Per la prima volta quest’anno si registra il segno meno negli sbarchi di migranti in Italia. Secondo le statistiche fornite dal Ministero dell’Interno, il numero di arrivi sulle coste italiane si è notevolmente ridotto. Infatti, a luglio il numero è sceso rispetto al 2016 da 23.552 a 11.459, e ad agosto si è arrivati a un calo da 21.294 a 2.932. Ma come si spiega tutto questo?
Il tentativo di migliorare le politiche migratorie è sempre stato, almeno in teoria, uno dei cavalli di battaglia degli ultimi governi italiani. Politiche migratorie che vedono diversi attori coinvolti e diverse aree geografiche: la maggior parte dei migranti parte dall’Africa Occidentale, passa per il Niger, arriva in Libia per attraversare poi il Mediterraneo. Già il governo Renzi, con la proposta del Migration Compact supportato dall’UE, iniziò una serie di misure e di accordi con l’Africa Subsahariana, il cui obiettivo principale era di portare fondi per lo sviluppo sul territorio, assieme a un maggiore controllo dei confini e alla limitazione dell’immigrazione da parte di alcuni Paesi chiave, tra cui il Niger. Il Niger è diventato il modello di questo approccio, e il numero di migranti che da questo Paese si muovono verso la Libia è notevolmente diminuito. Questo non è però bastato a ridurre gli arrivi questo inverno, soprattutto in un momento in cui molti Paesi dell’UE hanno deciso di chiudere i loro confini. Per questo motivo il Ministro dell’Interno Marco Minniti ha deciso di attuare un ulteriore cambiamento a queste politiche migratorie, con l’obiettivo non più di regolare i flussi, ma di fermarli, in particolare modo di arrestare gli sbarchi dalla Libia.
Lo scenario libico
Per cercare di capire le politiche messe in atto è necessario però prima avere chiara, almeno a grandi linee – per quanto questo sia difficile – la situazione in Libia: nel 2011, dopo la caduta di Gheddafi, la Libia precipita nel caos e diviene preda di numerose milizie. Nel 2014 il generale Khalifa Haftar, ex sostenitore di Gheddafi passato poi all’opposizione, tenta un colpo di stato ed occupa il palazzo del Parlamento a Tripoli. Si susseguono violenti scontri nella capitale che vedono protagoniste le milizie laiche ed islamiche, che sono favorevoli al governo ma non si riconoscono in Haftar. Nel Dicembre del 2015, a Skhirat, in Marocco, i rappresentati del Congresso di Tripoli e della Camera di Tobruk firmano un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale, sotto l’egida dell’ONU, e Fayez al-Sarraj ne è nominato Primo Ministro. Ad Haftar, invece, rimane il controllo della Libia dell’Est e della Cirenaica, e diventa alleato della Russia, che cerca di ampliare il suo controllo nell’aerea del Mediterraneo.
La svolta Minniti
Per bloccare i flussi in Libia, l’Italia ha iniziato a collaborare con la Guardia Costiera libica, addestrando i suoi agenti nelle attività di pattugliamento e soccorso all’interno dell’operazione EUNAVFOR Med, la missione militare UE per combattere il traffico di migranti nel Mediterraneo, conosciuta anche con il nome di operazione Sophia. Infatti, al-Sarraj aveva fatto presente alle autorità italiane ed europee la carenza di mezzi e competenze della Guardia Costiera libica necessari per lavorare in modo efficiente. L’idea alla base è che solo rafforzando il governo di al-Sarraj e aiutando la Marina militare e la Guardia costiera libica sia possibile interrompere il flusso dei migranti dal Nord Africa. Tuttavia, secondo un’analisi di Nancy Porsia, giornalista italiana freelance esperta della situazione libica, l’Italia si sarebbe solamente limitata a riattivare il vecchio trattato di amicizia italo-libico siglato nel 2008 tra Berlusconi e Gheddafi. Precisamente, allo stato attuale, l’Italia sta fornendo di nuovo alla Libia delle motovedette per il controllo delle coste, che però erano di fatto già di proprietà libica. Infatti, erano state fornite dal governo italiano a quello libico nel 2008, e tra il 2011 ed il 2012 si erano danneggiate, ma non avendo i libici le capacità e le infrastrutture adatte per la riparazione, le hanno rimandate in Italia affinché venissero riparate. La caduta del regime libico e la conseguente spaccatura interna hanno però reso impossibile per l’Italia individuare un interlocutore legittimo a cui fare la consegna. Solo adesso, con la nomina di al-Sarraj come capo del governo di unità nazionale libico, l’Italia può muoversi in un quadro di legalità.
Quale Guardia Costiera?
La collaborazione con la Guardia Costiera non è comunque così semplice e lineare. In primo luogo, il ruolo delle milizie coinvolte è tale che si è ipotizzato che non esista una sola Guardia Costiera, ma almeno due o tre. Quindi, una delle maggiori difficoltà sta nel definire bene cosa si intenda per guardia costiera. Il problema principale risiede nella mancanza di un governo centrale che sia in grado di controllare il territorio libico e, di conseguenza, di esercitare il controllo sulle istituzioni, in particolare modo nell’ambito della difesa e della sicurezza, come appunto sulla Guardia Costiera. Secondo alcuni analisti, vi sarebbero diverse forze di sicurezza che si definiscono parte di quest’ultima senza ufficialmente esserlo. Quello che è certo, però, è che vi sia un corpo centrale apparentemente controllato dal governo di Tripoli di al-Sarraj, che è a sua volta alleato con una serie di milizie, fra cui quelle di Zuwara e Sabatha, due città sul mare distanti circa due ore da Tripoli, da cui partono numerosi migranti. È per questo motivo che il governo italiano decide comunque di collaborare con la Guardia Costiera di al-Sarraj, legittimandola rispetto alle altre forze. Un esempio è dato dal fatto che tutti gli agenti che hanno ricevuto l’addestramento nell’operazione Sophia sono stati segnalati dal governo di al-Sarraj.
Diritti umani violati
Oltre al problema dell’identificazione di una vera e propria guardia costiera, vi è anche il suo presunto coinvolgimento in attività violente ed illegali: gli agenti libici sono spesso accusati di violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti, assieme alle reti dei trafficanti e dei gestori dei centri di detenzione. Recente è l’inchiesta di Reuters, pubblicata il 21 agosto, che mostra l’esistenza di un gruppo armato di centinaia di persone, fra cui poliziotti, a Sabratha, città della Libia nord-occidentale affacciata sul Mediterraneo, che tenta di impedire la partenza di barconi dal porto locale e che riporta indietro i gommoni di migranti trovati in mare, rinchiudendo poi quest’ultimi nei centri di detenzione. Questo gruppo starebbe cercando di legittimarsi e ottenere finanziamenti dal governo di Tripoli per il controllo dei flussi migratori, forse creando un corpo simile alla Guardia Costiera. La sua attività sarebbe vista come un contributo informale al contenimento degli sbarchi dei migranti studiato da Minniti.
L’estensione della sovranità libica che limita le ONG
In una lettera all’ONU a fine Luglio, il governo di Tripoli avrebbe deciso di istituire una zona SAR, dalla sigla inglese Search and Rescue: è una zona di ricerca e soccorso in mare che si estende oltre le 12 miglia nautiche delle acque territoriali, e viene posta sotto il controllo libico. Di conseguenza, nessuna nave avrà diritto di accesso salvo richiesta espressa alle autorità libiche. Sebbene il governo di Fayez al-Sarraj abbia informato l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), cioè l’agenzia specializzata dell’ONU per la cooperazione marittima e la sicurezza della navigazione, ma ne debba attendere ancora il riconoscimento ufficiale, sin da subito questa azione sembra aver avuto come prima conseguenza l’allontanamento delle imbarcazioni umanitarie dalle coste libiche. Il motivo è semplice: se domani una nave ONG dovesse recuperare migranti all’interno della zona SAR di competenza libica, o poco fuori le loro acque territoriali, sarebbe costretta a consegnarli alla Guardia Costiera africana, che li porterebbe poi a Tripoli per metterli nei propri centri di detenzione dalle dubbie condizioni umane.
Nonostante ciò, in questa zona la presenza italiana è concessa, giustificata dalla necessità di fornire aiuto logistico per guidare la Guardia Costiera locale verso i gommoni, in virtù dell’accordo sopracitato. Questa concessione ha portato al leader libico le accuse dei suoi oppositori di aver svenduto la sovranità libica all’ex potenza coloniale. Fra quest’ultimi vi è anche il generale Khalifa Haftar, che, supportato dall’Egitto con armi e sostegno politico per essere nemico giurato degli islamisti, ha accusato il governo di Tripoli di tradimento e ha minacciato l’Italia e le sue navi. Questo ha portato alcuni a pensare che se i gommoni non fossero partiti dalla Libia occidentale sarebbero partiti da quella orientale, anche se, vista la distanza dalle coste italiane, la possibilità è remota. Tuttavia, l’unico modo per rendere questa minaccia lontana altamente improbabile, e soprattutto evitare ulteriori elementi di destabilizzazione di un governo già assai debole, la ratio ha voluto che si parlasse proprio con l’Egitto. L’unico modo per farlo, in modo diretto e quotidiano, è stato il rinvio dell’ambasciatore italiano a Il Cairo, revocato dopo il caso Regeni.
Frontiere nel Sud della Libia
Un altro elemento da considerare all’interno della manovra Minniti, che permette di constatare il rapporto privilegiato Italia-Libia, è, oltre al fatto di essere l’unico stato ad avere l’ambasciata aperta a Tripoli, il ruolo di intermediazione svolto dal Ministro dell’Interno con i sindaci del Sud della Libia. Infatti, la politica del Viminale va ancora più a fondo e cerca di tutelare anche i confini a sud del Paese libico, con la pace nel Fezzan, nel cuore del deserto del Sahara, attraverso il patto tra le tribù Tebyu e Suleiman, avvenuto alla presenza dei Tuareg e del vice premier libico, con la supervisione dello stesso Minniti. Lo stop alla guerra tra le due tribù, che negli ultimi anni ha provocato numerosi morti, segna una svolta dal momento che sigillare la frontiera meridionale di questo Paese significa sigillare la Frontiera Sud dell’Europa. In questa direzione sarà operativa una guardia di frontiera libica, sugli oltre 5000 km di confine. La pace tra le due tribù dovrebbe permettere, in teoria, di contrastare la criminalità, il terrorismo e il jihadismo, ma diverse sono le preoccupazioni circa lo sviluppo di una zona fertile per ulteriori forme di corruzione e instabilità.
La sicurezza del Mediterraneo e il numero di sbarchi in Italia dipendono quindi da diversi attori coinvolti nella cosiddetta Rotta del Sahel: difficile prevedere gli esiti delle nuove politiche nel lungo periodo, soprattutto in termini di efficacia nella stabilizzazione della Libia e nella riduzione del traffico di migranti. Il primo passo sarà constatare la risposta europea alla linea Minniti nei prossimi mesi.