Fake news e (dis)informazione: essere giornalisti oggi

Ve lo abbiamo già detto in tutte le salse: theWise è diventata una testata registrata. Un percorso, come ha spiegato il Direttore Editoriale Francesco Stati la scorsa settimana, durato esattamente 365 giorni lunghi, difficili e resi ancor più tortuosi dalla burocrazia italiana e dalle sue incomprensibili storture. Ora siamo qui a parlarvi non più come un “blog fatto un pelino meglio”, ma come un giornale vero e proprio, con tutti i suoi annessi e connessi. Neanche il tempo di posare i bicchieri con cui abbiamo brindato al nostro ingresso ufficiale nel mondo dell’informazione, che la cronaca politica ci aveva già fatto capire qual era il nostro posto nella “catena alimentare”: un articolo del 24 novembre (quindi proprio il giorno dopo la nostra registrazione) nientemeno che del New York Times riprendeva un’intervista a Matteo Renzi, nella quale l’ex Presidente del Consiglio e attuale candidato premier del PD si appellava a Facebook contro le fake news, che a suo dire sarebbero così potenti e capillarmente diffuse da spostare letteralmente l’opinione pubblica e influenzare i risultati elettorali, con evidente riferimento alle recenti elezioni in Sicilia.

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Matteo Renzi sul palco della Leopolda 2017, da dove ha tuonato contro le fake news che lo riguardano (foto: Il Sole 24 Ore)

Il pezzo cita un’analisi stilata dal giovane Andrea Stroppa, ex hacker di Anonymous che, partendo da una serie di siti già noti per diffondere bufale e notizie false, ha dimostrato l’esistenza di una rete che accomuna questi siti e li riconduce alla Lega e al MoVimento 5 Stelle. Il metodo è semplice: attraverso le risorse che Google mette a disposizione di chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la materia, Stroppa ha percorso a ritroso il flusso di guadagni generati dai click sui siti di fake news, fino ad arrivare a un account unico che li gestirebbe tutti (e ne introiterebbe quindi i profitti) e che, passando da alcuni siti e profili a 5 Stelle finirebbe per essere collegato alla pagina Facebook ‘Noi con Salvini’, spazio ufficiale (verificato con spunta blu e ribadito anche nell’URL) del movimento che sostiene la candidatura a premier del segretario della Lega Nord. L’indagine sembrerebbe essere genuina, dal momento che anche David Puente, debunker e divulgatore indipendente, ha confermato di aver riscontrato le stesse cose durante sue ricerche. La reazione di Matteo Salvini non si è fatta attendere: il segretario ha infatti sostenuto di essere a sua volta vittima di quelle che lui ha definito «fake news di regime» e di sentirsi costretto a esprimersi attraverso i social per vedere garantita la propria libertà di parola. Luigi Di Maio, invece, ha contrattaccato nella solita maniera scomposta, controaccusando il PD di basarsi su di un report che sarebbe a sua volta una fake news. In mezzo, ipotesi di finanziamenti partiti dai pentastellati verso l’Est Europa per sovvenzionare siti diffusori di bufale a sfondo politico, il che delineerebbe uno scenario degno di un Russiagate all’italiana.

Botta e risposta tra Salvini e Renzi (post dalla pagina ufficiale di Matteo Salvini del 27/11/2017)

Mentre scriviamo il dibattito è ancora in corso, ed è – ovviamente – più che mai acceso: come al solito ognuno cerca di discolparsi e accusare l’altro nascondendo la propria polvere sotto il tappeto, perdendo probabilmente di vista l’obiettivo finale delle fake news: gli utenti, soprattutto quelli che per vari motivi si pongono come “deboli” nei confronti dell’informazione e delle sue trappole, ormai totalmente disabituati a formare in maniera autonoma un proprio pensiero e in balia di chi urla più forte e di chi le spara più grosse. È il populismo, ovvero la tendenza a parlare “alla pancia” della gente dicendo esattamente ciò che questa vuole sentirsi dire, anche se non necessariamente corrispondente al vero. Tutto ciò si traduce in una fabbrica di consensi facili e immediati, che porta poi alla creazione di veri e propri eserciti digitali armati di connessione internet e tastiere, tramite le quali possono vomitare in Rete convinzioni attentamente manipolate. Le elezioni non sono più il momento in cui una società civile è chiamata a esprimere il proprio parere, ma vere e proprie chiamate alle armi precedute da proclami di guerra: il Generale chiama e l’esercito risponde, muovendosi verso le urne in maniera acritica oppure, nella migliore delle ipotesi, forte delle promesse populiste di cui sopra, spesso talmente assurde da essere utopistiche e irrealizzabili, ma terribilmente affascinanti agli occhi di chi la politica l’ha sempre e solo “subita” piuttosto che vissuta. È la sublimazione del Berlusconismo, ovvero quello spirito incarnato dal Cavaliere che ai tempi della sua prima discesa in campo si poneva come salvatore di una Patria vessata dalla corruzione e Tangentopoli, l’uomo nuovo venuto dal nulla che combatteva i politici brutti, sporchi e cattivi. Con i suoi discorsi pieni di «milione di posti di lavoro», «Presidente operaio» ed «elimineremo la tassazione iniqua», Berlusconi si fece investire di un potere praticamente illimitato, che traghettò l’Italia in una probabilmente inevitabile crisi economica figlia di una serie di disastri a catena, attraverso il ventennio più politicamente movimentato della recente storia repubblicana. Già da allora possiamo intravedere i primi sintomi di (dis)informazione: forte di una presenza praticamente monopolista sull’editoria e sulla televisione di allora, il Cavaliere fu reso oggetto di una vera e propria mitizzazione della sua figura ad opera di giornalisti suoi diretti dipendenti che diede i suoi frutti in termini di voti.

Eloquente copertina di Panorama di quegli anni. Il settimanale era appena stato acquistato dalla Mondadori di Berlusconi (foto: panorama.it)

Cosa vuol dire, dunque, essere un giornalista nel 2017? Innanzitutto, non avere per niente vita facile. In primis per la trafila, di nuovo, burocratica imposta a chi vuole fare questo lavoro: l’obbligatorietà di iscriversi a un Ordine passa per anni di gavetta sottopagata, corsi di formazione su quell’etica professionale che poi di fatto viene puntualmente disattesa, punteggi da dover raggiungere, tasse da pagare. Quando finalmente si viene in possesso dell’agognato tesserino, ci si sente come reclute mandate sulla prima linea del fronte: totalmente impreparati al fuoco di fila che verrà. Il giornalismo è prima di tutto una grande passione che si origina, o meglio si dovrebbe originare, nell’amore e nella ricerca della verità. Verità da raccontare e tutelare a tutti i costi, per fornire ai lettori un punto di vista trasparente, cristallino. Verità da diffondere anche a rischio della vita. Sono tantissimi i casi di giornalisti morti nell’esercizio del loro dovere, colpevoli solo di stare raccontando storie scomode o di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia nel 1994 mentre realizzavano un’inchiesta sul traffico internazionale di rifiuti (foto: la Repubblica)

Verità, nel 2017, è tutto e il contrario di tutto. Non esiste più una definizione oggettiva di “verità”, ormai tutto è verità o post verità, ognuno porta avanti la sua come può e come è capace. Chi urla più forte o riesce a spostare più consensi impone la propria verità. Le fake news si inseriscono all’interno di un problema ben più ampio, ovvero la pochezza dei contenuti o l’impossibilità di esprimerli in maniera adeguata: non ho altro argomento all’infuori dell’ingiuria, dell’attacco personale, delle offese al limite della diffamazione, per cui uso quello che ho per prevalere con rabbia e cattiveria. In tutto questo, il giornalista ha due strade: o asservirsi, per non rimanere tagliato fuori e per poter anche vivere in un mondo in cui il precariato è la regola e i salari un miraggio, o rimanere fedele alla propria missione e porsi contro l’ignoranza dilagante. Ma, per chi è contro, il destino è spesso amaro: dileggiati, screditati e accusati di ogni sorta di nefandezza, i giornalisti sono spesso oggetto di vere e proprie campagne d’odio da parte dei sobillatori delle masse, diventano i nemici da battere insieme ai magistrati, ovvero proprio le figure deputate al mantenimento dell’ordine e del rispetto della legge. Sì, ma quale legge? Ne vige ormai solo una, quella del più forte. La verità non esiste più, esistono solo le mille sfaccettature e i mille modi di interpretare un fatto. Aggiungendo a questo la tendenza sempre più frequente da parte degli italiani a non verificare, non comprendere quello che si legge, non porsi delle domande (oltre alla tendenza atavica a designare dei condottieri che li guidino fuori dall’ombra, cosa che in altri momenti storici portò a ventenni ben più bui) e a farsi manipolare, è facile capire come mai le fake news abbiano attecchito in modo così rapido e virulento. Essere giornalisti oggi vuol dire combattere questo cancro armati solo della propria coscienza, ben consapevoli di non venire ascoltati da coloro che non vaccinano i propri figli, che credono che la terra sia piatta e che in prima fila ai funerali di Totò Riina ci fossero tutte le alte cariche dello Stato.

foto: Il Sole 24 Ore

Sì, il quadro è desolante. Anzi, di più: è avvilente. Ricercare la verità e poi sentirsi dire di essere dei venduti, di essere “pakati da [inserire potere forte a piacere]”, di perseguire ogni sorta di nefandezza come unico scopo, ci fa a volte dubitare di aver scelto la strada giusta. Striscia La Notizia e Le Iene non sono programmi giornalistici, non sono testate. I loro inviati non sono giornalisti. Eppure, questi varietà vengono considerati “il verbo” grazie al loro modo di fare informazione distorto, parziale, poco accurato ed estremamente spettacolarizzato. Si chiama infotainment (crasi dei due termini inglesi information e entertainment, informazione e intrattenimento), ma è considerato l’avanguardia del giornalismo. Il sitarello che pretende di raccontare “quello ke nessuno ti dice ++CLIKKA QUI PER SAPERE COME STANNO LE COSE++” non è un sito giornalistico. È un contenitore di spazzatura, che serve a guadagnare sulle spalle dei creduloni che abboccano, è molto spesso un’accozzaglia di parole senza neppure un senso logico: tanto, una volta che si è cliccato, il risultato è stato raggiunto. Oppure, peggio ancora, è robaccia piena di contenuti offensivi e diffamatori, che fomenta l’odio di genere e/o razziale e si mette al riparo da censura e querele dietro il disclaimer “satira”. Immaginate quanto possa essere frustrante, per un giornalista che ha già sulle spalle un discreto numero di difficoltà, vedere la propria voce resa muta da una tale selva di rumore (perché di questo si tratta) tirata su al solo scopo di confondere, inquinare, intorbidire. Ed è in questa palude che noi, oggi, navighiamo a vista, perché, in questo web 2.0 che ha dato voce anche (purtroppo) a chi farebbe bene a stare zitto, noi vogliamo ancora dire la nostra.

La maggior parte delle persone non crede nella verità, ma in ciò che desidera sia la verità. Per quanto questa gente possa tenere gli occhi bene aperti, in realtà non vede niente.
-Haruki Murakami

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