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Internet e l’attentato in Nuova Zelanda: la rottura della “parete”

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Francesco Stati

Mentre in Italia non si era ancora esaurita la polemica sulla triste vicenda dei bambini disabili accostati ai malfunzionamenti dei social del gruppo Facebook, dall’altra parte del globo sullo stesso social veniva avviata una video diretta dai contorni agghiaccianti: Brenton Tarrant, un giovane australiano di 28 anni, equipaggiato con numerosi fucili d’assalto e vestito come un vero e proprio soldato, decideva di munirsi di telecamera in prima persona (quasi come si fosse dentro Call of Duty) e di entrare in due moschee nella cittadina di Christchurch, in Nuova Zelanda, sparando ad altezza uomo contro delle persone indifese, riunitesi in quel luogo soltanto per pregare, con l’unica colpa di essere di fede musulmana. Dopo aver mietuto oltre 49 vittime [le stime in questo momento sono ancora incerte, N.d.R.], il suprematista bianco, vicino agli ambienti della destra alternativa (alt-right), si consegnava alla polizia neozelandese, non senza aver tentato la fuga in macchina.

La vicenda in sé, agghiacciante per i risvolti, è ancora più significativa se si considerano i modi in cui è stata pianificata e annunciata. Poche ore prima dell’attacco, Tarrant aveva postato su 8Chan [una board simile a 4Chan, dove a differenza di quest’ultima si può scrivere anonimamente qualsiasi cosa senza un filtro di amministratori del sito, N.d.R.] tutti i riferimenti ideologici del suo agire e il link dove i suoi seguaci avrebbero potuto guardare in diretta la “rimozione del kebab”, ossia l’uccisione di persone motivata dal loro essere di fede islamica e, quindi, “invasori” e causa di una presunta sostituzione etnica (stando a quanto si legge nel suo manifesto ideologico).

Il messaggio dell’attentatore con tutti i riferimenti web per seguire e comprendere le sue “gesta”.

Sui caricatori delle sue armi e sulle armi stesse, l‘attentatore ha scritto i nomi di alcuni suoi modelli culturali, sia storici che attuali. Sono presenti, tra gli altri, l’italiano Luca Traini, l’autore dell’attacco di Macerata in cui rimasero ferite sei persone di origine africana e Sebastiano Venier, il doge veneziano della battaglia di Lepanto (1571), simbolo della resistenza cristiana all’invasore islamico. Sono inoltre menzionate numerose battaglie che hanno visto le forze cristiane sconfiggere quelle musulmane. Nel suo manifesto ideologico non mancano i riferimenti a personaggi dell’area politica militante degli alt-right come Anders Behring Breivik, l’uomo della strage di Utoya, e idee deliranti su come gli islamici stiano cercando di sostituirsi alla pura razza bianca su scala mondiale.

Un estratto del manifesto ideologico dell’attentatore, in cui si fa riferimento a Breivik e a Traini.

Il video, che non riporteremo in questa sede per via della sua estrema crudezza ma che è facilmente reperibile online, mostra dei particolari interessanti e incredibilmente sottovalutati dai media di settore (forse perché appartenenti a una sottocultura poco nota in Italia). Le canzoni utilizzate da Tarrant durante la sua delirante diretta sono diretti riferimenti a dei meme molto famosi nel panorama internettiano della sottocultura web: sono presenti Remove Kebab (canzone nazionalista serba solitamente parodiata per il suo essere ridicolmente razzista), oltre a diverse canzoni eurobeat come quelle tratte dall’anime Initial-D e dal genere musicale vaporwave (mentre l’attentatore scappa dalla polizia); inoltre, all’inizio del video è presente un invito a iscriversi al canale YouTube di PewDiePie, primo entertainer del social per numero di iscritti spesso accusato ingiustamente di nascondere dietro la propria ironia un pensiero razzista e xenofobo [i suoi video sono marcatamente ironici e caricaturali, N.d.R.]. Nel manifesto politico-ideologico non mancano fra le altre cose riferimenti a ulteriori meme come il copypasta del Navy Seal (presa in giro ironica del classico tipo umano arrogante su internet) e del razzista americano.

Il Navy seal copypasta nel manifesto dell’attentatore, usato per simpatizzare con il lettore (o schernirlo?).

Questo attacco differisce da azioni simili perché si può affermare con ragionevole sicurezza che sia il primo della sua specie a essere sì derivante da una radicalizzazione internettiana come i suoi predecessori ma che, diversamente da questi, abbia fatto uso di alcuni termini dello slang ironico tipico della sottocultura dei meme distorcendone il significato da satirico a razzista, andando a rompere quella barriera (o layer, in gergo tecnico) che separava fino a oggi la violenza delle parole dalla violenza delle azioni. La parete dell’internet era sempre stata considerata da chi vive sulla rete come imperforabile e le intenzioni parodistiche e ironiche del razzismo-non razzismo sul web erano sempre state giudicate come palesi dai suoi utilizzatori. Oggi gran parte del popolo del web scopre con sorpresa, sgomento e disillusione (tardivi?) che dietro a molti individui che in rete si professano razzisti ironici si possono nascondere degli esaltati nazionalisti che celano dietro una presunta intenzione parodistico-esageratoria la ferma volontà di preservare la razza bianca caucasica dalla sostituzione etnica messa in atto da dei presunti miliziani islamico-africani. I vecchi media farebbero bene ad approfondire questo nuovo aspetto culturale, che si sta prepotentemente affermando fra i giovani con rapidità fulminea, se non vogliono perdere l’occasione di informare lettori vecchi e nuovi sulla pericolosità che una risorsa rivoluzionaria e positiva come internet può avere per i navigatori inesperti e impreparati.

In questo video, di cui è fortemente consigliata la visione per approfondire la questione, l’ottimo Luca Tornabene spiega in modo più diffuso i concetti già espressi nel presente editoriale.

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Francesco Stati

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