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Economia

Le proteste e la lotta per la democrazia tra le strade di Minsk

Published by
Marco Cherubini

Rosso e verde. Il rosso del sacrificio degli antenati, il verde della vita. Il rosso del sangue di Alexander Taraikovsky, manifestante ucciso il 15 agosto da una granata tirata a distanza ravvicinata dalle forze di sicurezza bielorusse, schierate per impedire il proseguo delle proteste. Colpito alla testa, barcolla per pochi secondi, per poi rovinare al suolo e giacere immobile. Rosso e verde, colori proposti nel 1995 da Alexander Lukashenko, l’odierno dittatore della Bielorussia. C’è un velo di ironia in tutto ciò.

La scintilla da cui è scaturita la fiamma delle proteste è scattata il 9 agosto, durante le elezioni presidenziali. Subito dopo la chiusura dei seggi, la televisione di Stato ha riportato gli exit poll: nuova vittoria di Lukashenko con l’80,39% delle preferenze. Svjatlana Tikhanovskaya, l’unica oppositrice, si è fermata al 9,9%. Percentuali altissime, bulgare, tali da destare sospetti anche in quella parte della popolazione fedele al presidente uscente. È stato persino creato un sito web da parte di Golos, associazione non governativa che da anni, in Russia, si batte per il corretto svolgimento delle elezioni, per monitorare l’eventuale presenza di brogli. Ci si poteva registrare, scattare una foto della propria preferenza e inviarla. Dai calcoli compiuti sono emerse discrepanze importanti. La presidentessa della Commissione elettorale centrale, Lidiya Yermoshina, ha definito la piattaforma come un progetto creato per fomentare “disordini di massa”.

Il popolo bielorusso, dopo aver chiesto un riconteggio dei voti, è sceso nelle strade di Minsk per protestare. Nelle vie della capitale è stato accolto da forze di polizia e militari in tenuta antisommossa che hanno tentato di disperdere i manifestanti con granate stordenti, cannoni ad acqua e proiettili di gomma. Internet ha subito un blackout e alcuni giornalisti sono finiti in carcere.

Via Franak Viačorka – Twitter

Svjatlana Tikhanovskaya, la candidata inaspettata

Alexander Lukashenko è al potere dal 1994. Per ventisei anni ha governato la Bielorussia, uno dei Paesi meno democratici presenti in Europa. La popolazione è a tutti gli effetti soggetta al governo di una dittatura. Nella classifica di Reporter Sans Frontières per il 2020 si posizione al 153° posto, sopra la Turchia, ma sotto la Russia. L’accesso alle informazioni è ristretto, la maggior parte dei siti di informazione è oscurata, lo Stato esercita controllo totale sui canali televisivi, giornalisti e attivisti politici vengono minacciati e arrestati.

Questo il background dal quale proviene Svjatlana Tikhanovskaya, candidata inaspettata contro l’attuale presidente. Inaspettata perché non doveva essere lei a correre nella gara per la presidenza, ma suo marito Sergei. Ma Sergei Tikhanovksy, noto youtuber e attivista pro-democrazia bielorusso, ha subito l’arresto il 29 maggio 2020, due giorni dopo aver annunciato la sua corsa alle elezioni presidenziali. Quindi, la candidatura della moglie che dopo la sconfitta ha lasciato il Paese per dirigersi in Lituania.

«Ho preso questa decisione da sola, so che le persone mi capiranno, altre mi giudicheranno e molti altri mi odieranno, ma spero che non dovrete sostenere le scelte che ho affrontato». Lo ha comunicato in un video pubblicato sul canale YouTube del marito, dove la donna appare visibilmente turbata. Poche ore dopo, un canale Telegram governativo ha pubblicato un secondo video, dove la candidata appare calma mentre invita, leggendo da un foglio di carta, la popolazione bielorussa a terminare le proteste. Un’apparizione in diretto contrasto con quella precedente. Gli occhi della Tikhanovskaya riflettono quella rassegnazione tipica degli ostaggi che leggono un comunicato dettato dai loro carcerieri. L’appello non è servito, le proteste ancora infiammano le strade di Minsk.

Proteste a Minsk: le voci dei manifestanti

Tra chi ha deciso di scendere per strada ci sono anche Valery Lukin e Mel Nikolai, entrambi abitanti della capitale, schierati per combattere a favore della libertà, per dire basta ad elezioni pilotate.

«Le proteste sono state sempre pacifiche. Ci hanno tolto internet, hanno tagliato le connessioni il giorno delle votazioni. Siamo usciti per sapere i risultati dei ballottaggi e le forze di sicurezza hanno iniziato a sparare con proiettili di gomma, tirando granate stordenti e picchiandoci. Più di ottanta persone sono scomparse ed è sconosciuta la loro condizione, svanite come fantasmi» afferma Valery.

«Sotto casa mia, persone vestite con abiti civili si sono messe ad attaccare i cittadini, picchiandoli e portandoli via in auto. Indossavano maschere e portavano manganelli. Si comportavano come fascisti» racconta Mel. «Un mio amico, di un’altra città, è stato arrestato il 9 agosto e ha passato quattro giorni in carcere. Fortunatamente non l’hanno picchiato, ma ha dovuto firmare un documento nel quale accettava di non scendere più per le strade a manifestare» continua Nikolai. Le proteste sono sintomo di un malcontento già da tempo latente nel Paese. Entrambi raccontano di come l’economia sia ad un passo dal baratro, di come con il passare degli anni il governo abbia posto sempre più divieti sul diritto a manifestare.

L’elite politica e i vertici militari restano schierati a favore del presidente. Alcuni tra il personale di sicurezza hanno abbandonato il loro posto, schierandosi con i manifestanti: si sono tolti l’uniforme e le hanno dato fuoco. L’hanno fatto pur sapendo che tutto ciò avrebbe portato a ripercussioni, il carcere o peggio. «Ci sono conflitti interni. Molto personale si è alzato ed è uscito dalla porta e le nuove reclute non hanno intenzione di sostituirli» prosegue Valery. Mel è più radicale. «Non ritengo la polizia, quella ora schierata contro i manifestanti, dotata di un cervello funzionante. Il personale tra i loro ranghi è stato reclutato proprio per trattare chi protesta in maniera disumana, ma non sono tutti così».

Il sesto mandato di Alexander Lukashenko

Alexander Lukashenko intanto resta saldamente alla presidenza. Lo scorso 23 settembre, durante una cerimonia non annunciata, ha inaugurato il suo sesto mandato presidenziale dopo più di un mese e mezzo ininterrotto di manifestazioni. Il Consiglio Europeo, in comunicato stampa pubblicato il giorno successivo, ha ribadito come non riconosca i risultati delle elezioni.

«Questa”inaugurazione” contraddice la volontà della popolazione bielorussa, come espressa durante le numerose proteste e serve solo ad acuire l’attuale crisi politica in atto» si può leggere nel comunicato. Josep Borrel, l’attuale Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha poi ribadito: «Le autorità bielorusse si astengano da ulteriore violenze e soprusi contro i propri cittadini e rilascino quanti sono stati detenuti, prigionieri politici compresi». È inoltre in corso un riesame delle relazioni tra Unione Europea e Bielorussia, con il Consiglio che ha sottolineato l’importanza che si concretizzi la volontà della popolazione di nuove elezioni.

«Lukashenko è un uomo crudele, chiama le persone ratti, rifiuti: non ha mai amato la sua popolazione. Sulle sue mani c’è il sangue di più di duemila persone» risponde con veemenza Valery Lukin.

«La Bielorussia potrà dichiararsi un Paese libero quando si libererà dal giogo di ventisei anni di dittatura. Siamo sull’orlo di una crisi gigantesca» aggiunge Mel Nikolai. Quanto sta accadendo in Bielorussia è sintomo di una nazione ormai allo stremo, da anni in mano a un governante assente, sordo alle richieste di riforme che i cittadini chiedono. «Ci servono riforme, magari un futuro accesso all’Unione Europea. Non chinare il capo alla Russia». Così termina il suo discorso Nikolai. Sono le sue parole, ma potrebbero essere anche quelle di Nina Baginskaya, 73 anni, o di Jana, fotografata fumare una sigaretta mentre viene arrestata dalle forze di polizia in tenuta antisommossa. Parole di chi in questi mesi è sceso in piazza a lottare per la libertà.

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Marco Cherubini

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