Sabato pomeriggio Silvia Romano è rientrata in Italia, dopo essere stata rapita il 20 novembre 2018 in Kenya, mentre operava come volontaria per l’associazione Africa Milele Onlus. In questi diciotto mesi abbiamo ricevuto poche notizie sulle sue condizioni, e la nebulosità della faccenda ha rischiato di far precipitare nel dimenticatoio la sua storia, come quella di altri rapimenti.
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Appena ci mettiamo in contatto con lui, dalla voce traspare la residua emozione per la liberazione per quella che «senza conoscerla, è diventata col tempo un’amica» e – pur non ammettendolo esplicitamente – la stanchezza per le varie interviste e dichiarazioni che sta rilasciando negli ultimi giorni ai principali giornali italiani.
«Non saprei come trasferire nelle parole il sentimento che ho avvertito in me sabato pomeriggio. Pur non conoscendola direttamente, per me è stato quasi come se fosse ritornata una mia cara amica. Nel seguire la sua storia mi sono affezionato a lei. Se dovessi trovare una risposta, ti direi che ho forse provato la più normale tra le sensazioni: la felicità di aver ricevuto una bella notizia».
«In realtà in questi mesi ho ricevuto informazioni molto parziali. Se ti raccontassi alcune delle cose che mi è toccato sentire non saprei neanche quantificare la creatività e la fantasia messe in campo ad hoc per creare scalpore attorno alla storia di Silvia Romano. Non voglio neanche ricordarle perché si sono dimostrare clamorosamente false.
L’unica informazione certa che abbiamo avuto negli ultimi tempi è stata la certezza, confermata dal video dello scorso gennaio, che Silvia fosse viva. Questo ha alimentato le nostre speranze».
«Personalmente non ho alcun argomento in contrario al pagamento di un riscatto per liberare Silvia, come chiunque altro. Per quanto pochi Paesi occidentali lo ammettano apertamente, è la prassi durante queste trattative. Gli stessi Stati Uniti hanno scambiato prigionieri di Guantanamo per la buona riuscita di una “trattativa”; l’Italia lo ha sempre fatto. Chiaramente sarei contento se non si pagasse nulla, ma a quale rischio? Far morire chi è sotto sequestro?
«La cosa più importante, in questo momento, è salvaguardare il benessere di Silvia. Perdonami una battuta: se ci fossimo concentrati di più sul fatto che Silvia al rientro desiderasse della pizza, non saremmo improvvisamente diventati tutti esperti di sindrome di Stoccolma, conversioni religiose e islamismo. Quest’ultimo per l’ennesima volta mischiato indiscriminatamente nel calderone del terrorismo, come se si trattasse di una cosa sola».
«Si tratta delle solite speculazioni imponderabili da parti di chi probabilmente non ha ancora capito, o non vuol capire, cosa voglia dire aver vissuto per diciotto mesi in quelle condizioni. L’importante, riferendomi anche al discorso su media e giornalismo di poco fa, ma anche nella politica, è fare bene il proprio mestiere: non correre dietro alla notizia. Per esempio, la voce che è girata nelle ultime ore sulla sua presunta gravidanza».
«Si sarebbero concentrati ancor di più sulla polemica del riscatto di cui parlavamo poco fa. Chi straparlava nelle prime fasi del rapimento è lo stesso che straparla anche alla fine della vicenda. Dichiarazioni e sciacallaggi che probabilmente, e per fortuna, tra qualche giorno passeranno di moda, sostituiti dalla nuova notizia del giorno.
Lasciamo i soliti noti in balìa della loro follia e occupiamoci veramente di Silvia, perché possa presto tornare ad avere una vita normale».
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