Kurdistan: l’indipendenza non s’ha da fare

Il sogno dell’indipendenza del Kurdistan in Iraq è durato poco, dopo che le forze militari dell’Iraq sono avanzate velocemente verso la città di Kirkuk, per conquistarla e riprendere il controllo delle aree limitrofe. Ma come siamo arrivati al referendum e, soprattutto, chi sono i curdi che lo hanno supportato?

Di quali curdi stiamo parlando

I curdi sono il quarto gruppo etnico più numeroso del Medio Oriente, diffusi soprattutto in Iraq, Turchia e Siria, in un’area denominata Kurdistan, situata nella parte settentrionale e nord-orientale della Mesopotamia. I curdi turchi sono organizzati in diversi partiti politici, tra i quali spicca il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, noto anche con la sigla PKK, e considerato in Turchia un gruppo terroristico, che combatte da anni per l’indipendenza. I curdi siriani invece abitano nel nord della Siria e sono riusciti a ottenere una certa indipendenza negli ultimi anni, dopo lo scoppio del conflitto siriano. La regione dove sono situati si chiama Rojava, abbreviazione di Rojava Kurdistan, ovvero Kurdistan Occidentale, governato tramite il Partito dell’Unione Democratica, PYD, dichiarato di ispirazione socialista-libertaria, che dispone di milizie armate, le YPG, ovvero le Unità di Protezione Popolare. Tuttavia, il loro governo non è ufficialmente riconosciuto. Per quanto riguarda i curdi iracheni, sono il gruppo nazionale curdo che ha ottenuto più indipendenza negli ultimi decenni: il Kurdistan iracheno gode di una forte autonomia dal 1991, in seguito all’operazione Desert Storm, guidata dagli USA, che impose due no-fly zone agli estremi settentrionali e meridionali del Paese, permettendo ai curdi nel nord di consolidare la loro rivolta e creare così una sorta di stato autonomo. L’attuale forma di indipendenza, avvenuta dopo la riconciliazione nel 2002 fra i due partiti storici dei curdi iracheni, il Partito democratico del Kurdistan (PdK) e l’Unione patriottica del Kurdistan (UpK), risale alla costituzione irachena del 2005, approvata dopo il crollo del regime baathista di Saddam Hussein e risultato della seconda guerra del Golfo nel 2003. La regione autonoma del Kurdistan gode di precise garanzie territoriali, con tre province autonome, Sulaymaniyya, Erbil e Dahuk, di garanzie economiche relative allo sfruttamento del petrolio, e di una propria struttura amministrativa e militare: ha infatti un proprio parlamento, dei ministri e un esercito, i cosiddetti Peshmerga. Il Kurdistan iracheno, il cui presidente si chiama Massoud Barzani, ha rapporti spesso conflittuali con il governo di Baghdad, anche se negli ultimi anni si sono trovati a collaborare per combattere lo Stato Islamico. Infatti, sia i curdi iracheni che i curdi siriani hanno cominciato a combattere contro lo Stato Islamico a metà del 2013, in modalità difensiva, per tutelare le città a maggioranza curda. Successivamente, entrambi i gruppi sono stati coinvolti nella lotta allo Stato Islamico, sostenuti e addestrati dagli Stati Uniti. Agendo così in modalità offensiva, in Siria le milizie del PYD hanno conquistato un’ampia fascia di territori a Nord, dove hanno instaurato una sorta di autogoverno, mentre in Iraq i Peshmerga hanno recuperato territori perduti. In particolare modo, con la conquista di Mosul il 9 giugno 2014 da parte delle milizie del Daesh, l’esercito iracheno ha abbandonato la città in mano ai terroristi, e i Peshmerga curdi sono divenuti gli unici in grado di opporsi all’avanzata del Califfato islamico e di controllare buona parte delle province di Ninive e Anbar. Il Kurdistan Iracheno, con il supporto logistico ed economico degli Stati Uniti e di molti Paesi UE, fra cui l’Italia, sotto forma di armi e addestramento dell’esercito curdo stesso, ha finito così per oltrepassare i confini amministrativi costituzionalmente riconosciuti e ad arrivare a controllare Kirkuk, il secondo giacimento petrolifero del Paese, situato a duecentocinquanta chilometri a nord-est di Bagdad, divenuto al centro di interessi contrastanti dopo la scoperta di riserve di petrolio nel 1927 da parte degli inglesi. Durante il governo di Saddam Hussein la zona era stata sottoposta ad un processo di arabizzazione forzata, ma dal 2014, quando  appunto l’esercito iracheno si è ritirato dal nord a seguito dell’avanzata dell’ISIS, è sotto il controllo dei Peshmerga e le autorità curde hanno avviato un lento processo di integrazione con lo scopo di diffondere la lingua curda e di rappresentare questa etnia in posti chiave dell’amministrazione, tra i quali la polizia. Di conseguenza, bandiere curde sono state fatte innalzare accanto alle bandiere irachene negli edifici pubblici, fino ad estendervi anche la campagna per il referendum.

Il referendum per l’indipendenza

I tentativi di un referendum per l’indipendenza non sono nuovi; infatti, già nel 2014 il presidente del Kurdistan Iracheno, Masoud Barzani, consapevole dell’allora sopracitata debolezza del governo centrale, ha provato a indire un primo referendum sull’indipendenza della regione. Tuttavia, dopo poco, l’ISIS ha iniziato a dirigersi verso Erbil, la capitale del Kurdistan Iracheno, costringendo il suo presidente a chiedere aiuto agli americani per difendere il suo territorio. Quest’ultimi hanno acconsentito, a condizione che il referendum fosse cancellato o quanto meno rimandato, cosa che Barzani ha fatto. Una delle possibili giustificazioni per cui Barzani abbia deciso adesso di convocare il referendum si ipotizza sia per sfruttare il maggiore consenso alla sua linea politica ottenuto dopo le vittorie curde contro lo Stato Islamico nel nord dell’Iraq. Dal momento però che lo Stato Islamico si sta adesso indebolendo, il vantaggio curdo potrebbe ridursi presto, motivo per cui il parlamento curdo iracheno ha approvato velocemente la proposta di referendum il 15 settembre, senza il tempo necessario per organizzare una votazione credibile e ufficialmente accettata dal governo di Baghdad. Il referendum si è svolto non solo nei territori del Kurdistan Iracheno, ma anche nei territori circostanti, sottratti negli ultimi anni allo Stato Islamico dai Peshmerga curdi. Fra questi vi è la città di Kirkuk, dove la decisione del governatore locale di sostenere il referendum ha fatto infuriare il primo ministro iracheno, Haider Abadi, e ha portato il parlamento nazionale a votare per l’allontanamento del governatore. Il referendum, svoltosi il 25 settembre, ha visto un’affluenza massiccia, attorno al 78 per cento e il 91,8 per cento ha votato per l’indipendenza.

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Un seggio elettorale a Kirkuk, in Iraq (Chris McGrath/Getty Images)

Chi è favorevole all’indipendenza?

È interessante notare come non tutti i curdi iracheni siano stati favorevoli al referendum. Infatti, nelle città, come Ebil, governate dal Partito democratico del Kurdistan, il PDK, il partito del governatore curdo Barzani, l’appoggio alla votazione è stato molto ampio, mentre non lo è stato in città dove l’Unione Patriottica del Kurdistan, il PUK, l’altro partito curdo, predomina. Tuttavia, i motivi di questo disappunto non sarebbero tanto nell’opposizione al progetto indipendentista, quando al governo di Barzani, considerato dai rivali come disastroso e illegale. Barzani è infatti presidente del Kurdistan Iracheno dal 2005 e ha terminato il suo secondo e ultimo mandato nell’agosto del 2013. Il parlamento curdo ha deciso però di estendere il mandato per altri due anni, concedendo poi un’ulteriore estensione di due anni nel 2015. Tale decisione è stata approvata dal Consiglio consultivo del Kurdistan, ritenuta però illegittima dagli avversari politici di Barzani. A tutto questo va aggiunto il fatto che Barzani abbia indetto le elezioni parlamentari e presidenziali il primo novembre, poco dopo il referendum, con un’alta possibilità di sfruttare il risultato di quest’ultimo a proprio favore e ripresentarsi alle elezioni, nonostante lui abbia più volte negato questa intenzione.

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Un’anziana elettrice curda a Kirkuk, nel nord dell’Iraq (Ako Rasheed/Reuters)

Per quanto riguarda lo scenario internazionale, Turchia e Iran, che sono confinanti con il Kurdistan Iracheno, hanno minacciato la chiusura dei confini e la cancellazione degli accordi commerciali e di sicurezza. La loro principale motivazione è che l’indipendenza del Kurdistan Iracheno possa costituire un precedente per i curdi iraniani e per quelli turchi, che da molti anni si scontrano a sud del Paese contro le forze di sicurezza nazionali. La posizione turca ha influenzato anche gli Stati Uniti, nonostante siano alleati dei curdi iracheni e li abbiano aiutati nel 1991 a istituire la regione autonoma del Kurdistan. Infatti, la Turchia, oltre ad essere un Paese NATO, è un importante alleato degli americani in Medio Oriente. Inoltre, gli USA sono anche alleati nella guerra contro l’ISIS con il governo iracheno di Abadi e temono, infine, che l’indipendenza del Kurdistan Iracheno possa scatenare altri conflitti. Alla lista degli oppositori del referendum va aggiunta la Siria, dal momento che il presidente siriano Bashar al Assad ha detto più volte che il suo obiettivo è riconquistare tutti i territori persi nella guerra, quindi anche quelli che oggi sono governati dai curdi: vedere quindi uno stato confinante dividersi in due parti potrebbe alimentare le aspirazioni indipendentiste dei curdi siriani, già incoraggiati dal ruolo centrale ricoperto nella lotta allo Stato Islamico in Siria. A livello internazionale, l’unico Paese che ha appoggiato il referendum è stato Israele. Infatti, dagli anni Sessanta, questo stato ha mantenuto buoni rapporti con i curdi, identificandoli come una possibile “forza cuscinetto” in grado di controbilanciare gli storici nemici di Israele, gli arabi.

Cosa è successo dopo il referendum?

Nonostante il risultato altamente favorevole, il governo del Kurdistan Iracheno ha immediatamente dichiarato di non voler proclamare unilateralmente l’indipendenza ma di voler avviare dei negoziati con il governo centrale per iniziare una fase di transizione che porti poi all’indipendenza. Tuttavia, le direttive di Baghdad sono state sin da subito diverse: i risultati sono stati più volte dichiarati illegali e nel giro di poche settimane è stato dato inizio a un’avanzata militare per la riconquista dei territori che i curdi avevano conquistato negli ultimi anni durante lo scontro con l’ISIS, tra i quali la città di Kirkuk. L’avanzata dei soldati iracheni, supportati anche dall’Iran, iniziata nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, è stata rapida soprattutto grazie alle divisioni presenti nella città di Kirkuk, che, essendo un luogo multietnico con un governatore curdo ma una maggioranza di funzionari araba, si è trovato impreparato a contrastare l’attacco del governo centrale. Gli scontri tra i soldati iracheni e i Peshmerga hanno messo in difficoltà gli Stati Uniti, che sono alleati di entrambi nella lotta contro lo Stato Islamico in Iraq. Il presidente Trump ha affermato la neutralità delle forze statunitensi. Secondo alcuni analisti, gli Stati Uniti hanno evitato di elaborare un piano definitivo per trattare con l’Iraq dopo il ritiro dell’ISIS, preferendo lasciare le questioni interne agli iracheni. Dopo Kirkuk le milizie si sono dirette a Makhmour e a Sinjar, cercando di riprendere i territori che i curdi avevano liberato dal controllo dell’ISIS per poi governarli. Circa centomila curdi sono fuggiti per timore di ritorsioni da parte del governo centrale; a Tuz, a quasi ottanta chilometri da Kirkuf, centocinquanta case appartenenti a famiglie curde sono state incendiate.

Oltre al rischio di destabilizzazione delle aree contese nel nord dell’Iraq, molti sono preoccupati per le conseguenze che queste azioni possono avere sull’influenza iraniana in Iraq, che, grazie soprattutto al supporto militare, potrebbe aumentare fino al raggiungimento di un completo allineamento delle politiche dei due Paesi, e sull’ISIS, che potrebbe approfittare del momento di debolezza per riprendere forza e riorganizzarsi militarmente. L’unica cosa certa adesso è che le bandiere curde sugli edifici di Kirkuf non ci sono più e che il sogno dell’indipendenza è condannato a rimanere ancora una volta una chimera.

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