theWise incontra: Joe Antani a.k.a. Fricat

Quando senti il nome Joe Antani, subito lo associ agli Apes on Tapes. Oggi, in esclusiva per theWise, siamo andati a intervistare proprio Joe, con l’idea di conoscere un po’ meglio il punto di vista di questo artista. Dal 2013 Joe ha un side project chiamato Fricat – che ha già pubblicato un album più un EP – ma riesce comunque a lavorare anche per il gruppo con cui è diventato famoso, a Bologna e in tutta Italia, nel panorama della musica elettronica.

foto: pagina ufficiale di Fricat - facebook.com/fricatpage
Foto: pagina ufficiale di Fricat – facebook.com/fricatpage

Intervista a Joe Antani, a.k.a Fricat

Ciao Joe, ti ringrazio a nome di theWise per avermi dato l’opportunità di intervistarti.

«Figurati! Fa piacere».

Volevo cominciare subito chiedendoti di parlarci di quel lato di Joe Antani che non tutti conoscono… Ad esempio, come ti sei avvicinato alla musica?

«Mi avvicinai alla musica quando ero piccolo, mio padre mi regalò un Commodore 64 quando avevo sei anni: cominciai a rapportarmi con le macchine e coi computer in generale, che da piccolo trovavo abbastanza facili. Da lì cominciai a essere curioso su tutto quello che si poteva fare con i software, finché più o meno a dodici anni, quando ero alle medie, incontrai un amico che aveva l’Amiga 500 con il programma per fare musica. Tanti miei amici suonavano la chitarra o la batteria, ma io non ero bravo con le mani. Ero anche maggiormente interessato a cose più tecnologiche, infatti con questo mio amico usavamo proprio l’Amiga per registrare i primi loop. Fondamentalmente, quello è il momento in cui mi sono appassionato alla musica, e da lì in poi non ho mai smesso».

Hai avuto modo di vivere in prima persona la progressione tecnologica: prima di Internet un disc jockey era costretto ad attingere alla collezione di dischi che aveva a casa, oppure a cercare in un negozio di musica o, come nel tuo caso, tramite amici. Pensi che adesso la stessa ricerca possa essere più semplice per uno che vuole intraprendere lo stesso percorso?

«Ai tempi, fine anni ’80-’90, in pochi conoscevano la musica elettronica… Perlomeno in Italia. Non avendo Internet andavo in edicola e compravo questa rivista chiamata Futura Music che parlava non proprio di musica, ma di strumenti come sequencer e file MIDI. Poi, avendo dodici anni, il budget era limitato, perciò cercavo di trovare della roba che costasse meno e facesse al caso mio. Non ho mai provato troppa affettività verso i mezzi: come arrivarono i PC, ad esempio, misi da parte il campionatore, perché il computer faceva la stessa cosa ma più velocemente. Infatti passai dall’hip hop, che facevo quando ero più piccolo, direttamente all’elettronica. Oggi, con Internet, per me è una pacchia! Il periodo in cui dovevi andare a cercare per vedere se qualcosa esisteva è passato… adesso con i motori di ricerca, con i torrent, trovi tutto. A me piace perché se hai voglia di sbatterti, o comunque di fare qualcosa, Internet dà una possibilità a tutti. È cambiato in bene secondo me: c’è anche da dire che cambiano le dinamiche. Essendoci molta produzione di musica elettronica, le esigenze di chi ascolta variano, perciò non direi che è più semplice, ma più che altro che è un diverso tipo di richiesta».

In media, durante la giornata, quanto tempo dedichi alla produzione musicale?

«Dipende dai periodi: ultimamente, se posso, faccio dalle quattro alle otto ore al giorno. Ma questo perché nel mio studio faccio tutto, sia musica che video… E quando stacco gioco ai videogames!»

foto: pagina ufficiale di Fricat - facebook.com/fricatpage
Foto: pagina ufficiale di Fricat – facebook.com/fricatpage

Il trasferimento a Bologna, secondo te, può essere considerato una parte fondamentale della tua carriera musicale?

«Sì, avevo diciannove anni e avevo appena finito il liceo nella provincia di Pisa, perciò ero contento di andare a vivere in un posto più grande. Molti miei amici non pensavano minimamente di allontanarsi, mentre nel mio caso fu proprio mia madre a dirmi ‘Ma perché non vai a studiare fuori?’. Da lì in poi si sono aperte un sacco di porte: finché stavo a Pontedera imparavo a usare sempre di più i miei mezzi e ascoltavo anche rap. Quando sono arrivato a Bologna, invece, la scena rap italiana mi aveva stancato, attorno c’era un’aria pesante. Volevo cambiare, non avevo più stimoli nel fare pezzi legati all’hip hop, semplicemente avevo voglia di fare altro. Iniziai anche ad ascoltare della musica diversa, il che mi faceva comodo per imparare un’altra serie di cose: conobbi pure un sacco di gente che faceva lo stesso».

Quindi hai avuto anche modo di confrontarti, di misurarti con loro?

«Sì, c’era uno scambio di opinioni. Io poi sono sempre stato chiacchierone, quindi non avevo paura a chiedere. Finii a lavorare in questo posto, il Sesto Senso, che era un circolo ARCI che organizzava aperitivi, concerti… Qui ho incontrato i ragazzi di Homework, e tramite loro ho conosciuto Luca degli Apes on Tapes».

Quindi tu hai incontrato Shapka tramite la Homework?

«Lui è di Rimini e studiava Lingue all’università, mentre io facevo il DAMS. C’era questo locale che era frequentato da tutte le persone che avevo conosciuto, tra cui quelli di Homework, dove poi entrai anch’io. Durante un Homework Festival sentii un live di Luca, lui sentì il mio e nel 2005 fondammo gli Apes on Tapes. Era tutto nato per gioco, a cuor leggero… Poi, col passare degli anni, abbiamo realizzato che la gente ci ascoltava e ci seguiva».

Anche perché poi avete fatto tre album e due EP.

«Era bello. Quando sento parlare le persone a cui piacciono gli Apes on Tapes, li sento quasi mitizzare il fatto che abbiamo fatto uscire prima la net label e poi i dischi, quando di solito succede il contrario. Inoltre questa etichetta online, che non costava nulla, diventò un punto di riferimento perché era tra le prime in Italia a trattare musica elettronica».

A proposito della Homework Records, quali erano le sue caratteristiche?

«Più che altro il concetto di Homework era quello di ‘roba fatta in casa’. Fondamentalmente era aperta a tutto, anche se la maggior parte delle persone magari era annoiata dall’hip hop. Ai tempi era una palestra formativa che serviva se volevi andare altrove: come quando finisci il liceo e scegli di andare all’università, insomma».

Poi nel 2013 è nato il progetto Fricat: come sono andate le cose?

«Mi laureai nel 2009, ed ero già tornato a casa in Toscana… In quel periodo non avevo più voglia di stare a Bologna, anche perché con gli Apes on Tapes si lavorava in ogni caso a distanza. Essendo isolato sentivo il bisogno di fare delle cose mie: un altro step, in cui fai le cose che ti piacciono ma vuoi provare ugualmente qualcosa di diverso. Inoltre volevo provare a prendermi interamente le responsabilità del mio lavoro musicale».

Giustamente devo chiedertelo: da cosa deriva il nome Fricat?

«Deriva da un quadro che ho nel mio ufficio. Sono una persona che trova facilmente ispirazione, anche guardandosi intorno. È una vignetta di Andrea Pazienza, a cui sono molto legato, dove nel fumetto compare la frase ‘Asinus cum asinum fricat’. Ogni volta che la guardo mi fa pensare a più cose contemporaneamente, come un’associazione di idee».

Secondo te Asinum cum asinum può essere considerato una sorta di prova generale per quello che è Fricatism?

«Sì, anche se c’è un passaggio nel mezzo, a collegare le due cose, che non ho ancora fatto uscire. In Asinum cum Asinum avevo qualche idea, e volevo provare a fare musica un po’ diversamente. Lo stesso metodo l’ho applicato anche durante il passaggio da Asinum cum Asinum a Fricatism, in pezzi che spesso venivano suonati durante dei live. Con Fricatism ho voluto fare qualcosa di più ragionato a tavolino».

Poi sappiamo che hai anche avuto modo di sperimentare con il progetto Avantguardia: cosa ci dici in merito?

«Sì, mi è capitato proprio nel mezzo, infatti dovrebbe uscire qualcosa con gli Avantguardia. Loro facevano parte di quella produzione che non ho fatto uscire: quelle erano in realtà le prove generali di Fricatism. Il progetto Avantguardia è più complesso, collega persone che sono distanti ma che hanno visioni simili su certe cose. Non so quando faremo uscire qualcosa, perché ci vuole molto a fare i video».

La copertina di Fricatism, foto: pagina ufficiale di Fricat - facebook.com/fricatpage
La copertina di Fricatism. Foto: pagina ufficiale di Fricat – facebook.com/fricatpage

Infine eccoci arrivati a Fricatism. Hai definito il concetto di ‘fricatismo’ come  una «bastardizzazione fertile e gioiosa». Stando a questo concetto, pensi di imbastardire ulteriormente con delle tracce vocali il tuo prodotto in futuro? Magari  tramite qualche collaborazione?

«Per dei rapper che mi piacciono, volentieri! Se dovessi fare un disco di Fricat non saprei, perché mi è piacuto mantenere questo filone di non verbalità: in Fricatism c’è del vocale ma non è decodificabile. Aggiungerei più vocalità ma non con un testo, perché per ora mi piace questa formula in cui non ci sono versi».

Una curiosità su Fricatism è che si tratta del primo album del progetto Fricat a essere stato finanziato dal progetto Toscana100band. Pensi che un progetto del genere possa essere ampliato anche su territorio nazionale, o per te è un concetto troppo utopico?

«Lo spero tanto, anche perché queste cose hanno senso se sono continuative. Se sono una tantum diventa una cosa che solo chi è più fortunato o più veloce di altri ha la possibilità di fare, mentre gli altri no. Soprattutto sono delle cose che dovrebbero essere cicliche, là dove si parla di questo: la cultura senza budget è artigianato al mercatino, purtroppo. Io spero che entri proprio come concetto culturale; so che questo discorso lo fanno già in altri posti, e non vedo perché non si possa fare anche in posti dove magari c’è più budget da suddividere. Deve essere una cosa che però mantenga il profilo istituzionale, che non sembri appannaggio di un filantropo insomma. Spero che sia continuativo, perché altrimenti così lascia il tempo che trova».

Così non aiuta lo sviluppo culturale, insomma.

«Così è come se fosse una lotteria: alcune persone vincono e altre no. Se invece fosse continuativo si vivrebbe un’esperienza formativa, dato che – se quell’anno non vieni selezionato – l’anno successivo potresti entrare nell’ordine di idee giusto per essere scelto. Anche perché ci sono due fasi nella musica: in una prima fase si fa della musica per sé, e in una seconda si produce musica per chi la ascolta. Se ad esempio un artista presenta un progetto che viene rifiutato, durante il resto dell’anno può riuscire a capire cosa viene richiesto. Non so se rifaranno questo progetto… Dal mio punto di vista io non mi lamento, riesco comunque a fare quello che voglio con i mezzi che ho. Ma con questo ausilio farei sicuramente meglio, con dell’attrezzatura molto migliore».

Ci sarà qualche nuova uscita di Fricat? Apes on Tapes?

«Dovrebbe uscire qualcosa di nuovo degli Apes on Tapes in primavera, ma anche Fricat. In futuro ci sarà un altro album, ho appena iniziato a lavorarci, ci vorrà un po’… Ho varie idee».

Ho visto sulla pagina Facebook che terrai un workshop a San Miniato il 22 febbraio…

«Un amico di Piet Mondrian, un gruppo di San Miniato, ha contattato me e Diogenes, proponendoci se volevamo fare questo corso all’associazione La Stazione di Fucecchio. A me fa piacere, anche perché di solito la gente viene a chiedermi consigli: lo faccio già di mio. È un’occasione per scoprire le esigenze delle persone e magari costruire un corso specifico. Fondamentalmente è incentrato su produzione e live building: io mi concentro più sulla parte digitale, mentre il mio amico più sulle macchine… Anche per una questione di completezza».

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