitudine, sofferenza e tedio erano tutti considerati dai Greci effetti negativi del μέλας (mèlas) la cui traduzione letterale è “nero”. Con questo termine, in realtà, veniva indicata una sostanza alla cui produzione veniva attribuita la causa di azioni folli. L’agire follemente era indicato infatti dal verbo μελαγχολᾶν (melancolàn). Nel secolo successivo, poi, lo stesso comportamento folle iniziò ad essere associato a personalità mitiche. Ad esempio era quello di Eracle, che stermina i propri figli, o quella di Aiace Telamonio, che muore suicida in un impeto di follia. O ancora, decisamente più emblematica, si pensi alla figura di Bellerofonte, a cui anche Tasso assocerà l’umore melanconico. Bellerofonte, infatti, subisce il tracollo senza alcuna motivazione specifica. Anzi, aveva superato gli agguati, conquistato un regno, sconfitto la Chimera. Aveva, dunque, collezionato una serie di vittorie, che pure non gli hanno valso la contentezza: anzi, piuttosto lo hanno stremato rubandogliela.

Turchi Alessandro, Ercole uccide sua moglie Megara e i figli.

Tuttavia, in questo modo, era quasi come se certi sentimenti potessero essere appannaggio esclusivo di personalità eroiche, o in qualche modo degne di ammirazione. Passava il messaggio che alcuni sentimenti potessero nascere solo in animi e menti in grado di concepirli, come se alla scaturigine dell’emozione fosse assolutamente necessario un terreno di virtù, eroismo, intelligenza. Questa stessa tesi venne sostenuta da Aristotele nei Problèmata, in cui afferma che tutti gli uomini che hanno dimostrato doti eccezionali nel campo della filosofia come in quello dell’arte, della politica o della letteratura, hanno anche dimostrato di contro un temperamento melanconico.

Bisogna tener conto che fino a questo momento, però, la melanconia era comunque delineata come una qualsiasi patologia clinica. Ippocrate tenta di porla a sistema inserendola nella Teoria dei quattro temperamenti. Secondo lui, l’eccessiva produzione di bile nera era responsabile delle oscillazioni umorali melanconiche. Esistevano poi altri tre fluidi – la bile gialla, il sangue, e il flegma – che insieme alla bile nera corrispondevano alle quattro stagioni dell’anno, alle quattro stagioni della vita e ai quattro elementi della natura.

I quattro apostoli di Dürer rappresentano allusivamente i quattro temperamenti: Giovanni (sanguigno), Pietro (flemmatico), Marco (collerico), Paolo (melanconico).

In età moderna, poi, seppure tanti siano stati gli studiosi che hanno scritto della melanconia in maniera sistematica e organica, è stata accettata e assimilata l’idea che il melanconico si dolga per nessuna ragione specifica: all’uomo melanconico duole semplicemente il proprio dolore, e in questo trova le sue ragioni e al di fuori di questo non esistono risposte ulteriori. Ed è proprio in questa chiusura, in questa passività coatta della malinconia, che si inserisce la differenza sostanziale con la nostalgia. Se il melanconico duole di sé stesso o di niente, il nostalgico non solo sa di cosa si duole, ma sa anche come porvi rimedio.

‘Nostalgia’ è invece un termine la cui nascita si colloca in un tempo relativamente recente. La adopera Hofer a metà del Seicento nel trattato medico Dissertatio Medica de Nostalgia. Come nel caso della melanconia, si ritrovano le ragioni caratterizzanti della parola all’interno della sua etimologia: si compone di un primo termine, νόστος (nòstos) che significa “ritorno” e άλγος (àlgos) col significato di “dolore”. Letteralmente, quindi, indica un malessere che nello specifico nasce da un’assenza o da una mancanza. Nell’individuare l’origine della sua sofferenza, insomma, riesce anche a definire autonomamente la soluzione che le serve. Se la melanconia soffriva in maniera del tutto indeterminata e quindi implacabile, la nostalgia sa in che punto soffre e sa anche cosa la rende dolente.

Essendo l’assenza fisica una questione essenzialmente geometrica, il male che questa causa si può eliminare semplicemente eliminando la distanza tra dove si è fisicamente e dove si è sentimentalmente. Perché una delle caratteristiche principali del nostalgico è quella di sdoppiarsi su due piani, sempre: è due volte presente in due luoghi diversi – dove si trova e dove vorrebbe trovarsi – eppure proprio in virtù di questa doppia presenza in realtà è assente in entrambi i posti. La distanza del nostalgico rende peraltro il luogo vagheggiato migliore semplicemente perché manchevole. Non si ama la propria casa in virtù di una qualche caratteristica specifica se non quella di esserci appartenuta in un tempo precedente, che si ricorda con affetto.

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Bianca Coluccio

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