theWise incontra Ground’s Oranges, i creatori di Cambogia

«È stato bello essere un cantante indie, anche se non ci vivrei»

Andrea “Cambogia” è nato a Catania il 18 marzo del 1985. O, almeno, così recita la descrizione sulla sua homepage di YouTube, che ad oggi conta più di 160.000 visualizzazioni e oltre 600 iscritti, senza contare le 150.000 riproduzioni del singolo Oki su Spotify, oltre a numerose menzioni su riviste specializzate, vari passaggi in radio, circa 40 richieste di live in tutta Italia e un album, La sottrazione della gioia, pubblicato a inizio anno. Che c’è di strano? Niente, a parte che Cambogia non esiste.

Cambogia

Cambogia

Già, perché “il cantante indie più indie” – tutto hype e social – non è altro che un progetto studiato a tavolino dai ragazzi di Ground’s Oranges, videomaker siciliani che hanno architettato il tutto, fuori dalle luci dei riflettori. A partire dal volto da dare a Cambogia, ossia quello di Andrea, loro amico, che in realtà non canta in nessun brano, passando per i testi e le sonorità, sfacciatamente ammiccanti rispetto alle tendenze di oggi, fino alla meticolosa gestione dei profili social. L’entourage di Ground’s Oranges è di recente uscito allo scoperto, creando non poco imbarazzo e sgomento nella scena indie, e noi abbiamo avuto il piacere di scambiarci quattro chiacchiere.

Chi è Cambogia? Quando nasce l’idea?

«L’idea nasce da Riccardo Nicolosi, che una sera di agosto come tante, al nostro bar preferito, ha detto: ‘Perché non facciamo un finto cantante indie?’. Non ci abbiamo messo poi molto, da quel momento, a dare vita al tutto».

‘Cambogia’ e ‘Calcutta’, ‘Napalm dischi’ e ‘Bomba dischi’, per non parlare delle somiglianze per testi e stile. La citazione è una sorta di attestato o è proprio ciò verso cui, in un certo senso, puntate il dito?

«Erano solo uno specchietto per le allodole. Calcutta era il nome più in vista in quel momento, e così Bomba dischi. Sapevamo che questo avrebbe destato l’attenzione e scatenato le critiche di molti haters. Alla fine è andata esattamente come avevamo previsto e ci hanno fatto pubblicità gratuita».

Quali caratteristiche cercavate per la band e la voce di Cambogia? Avete avuto subito le idee chiare in merito?

«Abbiamo cercato di condensare un po’ di stereotipi indie che riguardassero l’aspetto fisico, la tipologia di musica e la comunicazione. Soprattutto nei testi, che sono un vero e proprio compendio dell’immaginario tipico di quel cantautorato».

Cosa pensate della scena indie italiana e di tutto ciò che le ruota intorno?

«Pensiamo che sia un’enorme bolla destinata a rompersi, alimentata soprattutto dai social e da gente molto furba che saprebbe vendere sabbia nel deserto. Come proposta musicale e contenuti vediamo poco o niente».

Cos’è, quindi, che fa davvero la differenza oggi?

«Avere qualcuno che riesca a farti una buona promozione e lanciarti come personaggio nel modo giusto. Poi, alla fine, quello che canti non importa granché».

La prosecuzione di questo progetto, anche se voi – come annunciato sui social – vi siete defilati, potrebbe sembrare in un certo senso una sconfitta, in quanto l’artista costruito a tavolino che tanto doveva far riflettere sembra avere alla fine preso il sopravvento. È così?

«Questa domanda dovresti rivolgerla a chi sta continuando il progetto. Sappiamo per certo che proseguiranno con un altro nome, e non è detto che facciano lo stesso genere musicale, per cui se siano criticabili o meno lo si capirà solo in futuro. Noi, in maniera coerente con quanto detto, ne staremo fuori».

Una nota di colore: cos’è stato più difficile inscenare? C’è stato un momento in cui vi siete detti: ‘È fatta, ora ci scoprono’?

«La parte dei live. Arrivavano proposte in continuazione, e non sapevamo più che cazzate inventare per dire di no o rimandare. Alla fine abbiamo fatto un annuncio per dire che Cambogia aveva un lavoro infame che non gli permetteva di andare facilmente in tour, ma non è bastato a far cessare le richieste».

Esiste un aneddoto, “vissuto” da Cambogia, sul rapporto con i fan o la critica che ricordiate in particolare?

«La parte più bella, secondo me, l’ha vissuta Andrea, che ci ha messo la faccia. Per mesi è stato costretto a mentire anche a gente che conosceva o che incontrava per strada e lo fermava. Ci vuole una gran faccia tosta e prontezza di risposta. Poveretto, quante minchiate ha dovuto raccontare!»

L’esperimento Cambogia, dopo lo smascheramento, è davvero finito?

«Si, decisamente. L’esperimento è finito del tutto, così come il trolling e la nostra esperienza all’interno di esso».

E ora Ground’s Oranges tornerà alla quotidianità… O forse dobbiamo aspettarci altri esperimenti sociali?

«Continueremo a fare videoclip come abbiamo sempre fatto, sia prima che durante Cambogia. In futuro non escludiamo la possibilità di fare incazzare di nuovo tanta gente».

In chiusura, tirando le somme, cosa voleva dimostrarci Cambogia? E, soprattutto, ritenete sia riuscito nel suo intento?

«La tesi era che, con la giusta spinta e creando sufficiente hype, anche un tizio preso dal nulla, senza arte né parte, potesse arrivare ad essere qualcuno. Considerando i punti di partenza di Cambogia si può ritenere un progetto riuscito. In poche parole: budget zero, nessun contatto con gente che conta, nessuna etichetta o ufficio stampa. Il tutto partendo dalla Sicilia, una terra molto lontana dai giri che contano. Lo stesso esperimento fatto da gente con più amicizie e collegamenti nel mondo musicale a Roma o Milano, sarebbe stato dieci o cento volte più grande. Vedi il caso Liberato [cantante indie del quale non si conosce l’identità, N.d.R.]».

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