Germania 1945: Storia di un genocidio mancato

Come reagireste se qualcuno vi dicesse che esiste un popolo europeo destinato a distruggere e dominare il resto del Continente? Che Hitler e il nazismo non furono solo una parentesi, un’anomalia nell’evoluzione e la nascita della Germania, ma la naturale predisposizione della sua storia? Che il militarismo tedesco che ha insanguinato l’Europa fino alla catastrofe del ’39 fosse intrinseco nella “razza germanica”? Che tutte le comunità di immigrati tedeschi sparse per il mondo lavorassero nell’ombra per sabotare le nazioni ospitanti e favorire il dominio globale di Berlino?

Se proposte oggi, idee tali passerebbero per paranoie, fantasie, teorie del complotto. Non troppo tempo fa, però, questo genere di sentimento antitedesco era preso in seria considerazione dal popolo come dalle alte cariche e dagli strateghi dei Governi dell’Europa occidentali, specialmente dell’anglosfera. Se, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, da un lato dell’atlantico le teorie pangermaniche continuavano a prendere piede tra le comunità tedesche d’Europa, dall’altro un sempre più radicale sospetto cresceva nei confronti della razza germanica.

La diffidenza reciproca non si assopì con la fine della prima guerra mondiale, anzi. Versailles e le durissime condizioni imposte alla Triplice Alleanza rinvigorirono se possibile una rivalità che sfociò in un secondo scontro, persino più violento del primo. La seconda guerra mondiale sembrò inoltre confermare tutti i sospetti che l’anglosfera nutriva nei confronti della razza germanica, foriera di conflitti, assetata di sangue, destinata a causare problemi e a minacciare la civiltà europea.

Documenti, report, libri e teorie iniziarono a circolare ai piani alti dell’amministrazione americana, ora coinvolta in una nuova guerra europea scatenata da quello che sembrava ormai essere il nemico di sempre. Dalla partizione della Germania alla sua deindustrializzazione forzata, molte furono le soluzioni finali considerate quando Hitler venne sconfitto: la più estrema fu probabilmente quella ipotizzata da Theodore Newman Kaufam, per ironia della sorte un ebreo americano, che auspicava nel 1941 (ben prima che gli alleati venissero a conoscenza dell’Olocausto) una sterilizzazione di massa dei tedeschi e la fine della nazione germanica.

Ma qual è stata l’origine di un odio che spesso, nei libri di storia, viene eclissato da quello cavalcato e alimentato dalla controparte nazista? Per scoprirlo dobbiamo fare un salto indietro di mezzo secolo e osservare come la nascita e lo sviluppo della nuova potenza tedesca vennero viste nel contesto europeo e occidentale.

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Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, la crescente forza della Germania si era imposta prepotentemente sull’Europa, permettendo a Berlino di spodestare dal trono di potenza continentale la tradizionale Francia nella Guerra Franco-prussiana. Anche dal punto di vista economico, le potenze di più vecchia industrializzazione faticavano a tenere il passo con una Germania in pieno boom economico: Nel 1913 la Germania forniva il 24% della produzione mineraria e industriale mondiale, contro il 19.5% dell’impero britannico. In meno di trent’anni le esportazioni tedesche passarono dal contare meno della metà di quelle inglesi a superarle.

Nell’immaginario collettivo, fu proprio questa crescente rivalità – economica e militare – tra imperi a fornire le basi per l’imminente Grande Guerra, che trascinò il vecchio continente nel caos e nel fango delle trincee. La tensione degli anni precedenti allo scoppio del conflitto si tradusse anche nella nascita di un vero e proprio filone letterario che lucrava sulle paure antitedesche sentite dagli inglesi.

Libri come A New Trafalgar (1902), Riddle Of The Sands (1903), The Invasion of 1910 (1906), pubblicati sui giornali britannici, riscuotevano un enorme successo profetizzando un’imminente guerra dell’Impero contro la Germania. Molti erano senza dubbio frutto di fantasia, altri non si allontanavano troppo dalla realtà: in Greenmantle, John Buchan scrive di un complotto della diplomazia tedesca per scatenare una ribellione islamica nei territori mediorientali dell’Impero Britannico, una via effettivamente tentata da Berlino nella prima guerra mondiale.

Storie di vere e proprie invasioni, ma non solo: alcuni romanzi – The Message (1907), The Enemy In Our Midst (1906) – ipotizzavano che la caduta della Gran Bretagna sarebbe stata scatenata da un nemico interno: il flusso di immigrati tedeschi nel Regno Unito, che copriva le spie di Berlino e complottava per favorire e collaborare con la forza d’invasione in arrivo dal Continente.

Le leggende nere sui tedeschi si moltiplicarono, ovviamente, allo scoppio della Grande Guerra: celebri sono i crimini di guerra in Belgio, fortemente esagerati per scopi propagandistici, commessi dai sanguinari “unni” che avevano invaso il Paese.

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Lo stupro del Belgio (1917), propaganda interventista americana

Viste le premesse sull’altra sponda dell’Atlantico, e il forte sentimento antitedesco che permeava la cultura popolare ed i corridoi delle ambasciate britanniche, non stupisce la mole di documenti e teorie diffuse negli Stati Uniti allo scoppio della seconda Guerra Mondiale, evento che sembrava confermare tutti i pregiudizi e i sospetti che l’anglosfera nutriva verso la razza tedesca.

The 1000 Years Conspiracy, scritto nel 1943, si prefiggeva di «identificare le forze dietro al nazismo»: il libro analizza i padri del pensiero pangermanico e afferma come il Mein kampf di Hitler fosse solo l’ultimo di una serie di documenti che da secoli auspicavano e pianificavano il dominio tedesco mondiale. L’autore Paul Winkler identifica le radici del prussianesimo – l’ideologia che guida le ambizioni della Germania – alle vere e proprie origini della nazione tedesca: il Sacro Romano Impero.

Winkler vede nella politica di Federico II in Italia e nella funzione dei cavalieri teutonici sul Baltico l’anteprima dell’imperialismo tedesco e delle SS di Hitler: «l’Ordine era stato organizzato in base a leggi razziali tedesche […] era necessario appartenere a una famiglia nobile tedesca per poter essere ammessi all’Ordine». Dal militarismo dei cavalieri, a Federico il Grande (che «di tutte le guerre che aveva combattuto […] nessuna era stata inflitta su di lui»), fino alle teorie pangermaniche sulla guerra come «mezzo necessario e morale per la sopravvivenza dei popoli», Winkler analizza quasi mille anni di storia per dimostrare come il nazismo dovesse necessariamente essere il destino della nazione tedesca o, come la chiama lui, della prusso-teutonia.

Divenne celebre, anche in Germania, Germany must perish!, libro scritto nel 1941 che, come suggerisce il titolo, porta alle estreme conseguenze decenni di sentimento antitedesco: «l’obiettivo del dominio del mondo deve essere rimosso dalle possibilità del tedesco, e l’unico modo per far ciò è la rimozione del tedesco dal mondo!». Per Theodore Kaufman, né la fine della seconda guerra mondiale, né la rimozione del partito nazionalsocialista avrebbero potuto risolvere il problema della Germania: «per il tedesco la pace non è un obiettivo, ma semplicemente un interludio per prepararsi a una nuova guerra». Il problema va dunque risolto alla radice: l’autore indica chiaramente come l’unica soluzione sia l’estinzione del popolo tedesco, non con con l’esecuzione dei cittadini («poco pratica se dovesse essere applicata a una popolazione di settanta milioni di persone»), ma attraverso un programma di sterilizzazioni di massa.

Kaufman calcola un numero di 48 milioni di tedeschi da sottoporre al «miglior strumento che la razza umana ha per liberarsi […] del malato, del degenerato e del criminale ereditario». Il fatto che l’autore fosse ebreo, paradossalmente, fece sì che il libro diventasse uno strumento di progaganda antisemita potentissimo nelle mani di Goebbels e del Partito Nazista, che potè giocare il ruolo della vittima. È interessante, tra l’altro, notare che buona parte della stampa mainstream americana – il New York Times, per esempio – diede spazio a recensioni e lodi al piccolo libro.

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Copertina di Germany Must Perish! (1941)

Alla fine della guerra, le teorie e i deliri di Kaufman furono accantonati, ma lo sforzo bellico, la scoperta dell’Olocausto e soprattutto la paura che alla seconda guerra mondiale potesse seguirne una terza, convinsero Gran Bretagna, Stati Uniti e URSS della necessità di mettere – militarmente, diplomaticamente ed economicamente – in ginocchio il nemico sconfitto. Your Job In Germany illustra lo spirito degli Alleati nell’immediato dopoguerra. Il breve documentario fornisce ai soldati americani in Europa delle linee guida da seguire nel comportamento e nell’atteggiamento con il popolo conquistato: vietato fraternizzare, parlare troppo, fare amicizia con i tedeschi. La gioventù viene specialmente indicata come pericolosa, in quanto considerata il prodotto dell’educazione nazista: «conoscono solo il sistema che ha avvelenato le loro menti».

Ciò che successe poi è noto: la Germania venne effettivamente divisa in zone di occupazione e privata delle sue industrie pesanti, dei principali bacini minerari e, naturalmente, del suo esercito. Dal punto di vista economico, il Piano Morghentan, illustrato nel libro Germany is our problem (1945) e proposto alla Casa Bianca, venne reputato troppo dannoso persino dagli stessi americani (prevedeva la trasformazione della Germania in una nazione prevalentemente agricola), e finì con l’essere, in buona parte, sostituito a partire dal 1947 dagli aiuti economici del Piano Marshall.

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Profughi tedeschi nel 1945, fonte Wikipedia

Tuttavia, una ferita ben più profonda della deindustrializzazione, e spesso ignorata, venne inflitta: i territori dell’est della Germania furono soggetti a una pulizia etnica di proporzioni enormi. Tra dodici e quattordici milioni di tedeschi vennero rimossi dalle aree orientali dell’ormai caduto Reich. Gli accordi di Potsdam stabilirono l’evacuazione della popolazione tedesca dai territori in Germania orientale (ora ceduti a Varsavia e all’URSS), Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia. Un milione di persone morì durante «l’ordinata e umana» pulizia etnica. Churchill affermò che «l’espulsione è il metodo che […] sarà più soddisfacente e duraturo. Non ci saranno più mescolanze di popolazioni che causeranno problemi infiniti. Faremo un rastrellamento pulito». E andò proprio così.

 

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