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Curiosità

Giuseppe Turchi: coltivare relazioni positive

Published by
Marco Capriglio

Coltivare relazioni positive, soprattutto in questo momento di emergenza sanitaria, risulta di fondamentale  importanza. Lo sa bene anche lo scrittore e docente Giuseppe Turchi.
Nato a Parma nel 1989, Giuseppe Turchi si è laureato alla facoltà di filosofia della sua città natale, è stato cultore della materia e attualmente insegna nelle scuole secondarie di secondo grado.

Appassionato di neuroetica e psicologia, ha pubblicato due racconti morali: Nel battito del colibrì nel 2016 e Cortecce rosse nel 2018, entrambi per Edizioni La Gru. Scrive anche articoli divulgativi: collabora come redattore per l’Associazione Culturale Luigi Battei di Parma e scrive per il portale di critica poetica La Settima Arte.
Ha dichiarato di battersi con le unghie e con i denti per una riforma scolastica incentrata sull’educazione affettiva, digitale e sul pensiero critico.

Giuseppe Turchi. Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Oggi theWise Magazine ha incontrato lo scrittore e docente Giuseppe Turchi.

Sei laureato in filosofia e scrivi romanzi. Come possono conciliarsi questi due aspetti della tua vita?

«Devo confessare che ho sempre avuto l’istinto a conciliare queste due dimensioni, poiché penso che l’arte possa avere un valore educativo. Stimolando l’immaginazione, infatti, un testo, un film o un quadro sono in grado di far vivere delle esperienze ai fruitori, espandendo così il loro orizzonte di conoscenza. In quello che scrivo cerco di condensare quelle tematiche che ritengo più urgenti, come la riflessione morale, politica e pedagogica, con cui la filosofia si confronta da sempre.

Attraverso la narrativa io tento di divulgare e suscitare un dibattito, cosa che ho scoperto essere tremendamente
difficile, poiché un romanzo deve mettere al centro la storia piuttosto che astrusi discorsi sui massimi sistemi. La sfida sta proprio nel disseminare e dissimulare i messaggi attraverso scene e dialoghi che possano risultare familiari a tutti».

Quali sono i tuoi autori e i tuoi testi di riferimento, nell’attività letteraria e nella tua professione di docente?

«A livello letterario, i primi due libri ad avermi profondamente coinvolto sono stati Il conte di Montecristo e Il gabbiano Jonathan Livingstone. Il primo per il carattere vivido delle emozioni che rodevano i personaggi, il secondo per i suoi toni esistenzialistici e spirituali. Poi sono venuti Stephen King, Dan Brown, George Orwell e J.K. Rowling. Il loro creare universi alternativi, spesso conditi di misteri intriganti, mi aveva appassionato moltissimo.

Tuttavia sono sempre stato più portato per la saggistica, e qui come riferimento ho certamente John Dewey, Daniel Goleman e Darcia Narvaez. Grazie a loro e a tanti altri autori incontrati durante gli studi universitari, ho potuto dare un senso e uno scopo a tutte le ore passate sui libri. Lo studio della psicologia si rivela utilissimo in ogni aspetto della vita, soprattutto se condotto in sinergia con la filosofia e la pedagogia».

Di cosa trattano i tuoi due primi romanzi?

«Nel battito del colibrì parla di come un individuo percepisce il proprio tempo vissuto nelle dimensioni del passato (memoria), presente (attenzione) e futuro (attesa) concentrandosi in particolar modo sulle derive psicologiche di un passato doloroso. Gli eventi spiacevoli o traumatici subiti nel corso della vita, infatti, possono condizionare pesantemente il nostro rapporto con gli altri e il mondo, degenerando in un atteggiamento autodistruttivo. Nel battito del colibrì è stato il mio primo tentativo di dare una risposta al tema del dolore.

Cortecce rosse, invece, è una distopia che tratta i temi del fondamentalismo religioso e del patriarcato attraverso la metafora delle mantidi religiose. È un libro nato durante il periodo di tesi, nella quale contesto l’idea che le cose naturali siano di per sé stesse buone e, di riflesso, l’idea che alcune qualità maschili, date per naturali, avvallino una presunta superiorità dell’uomo sulla donna. In Cortecce rosse sono le femmine quelle forti e soppressive, il che mi è servito per mostrare come il problema non sia intrinsecamente del genere, ma delle relazioni di potere. Se il lettore tifa per i maschi di mantide, allora non può accettare l’oppressione femminile».

Recentemente è uscito il tuo primo saggio divulgativo, dal titolo Person +. Come mai hai deciso di lanciarti nella saggistica? Di cosa tratta l’opera?

«Person + fonde in sé la ricerca accademica sul tema del potenziamento morale, ovvero come migliorare il comportamento dei cittadini, e le nozioni apprese durante i corsi per accedere all’insegnamento. Ho voluto produrre questo manualetto divulgativo di auto-aiuto perché fosse accessibile e denso di conoscenza pratica. Il fulcro del testo è rappresentato dall’idea che i rapporti umani e la società possono migliorare solo se gli individui si comportano da attivatori, ovvero se sono in grado di mettere gli altri nelle condizioni di risolvere i problemi.

Per fare ciò, però, l’attivatore deve raggiungere una propria stabilità interiore, riassumibile in consapevolezza dei bisogni, comunicazione degli stessi e cernita dei contesti. Non sapere ciò che si vuole, non comunicarlo e stagnare in un contesto disfunzionale produce frustrazione, il che rischia di portare l’individuo a comportarsi come soppressore, ovvero una personalità conflittuale, che è l’esatto opposto dell’attivatore. La nostra società e la nostra educazione, purtroppo, ci rendono spesso dei soppressori, e il peggio è che non ne siamo consci, poiché non c’è cultura psicopedagogica».

Giuseppe Turchi. Foto per gentile concessione dell’intervistato.

Dici di batterti per una rivoluzione scolastica incentrata sull’educazione affettiva, digitale e sul pensiero critico. Cosa significa? Cosa ti auguri per il futuro della scuola?

«Sono i tre pilastri che ho individuato durante il periodo di ricerca all’università. John Dewey riteneva che educazione, etica e politica fossero strettamente interconnesse e che le conoscenze scientifiche avrebbero dovuto aiutare l’umanità a coltivare l’abitudine alla democrazia. Oggi la psicologia dello sviluppo ci mostra quanto sia fondamentale la cura dei genitori per il benessere relazionale del bambino; i neuropsichiatri e i giudici ci spiegano i danni dell’uso inconsapevole delle nuove tecnologie; le statistiche rivelano che non sappiamo più interpretare un testo scritto e compiamo costantemente errori di ragionamento.

Gli studenti non hanno bisogno tanto di nozioni che dimenticheranno una volta cessate le verifiche, quanto di abilità utili per affrontare il contesto moderno, un contesto fatto di competizione e narcisismo estremi, di cyberbullismo e di manipolazione mediatica. Abbiamo un bagaglio di conoscenze psicopedagogiche e logiche immenso, ma anziché inserirlo come disciplina permanente nelle scuole, continuiamo a rincorrere l’idea del voto e di una scuola capace di immettere nel mercato del lavoro persone già formate. Questo non funziona. Il contesto mondiale sta cambiando troppo rapidamente e le competenze richieste non sono mai sufficienti. Sono gli studenti stessi a confessarlo con frasi del tipo: “Dopo la maturità mi sono ritrovato a fare tutt’altro”, “A lavoro ho dovuto
imparare tutto daccapo”. Sono sempre più necessari corsi extra. La scuola dovrebbe allora dare basi di civiltà e coltivare la plasticità dell’apprendere. Il che non vuol dire bandire l’insegnamento tecnico, quanto piuttosto ripensarlo».

Leggi anche: Il futuro della scuola italiana tra ragazzi abbandonati e mezzi insufficienti.

Puoi lasciare ai nostri lettori qualche consiglio di lettura sui temi che abbiamo trattato durante questa intervista?

«Un libro interessantissimo per capire il comportamento umano e le proprie abitudini disfunzionali è Reinventa la tua vita degli psicologi Jeffrey E. Young e Janet S. Klosko. I libri di Marshall Rosenberg, invece, ci insegnano a comunicare in modo non violento. Per chi fosse interessato a temi più specialistici, Democrazia e educazione di Dewey e l’affascinante Neurobiology and the Development of Human Morality di Darcia Narvaez».

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Marco Capriglio

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