Giornata mondiale della Terra, tra ipocrisia e speranza

C’è poco da festeggiare. Il 22 Aprile si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale della Terra o Earth Day. È un’occasione in più per valutare e – cosa che troppo spesso ci dimentichiamo di fare – apprezzare il nostro pianeta. Come per altre giornate mondiali, ad esempio quella delle donne o quella dei lavoratori, si usa impropriamente l’appellativo di “festa”. Termine estremamente fuorviante, se si considera che la data viene rimarcata non per celebrare, ma per fare.

Un po’ di storia. L’idea di una giornata dedicata alle tematiche ambientali risale ai primi anni Sessanta. Sulla scia di movimenti studenteschi, mode hippie e proteste contro la guerra in Vietnam, il senatore americano Nelson lanciò per la prima volta l’idea di una discussione ampia e condivisa sulla questione naturale. Personalità in vista come Bob Kennedy agirono in prima linea per la sensibilizzazione della nazione, con conferenze ed eventi organizzati in tutto il Paese.

Terra
John McConnell con sua moglie Anna e la bandiera da lui ideata.

Alla fine del decennio l’attivista John McConnell propose la proclamazione di una Giornata internazionale per la Terra. L’innesco decisivo arrivò nel 1969 a seguito di una disastrosa fuoriuscita di petrolio a largo di Santa Barbara. Con un documento scritto dallo stesso McConnell e firmato dall’allora Segretario generale delle Nazioni Unite U Thant venne proclamata la prima Giornata mondiale nella data del 22 Aprile 1970, in occasione della quale i movimenti ambientalisti si mobilitarono in concerto per una manifestazione in difesa della Terra. La risonanza mediatica fu enorme: giornalisti di spicco e presentatori TV mostrarono l’importanza capitale dell’iniziativa, che però acquisì carattere globale solo con l’avvento di Internet all’alba del nuovo millennio. Oggi la Giornata mondiale della Terra coinvolge 175 Paesi in tutto il mondo. Ma a che punto siamo?

Per rispondere dobbiamo guardare allo stato della natura e alle decisioni politiche che si sono susseguite negli ultimi anni. Le lotte ambientaliste si concentrano soprattutto sul controllo dei cambiamenti climatici, sulla gestione delle risorse naturali e sulla salvaguardia degli habitat e delle specie animali. Sappiamo che le prospettive in questi contesti non sono rosee. Non parleremo di cosa non va, ma di cosa si sta facendo per rimediare.

Dopo alcuni decenni in cui la nave ambientalista sembrava essersi arenata, una nuova coscienza sembrava essersi sollevata, promossa dalla comunità scientifica e da celebrità del mondo dello spettacolo e figure politiche. Emblematico è stato il discorso di Leonardo DiCaprio alla cerimonia di premiazione degli Oscar del 2016, nel quale l’attore californiano ha sfruttato la portata mediatica di quel premio rincorso per anni per lanciare il suo appello.

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Leonardo DiCaprio alla cerimonia di premiazione degli Oscar 2016.

Quanto alle figure politiche, queste si sono mosse per anni come entità sporadiche, raccogliendo poco più di una scarna e inefficiente indignazione. La svolta è arrivata alla fine del 2015 con quello che è il più recente e globalmente condiviso accordo in tema di cambiamenti climatici degli ultimi anni: la XXI Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, evento che ha negoziato gli accordi di Parigi. Questi rappresentano le ultime linee di politiche comuni tra i paesi che hanno aderito allo storico Protocollo di Kyoto nel 1997. Gli accordi di Parigi coinvolgono 195 Paesi e hanno come principale obiettivo il controllo del riscaldamento globale entro i due gradi Celsius. Obiettivo difficile e probabilmente non del tutto sufficiente a impedire mutazioni in un ambiente già martoriato dagli ultimi due secoli di inquinamento che ha accompagnato il rapido sviluppo industriale e tecnologico, ma un passo importante per una presa di coscienza a livello statale (e globale) e non solo personale. Impensabile all’epoca, quell’idillio fra Nazioni non sarebbe durato a lungo.

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Donald Trump, 45° Presidente degli Stati Uniti d’America.

L’elezione di Donald Trump, insediatosi a inizio 2017 a capo della più grande potenza mondiale, ha minato le poche certezze nate a Parigi. Poco interessato alla questione ambientale, a tratti al limite del negazionismo, sin dalla campagna elettorale ha dato priorità allo sviluppo economico che non deve essere frenato dai limiti imposti per l’ambiente. Dalle concessioni per le estrazioni petrolifere, alla ripresa del mercato del carbone, all’abbandono dei limiti di emissioni dannose. Il passo indietro rispetto alle politiche di Barack Obama non è così immediato, perché si è già scontrato coi giudici federali, ma tutto lascia intendere che l’obiettivo della riduzione delle emissioni del 26% entro il 2025 non sarà rispettato.

Proprio in seguito ai primi provvedimenti del nuovo presidente è stata organizzata la Marcia per la scienza nell’aprile del 2017 in occasione dell’ultima Giornata mondiale per la Terra. Scienziati e appassionati ma anche gente comune, tutti mobilitati in più di 500 città nel mondo per protestare contro le posizioni antiscientifiche che sempre più dilagano negli ultimi anni.

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Alcuni dei rappresentanti di Stato protagonisti degli accordi di Parigi del 2015.

Ora il punto cruciale: cosa fare per la Terra? Il pericolo principale è sempre quello di ricordarsi dei temi ambientali solo in occasione delle sporadiche iniziative annuali. Insomma, passata la festa, gabbato lo Santo.

Il primo livello su cui agire è quello politico. Naturalmente si intende una politica globale, perché le nazioni sono tante ma la Terra è unica. Non esiste accordo valido che non preveda la partecipazione di tutti, soprattutto delle grandi potenze, responsabili in misura largamente maggiore dell’inquinamento ambientale. Sono diverse le sfide della politica: dalla salvaguardia dei territori al controllo del rischio idrogeologico alla lotta agli sprechi alimentari. Alcuni Paesi stanno capendo che la green economy offre possibilità inaspettate di guadagno e di creazione di posti di lavoro e si stanno muovendo in quel senso, ma poco è stato fatto e la sensazione è che la spinta definitiva arriverà soltanto dal progressivo esaurimento dei combustibili fossili.

Dove possiamo agire nell’immediato, evitando la lentezza tecnica della politica, è nelle scelte quotidiane. Un presa di coscienza generale è l’unica vera arma: limitare i consumi energetici, sia modificando le proprie abitudini che adottando sistemi moderni di illuminazione, climatizzazione e lavaggio, è qualcosa di praticabile nel brevissimo periodo e quindi dagli effetti immediati. Parallelamente a questo si può prediligere il trasporto pubblico a quello privato e il controllo delle emissioni e dei consumi energetici nel contesto dell’imprenditoria.

Una sfida più complessa è la gestione delle risorse. Siamo tanti in questo pianeta, e fortunatamente non tutti consumano ai ritmi dell’occidentale medio, ma è evidente che le risorse ambientali non sono inesauribili. Acqua, cibo, materie prime sono beni da non dare per scontati e da centellinare con oculatezza risparmiando, evitando sprechi e, quando possibile, riutilizzando. Questo è il senso della Giornata mondiale della Terra. Capire e rimboccarsi le maniche. Chiunque si ritiene amante dell’ambiente, ma chi fa davvero qualcosa? Insomma, c’è poco da festeggiare.

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