theWise incontra: Fabiana Testa, leader della Fabi’s Blues Band

Fabiana Testa, classe 1984, è stata per tre anni la chitarrista di Massimo Ranieri, per poi trasferirsi a Los Angeles: nella città degli angeli ha conseguito il diploma presso il prestigioso istituto GIT, insieme al premio outstanding student, che ogni anno viene assegnato allo studente maggiormente distintosi durante l’anno accademico. Dopo sei mesi di lavoro come assistente insegnante torna a Roma, e sulla strada verso casa decide di fondare una blues band, che sarà il suo progetto principale e darà alla luce il suo primo album originale: ecco quello che ci ha raccontato.

Come nasce la Fabi’s Blues Band?

«La Fabi’s Blues Band nasce a inizio 2014 dalla mia esigenza di fondare un progetto che avesse come base quella di conoscersi e migliorarsi sia come persone che come musicisti, in un contesto (quello blues) che, pur se spesso sottovalutato, permette invece di affrontare molti aspetti legati al modo in cui il musicista si relaziona con gli altri all’interno di una band. Tra questi ci sono di sicuro il groove, l’improvvisazione e l’interplay. All’appello risposero subito Sara Facciolo e Luca Carpignano e in un secondo momento, dopo qualche cambio iniziale di line up, anche Damir Rapone, iniziando effettivamente l’attività live della band a metà anno».

Oggigiorno mettere in piedi una band e portarla a finalizzare degli sforzi può essere molto difficile o troppo facile, nel vostro caso come si svolge la vita della band?

«Non siamo mai particolarmente fermi, io mi occupo principalmente degli aspetti artistici legati alla band, Damir di quelli più manageriali. In generale c’è uno sforzo collettivo per poter emergere in una scena nazionale molto tradizionalista nei confronti di chi fa blues, motivo per cui la decisione di incidere il primo album è stata a lungo ponderata, prima che sentissimo il disco come qualcosa di necessario».

Cosa vi ha fatto decidere di essere abbastanza maturi, come band, per incidere l’album d’esordio?

«Dopo aver studiato, riarrangiato e cercato di trovare una chiave di lettura più attuale, ma anche personale, a dei brani che hanno anche più di cinquant’anni, abbiamo sentito l’urgenza di dire la nostra. Da lì il passo per iniziare una produzione propria è molto breve, anche se il processo di scrittura dei primissimi brani è iniziato in realtà già diverso tempo fa in modo del tutto spontaneo, non premeditato».

Il titolo dell’album (Way Back Home) fa intuire che il tema di fondo è il viaggio: come avete affrontato un tema così classico?

«Il bello di questo tema è che pur essendo un classico è anche molto personale: siamo tutti in viaggio, ognuno verso la sua meta, ognuno con le sue esperienze. Noi abbiamo tentato di inserire tutte le nostre esperienze musicali e di vita in questo disco, che infatti può risultare atipico come disco blues da tutti i punti di vista, partendo dalla strumentazione fino alla sonorità finale».

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Way Back Home, come hai detto, è un album blues ma non in senso stretto, e nel disco sono presenti molte contaminazioni esterne: qual è la sua mappa musicale?

«Siamo partiti dalla base, dalle dodici misure, e siamo andati a contaminare il processo di scrittura e arrangiamento con le influenze e le esperienze maturate come band. Dentro ci sono rock, soul, funk e anche qualcosa di alternative: un bel caleidoscopio! Oltre a ciò tanti input ci sono arrivati da Francesco Cardillo (coproduttore del disco) che ha lavorato molto sull’imprinting ritmico dei brani. Infine c’è stata anche una volontaria connotazione stilistica e sonora del disco con il sound delle produzioni di questi anni: ad esempio John Mayer e Bonamassa, giusto per citare due tra i nomi più conosciuti ai quali ci siamo ispirati. Infine, per arrivare a questo risultato una grossa mano ci è stata data dal nostro amico e fonico Marco Mastrobuono in studio di registrazione».

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Credits to: Daniele Testa.

Quest’anno siete stati al Blues Made in Italy, com’è stato il riscontro con un pubblico fuori dal Lazio?

«Molto positivo, tanti applausi, svariati contatti e un buon feedback anche nei giorni a venire. Fortunatamente non era la prima volta che uscivamo dal Lazio avendo partecipato a eventi e festival nel centro Italia (il Festival Blues in Abruzzo e varie serate in piazze, borghi e locali in Toscana). Speriamo che queste occasioni capitino il più spesso possibile. Il Blues Made in Italy in particolar modo è stata una bellissima esperienza non tanto per il fatto di essere a molti chilometri da casa quanto più per il pubblico, tantissimo e in tema con la nostra proposta come band. E gli applausi che abbiamo sentito mentre proponevamo i nostri brani originali sono stati la ciliegina sulla torta di un bellissimo festival».

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Foto: Adriano Siberna.

Per quanto riguarda il futuro prossimo, quali sono le tappe, live e non, che farà la band?

«Stiamo prendendo alcune serate nel Lazio per ora pur continuando l’opera di promozione del disco anche attraverso interviste, radio e recensioni. Per ora ci potrete trovare il 2 dicembre a Frosinone (al Railways) e il 4 febbraio a Roma al Let it beer, in quella che consideriamo da tempo una seconda casa».

A chi diresti ‘grazie’ tra le persone che hanno reso l’album com’è oggi?

«Innanzitutto voglio ringraziare tutti coloro che da anni ci supportano – e un po’ ci sopportano – e che sono stati parte integrante e fondamentale di questo disco: da Francesco Cardillo a Marco Mastrobuono che hanno curato la pre-produzione e realizzazione del disco, a chi ha partecipato come guest o come sessionman, in particolare: Francesco Chini, Gabriele Brisinello, Laura Pizzicannella, Ken Rosser, Alessandro Inolti, Fabio Penna, Lorenzo Venza e Manuele di Ascenzo. Infine voglio ringraziare chi ha curato fotografia e grafica dell’album: Daniele Testa e Mario Toccafondi. E poi grazie a chi ci segue e a chi, come noi, è ancora alla ricerca della strada verso casa. Noi siamo lì con Voi».

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