The Last of Us e quella voglia di apocalisse che abbiamo ancora (nonostante tutto)

Abbiamo ancora voglia di assistere alla fine del mondo, per quanto confinata allo schermo della nostra televisione, dopo che ci siamo andati vicinissimi con la pandemia? A giudicare dalla risposta entusiasta ricevuta da The Last of Us, uscita su Sky Atlantic e già rinnovata per una seconda stagione, sì.

La serie è tratta dall’omonimo videogioco sviluppato da Naughty Dog e l’impronta ludica si sente moltissimo. Lo spettatore partecipa ad alcuni momenti di pura azione del gioco, forse fini a sé stessi ma non per questo meno adrenalinici da rivivere sullo schermo. Dietro a The Last of Us d’altronde ci sono Craig Mazin (già autore della premiata Chernobyl) e Neil Druckmann, game designer del videogioco.

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Dopo The Walking Dead, conclusa in sordina dopo 11 estenuanti stagioni, The Last of Us torna a riproporre questioni che attanagliano il cinema e le coscienze collettive dai tempi de La notte dei morti viventi. È vero che, nel film di George Romero, le creature non morte erano una metafora politica e una critica di costume e, rispetto a quei tempi che sembrano lontanissimi, la minaccia dell’apocalisse si è fatta più reale.

The Last of Us 1×02. Foto: The HotCorn.

Ci accorgiamo di quanto ciò a cui stiamo assistendo ci sembri familiare nella scena iniziale, ambientata nel 1968, in cui in uno studio televisivo si dibatte con leggerezza e forzata ironia su quale sarà la causa della fine dell’umanità. La minaccia dei virus, nei confronti dei quali l’essere umano ha sviluppato forme di difesa sofisticate, non sembra preoccupare l’ottuso presentatore né l’amorfo pubblico in sala.

Il discorso del dottor Neuman (John Hannah) su come l’essere umano sia del tutto inerme e destinato a soccombere di fronte all’attacco della forma di vita più estesa e infestante del mondo (ma allo stesso tempo da tutti considerata innocua), i funghi, fa suonare in tutti noi un campanello d’allarme che difficilmente riusciamo a ignorare.

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La minaccia si fa concreta e inequivocabilmente reale quando lo scienziato menziona l’aumento delle temperature, vincolo imprescindibile per far sì che una forma di vita parassita si impossessi delle menti e del corpo di miliardi di persone, rendendole morti viventi. È il momento in cui un barlume di incertezza si accende nella vacuità dello sguardo del presentatore, in cui pensiamo a La notte dei morti viventi, World War Z, The Walking Dead e tutti i titoli di cui ci siamo abbuffati prima di approdare a The Last of Us, e ci sorge spontanea la domanda: dopo tre anni di pandemia reale, abbiamo ancora voglia di apocalisse?

Pedro Pascal a confronto con la versione di Joel del videogioco. Foto: Everyeye.

The Last of Us è la prima serie tv di genere post apocalittico che sia stata concepita da zero dopo la pandemia, e ne è stata fortemente influenzata. Le maschere antigas che i protagonisti utilizzavano nel gioco negli ambienti al chiuso sono state eliminate nella versione seriale. Troppo forte, forse, il richiamo ai due anni trascorsi con una soffocante mascherina sulla faccia.

Per la prima volta abbiamo la sensazione che le immagini di morte, devastazione, disperazione e senso di sconfitta che vediamo sullo schermo ci appartengano. Ci immedesimiamo in Joel (Pedro Pascal) duro, opportunista, il contrario dell’eroe idealista e saccente che era Rick Grimes. Empatizziamo fortissimamente con Ellie (Bella Ramsay), che non conosce altra realtà se non quella della pandemia, così come non conosce un mondo che non preveda muri invalicabili e confinamento. E ci stanno simpatici i personaggi minori, che nel linguaggio del gaming chiameremmo “personaggi non giocanti”, che sono la vera anima della serie e del mondo: miserabili, idealisti o bastardi che siano.

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The Last of Us è un gioiello visivo ed esperienziale che fa incontrare l’estetica raffinata, sospesa nel tempo eppure vivida e concitata del gioco con il ritmo di un prodotto seriale, che dà respiro psicologico ai personaggi e costruisce un contesto che conferisce autorevolezza alla narrazione. Ma non è questo che ce la fa piacere fin da subito: è la sensazione, che cominciamo a provare fin dalle prime scene, che questa serie parli di come siamo diventati dopo questi tre anni.

Bella Ramsay a confronto con la Ellie del videogioco. Foto: GAMINGbible.

The Last of Us ci mostra in che cosa la pandemia ci ha trasformati.

Chi si è incupito, come Joel, chi ha ancora una speranza, come Tess, chi, come tanti bambini, è cresciuto tra restrizioni, quarantene e privazione dell’affettività, come Ellie. Chi è diventato, a tutti gli effetti, uno zombie. La minaccia reale che qualcosa di infinitesimale, di invisibile, ci potesse uccidere ha segnato profondamente il nostro immaginario e la sola esistenza di prodotti come The Last of Us ne è la prova.

Dovremmo essere ormai stanchi di pandemie, scenari post apocalittici, zombie: eppure ne vogliamo ancora. Forse perché in un videogioco (così come in una serie tv) la nostra inclinazione alla violenza è sdoganata e, anzi, necessaria per sopravvivere. Forse per un malcelato tentativo di esorcizzare, di cauterizzare quello che è accaduto. Forse, semplicemente, perché finché gli zombie arrancano e rincorrono i protagonisti di un videogioco o di una serie possiamo tenerli lontani da noi. Almeno finché non finiamo i proiettili.

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