La prima volta che ti ho vista, è stato all’aeroporto. È un posto labirintico quello, lasciatelo dire. Ci vado perché ho sempre pensato che fosse un buon modo per schiarirsi le idee. Sei uscita da quelle porte automatiche con la tua solita camminata leggera, saltellante, i capelli raccolti, la sacca rossa a pois bianchi. Avevi il maglione blu e i pantaloni di pelle e ho pensato subito che potessi avere una gran bella storia. Ogni persona che aspetta all’aeroporto ha una storia interessante che mi piace immaginare. La tua non l’ho immaginata, volevo gustarmi questo piacere più tardi, dentro la macchina, con i finestrini abbassanti e Chopin alla radio. All’aeroporto avrei voluto dirti «ehi, ciao, come va?» e cose del genere, molto stupide a mio parere, giusto per farti parlare e sentire la tua voce. Poi la tua voce l’ho sentita al telefono, in lontananza, eri arrabbiata e ti lamentavi di un certo ritardo. E allora magari non avevo più bisogno di avvicinarmi, bastava solo chiudere gli occhi, gustare il caffè amaro preso dal bar e immaginarti insieme a me.
L’aeroporto è un luogo labirintico, lasciatelo dire, tu l’hai visitato. L’hai visitato con me, l’hai davvero dimenticato? Ridevi mentre ti mostravo i segreti di quel luogo, non eri mica più arrabbiata, non avevo nemmeno dovuto dirti «ehi, ciao, come va?» e quelle cose stupide. Mi ero semplicemente avvicinato e ti avevo chiesto se ti andava di fare un giro e tu hai acconsentito subito, tanto eri da sola, nessuno ti era venuto a prendere. Solo un giro. Dopo il bar lungo il corridoio c’erano i bagni, girando subito l’angolo a destra alcune stanze riservate dove abbiamo sbirciato, chi si spogliava, chi metteva a posto i carrelli delle pulizie, chi litigava un po’, chi si riposava. A sinistra invece c’erano delle stanze vuote, era tutto ancora in costruzione al tempo, te lo ricordi? In alcuni punti mancava il pavimento e tu inciampavi e ti sporcavi le scarpe con la polvere. Ma non ti arrabbiavi mai, sembrava ti piacesse stare con me, anche se avevo le mani sudaticce.
Purtroppo te ne sei andata quasi subito, ti sei messa il cappotto e la sciarpa, ti sei guardata un po’ intorno, imbronciata, con la bocca semiaperta e poi sei uscita, così ho dovuto smettere di fantasticare. Allora sono uscito anche io. C’era una sorta di spinta, un impulso primitivo. Fuori non si vedeva il cielo, era coperto dalle nuvole e sicuramente avrebbe piovuto di lì a poco. Tu eri da sola, ti ho vista, ma avevi l’aspetto sicuro di chi sta per essere recuperato da qualcuno. Quindi ti ho lasciata andare e mi sono messo in macchina. I finestrini erano abbassati, anche se poi ha iniziato a piovere, non me ne sono curato. Eri bella, molto bella. Ma questa è una cosa stupida da dire. Eri altro, ma non sapevo ancora cosa.
Ho scoperto che facevi la ballerina perché ti ho vista in tv, nel canale regionale dove trasmettono gli eventi e le feste di ogni città. Mi apparivi di nuovo con il tuo passo leggero e con i capelli raccolti. Stavi facendo le prove dello spettacolo in cui ti saresti esibita. Era Apollo e Dafne. Bella storia, chissà se piaceva anche a te. Tu eri la protagonista a quanto pare. Chissà da quanti anni ballavi, mi chiedevo. Avevi però un bellissimo nome che ho cercato subito sull’elenco, ma non c’era. Comunque sapevo che ti avrei rivista allo spettacolo. La prima era dopo tre giorni, ma l’anteprima sarebbe stata il giorno dopo. Ho pensato che non aveva senso perdere tempo e sul bordo del letto pensavo a come sarebbe stato. E mi sono addormentato.
Quando mi addormento i miei sogni sono agitati come quando ero bambino. Ricordo che cadevo sempre dal letto e la faccia spesso sbatteva contro il marmo freddo, non c’era nessuno che mi raccogliesse da terra, così passavo i minuti senza riuscire ad alzarmi, il sangue mi scendeva dal naso e la guancia toccava il pavimento freddo. Sentivo solo un sapore di ferro. E quel sapore lo sento ogni volta che mi sveglio, anche se non sono caduto. Si infila tra i denti, avvelena la saliva che deglutisco piano, è amara e la bocca mi rimane asciutta. Rimango sempre fermo, immobile con la guancia sul cuscino, finché il cattivo sapore sparisce e posso alzarmi dal letto. Quella volta mi è successa la stessa cosa e ho passato parecchio tempo immobile e ti ho pensata. Pensavo al tuo corpo che danzava, avresti mai danzato per me? Pensavo che ti avrei rivista. Era un pensiero fisso, che si ripeteva ogni istante, un pensiero dentro un pensiero e siccome mi sembrava di impazzire, ho infilato il cappotto e sono uscito di nuovo.
Fuori pioveva, ancora, di nuovo. Erano le quattro del mattino, i marciapiedi erano puliti, giravano solo i taxi e qualche passante. Nei bar c’erano giovani universitari o vecchi alcolizzati. Sono entrato nel bar, quello a sinistra dopo casa mia e ho preso la solita birra. Sono quattro anni che vado in questo bar, ma non ho mai conosciuto nessuno. Nessuno mi vede. Ho alzato il colletto fino al mento e sorseggiato la mia birra mentre mi guardavo intorno. Vecchi amici, pacche sulle spalle. Nemmeno il barista mi ha riconosciuto. Ho pensato a come ti senti tu sul palco, illuminata dai riflettori, davanti a un pubblico di sconosciuti. Pensavo e ti volevo chiedere, come ci si sente? Come ci si sente a essere guardati? Nessuno mi guarda più da molto tempo. I primi anni continuavo a toccarmi la faccia perché pensavo di non averla più. E so che anche se sono lì, sono invisibile. Poi ho preso l’abitudine e a volte mi dimentico di avercela una faccia. Nessuno mi vede più da molto tempo. Mi piace osservarti perché tu sai di avere un corpo, una faccia. Lo sai e lo sanno anche gli altri.
Il giorno dell’anteprima avevo comprato un pacchetto di gomme e ho iniziato a masticarle dalla mattina presto. A mezzogiorno le avevo già finite. Ne ho comprati tre di pacchetti, poi. E mi sono avviato un’ora prima verso il teatro, con molta flemma. Avevo le mani dentro il cappotto nero e mi torturavo la pelle con le unghie. Ogni tanto cambiavo direzione per tornare indietro e poi ti pensavo e continuavo ad andare. Il passo era pesante, sicuro e inesorabile. Mi sembrava di andare incontro a qualcosa che non avrei più potuto cambiare. Pensavo solo al tuo passo leggero e a quei pezzettini di pelle che staccavo, uno ad uno, dentro le tasche. Arrivato davanti all’entrata del teatro, avevo di nuovo finito il pacchetto di gomme. Ne mangiavo una, la masticavo con forza e poi me ne mettevo in bocca un’altra e un’altra ancora. Dentro, il teatro era pieno di persone. Il mio posto, sedia 1 fila D, aveva una buona visuale ed ero vicino all’uscita. Ho iniziato a martellare insistentemente le dita sul bracciolo, prima di una mano, poi di entrambe. Poi le luci si sono spente, il sipario si è aperto e sei entrata. Eri un corpo vestito di veli che si muoveva leggero. Ti avevo immaginata così all’aeroporto. Avevo smesso di martellare sui braccioli e avevo aperto l’ultimo pacchetto di gomme. E il tuo corpo era sempre illuminato e tutti ti guardavano zitti. Io ripetevo «Ti prego, vieni da me». Mi stavo per alzare per venirti incontro, non so come, non so da che parte, quando è entrato Apollo, l’altro protagonista, e ti ha toccata. Allora mi sono accorto che le gomme erano finite da un pezzo e che quello che stavo masticando era la mia guancia, la mia carne. Avevo di nuovo il sapore di ferro in bocca. Così me ne sono andato, sono scappato via. Ma non senza l’idea di tornare di nuovo.
Sono inciampato sulla borsetta di una signora che era caduta sulle scale e ho notato come tutti mi guardassero, ma vedevano solo un uomo con cappotto nero e il colletto alzato perché era buio e la mia faccia sconvolta non aveva forma.
La maschera ha fatto appena in tempo a tirarmi il cappotto, senza riuscire a dire nulla, ma ero già fuori dalla porta. Avevo gli occhi umidi e, dopo aver trovato l’uscita, ho iniziato a correre verso casa, correre disperatamente, continuavo a mordermi la guancia, a torturarla. Mangiavo la mia carne e il sapore cattivo della bocca si impossessava di me e mi terrorizzava. Arrivato a casa, mi sono toccato la faccia e ho sentito una smorfia di terrore e la guancia destra bollente che dentro ancora sanguinava. Avrei voluto capire di più, perché, com’è successo. Com’è successo che ho perso la testa. Però il pensiero che si stava impossessando di me era un altro. Era un pensiero scuro e freddo che non è sparito fino a che non mi sono sciacquato la bocca e disinfettato la guancia. Ma la mattina mi ha fatto visita di nuovo ed era il giorno della prima. Ti immaginavo un po’ agitata, provare continuamente tutto il balletto, acconciarti i capelli, scherzare con i tuoi compagni, ridere a voce alta e correre per i corridoi con quei veli addosso, sentendoti quasi una ninfa, immersa nella tua parte.
Sapevo che non potevo aspettare altri due giorni per rivederti. Così sono uscito di casa e ti ho comprato dei fiori. Me li ha consigliati il fioraio perché io non sapevo quali scegliere, rose, gerbere, gigli, tulipani. E poi, siccome erano le otto del mattino, mi sono perso tra le vetrine della città in cui tentavo di specchiarmi per vedere se ero presentabile, per vedermi parlare. Ma continuavo a non vedere la mia faccia per intero, era impossibile. Quello che vedevo erano solo i fiori che con tutto il mio agitarmi si stavano sciupando, cadevano petali. Allora sono tornato a casa, ho messo i fiori in una boccia per pesci riempita a metà, e ho cercato di calmarmi. Mi sono infilato in bocca tre gomme tutte insieme e ho iniziato a masticare piano e con fatica. Dopo un’ora ero pronto. Ho tirato via i fiori dalla boccia, li ho asciugati e sono uscito. Non avevo preparato niente da dirti, alla fine pensavo che sarebbero bastati solamente i fiori. Il teatro era aperto, mi hanno detto che per fiori e autografo avrei dovuto aspettare un’altra ora. «Va bene», ho pensato e mi sono seduto sulle poltroncine blu all’ingresso e ho iniziato di nuovo a immaginarti. Uscivi dalle porte laterali del palco, poi venivi da me, mi guardavi contenta per i fiori e mi abbracciavi. «Vieni che ti faccio vedere il teatro e il mio camerino» mi hai detto. E così mi hai portato tra i corridoi, dietro le quinte, in mezzo ai camerini dei tuoi colleghi. Il teatro è un luogo labirintico.
Forse ti ho immaginata per molto tempo perché, quando ho riaperto gli occhi, sentivo la voce di una folla di persone e quella di un’addetta ai biglietti che mi diceva che potevo andare. Mi sono avviato verso i camerini con calma, non mi sentivo agitato. Ti ho vista quasi subito che parlavi, sorridevi, firmavi pezzetti di carta, facevi foto. E da lì in fondo dove ero potevo lo stesso vederti benissimo. Mi è sembrato davvero che mi sorridessi tra una firma e l’altra, tra una testa e l’altra. Allora mi sono accorto del sapore di ferro e che stringevo talmente forte i fiori che avevo spezzato qualche gambo, qualche altro l’avevo schiacciato. Sono ritornato alle poltroncine per calmarmi e invece dei fiori ho stretto talmente forte i braccioli che le mie mani sono diventate gialle. Vedevo la gente che andava verso l’uscita felice e nessuno mi guardava. Ho aspettato e poi mi sono alzato. Sono andato verso il tuo camerino. Non c’era più nessuno e tenevi la porta chiusa. Non credevo di riuscire a bussare. Guardavo le mie mani torturate che pulsavano e i fiori ormai rovinati. E poi con un impulso ho sbattuto le nocche alla porta, una volta sola. «Si?», hai risposto e d’istinto sono entrato. Il tuo camerino era pieno di fiori bellissimi e come prima cosa ho provato vergogna per i miei. Tu eri seduta davanti alla specchiera, circondata da trucchi, profumi e forcine. Mi hai dato un’occhiata veloce attraverso lo specchio e mi hai detto «Poggiali pure lì sul tavolo» e hai continuato a sistemarti allo specchio. Io tremavo e, poggiando i fiori sul tavolino, mi sono sfuggite le mani e ho fatto cadere tutto. Tu non hai dato segno di essertene accorta e io ho risistemato senza fare rumore.
Forse avevi dimenticato la mia presenza dentro la tua stanza bianca piena di fiori perché, quando mi sono avvicinato, sei trasalita. Desideravo avvicinarmi a quelle spalle bianche scoperte sulle quali erano appoggiati i tuoi capelli lisci che avevano ancora la piega di come erano stati raccolti. Ho cercato di avvicinarmi il più possibile per inalare il tuo profumo e stavo per spostare una ciocca di capelli dalla tua spalla, quando mi hai fissato per alcuni secondi allo specchio e mi hai detto di andarmene. In quegli attimi, mi sono accorto che mi hai visto per davvero. Hai visto la mia faccia riflessa nello specchio e io ho visto la tua. Ho notato il nero dei tuoi occhi e quanto fosse piccola la tua bocca, che rimaneva seria. È bastato un secondo. Solo un secondo per capire che non ti stavo immaginando, ma che eri lì e mi hai guardato. Poi sono andato via, verso casa e nel mentre mi toccavo con felicità rabbiosa la faccia, mi tiravo le guance, mi prendevo a schiaffi, toccavo e ritoccavo quella faccia e mi chiedevo perché la gente non mi guardasse. La notte come al solito non feci sonni tranquilli, ma al mio risveglio mi venne a trovare un’idea.
Il giorno della prima era arrivato e io mi sono vestito di tutto punto. Non ho portato con me nessuna gomma e nel tragitto non mi sono torturato le dita né la mia faccia. Finalmente tu mi avresti rivisto e anche la gente mi avrebbe guardato davvero. Saltellavo per la strada e avevo una smorfia di felicità sulla faccia. All’entrata del teatro questa volta non ho preso nessun biglietto, ma mi sono mescolato tra la folla, tanto ero invisibile. E invece di andare a prendere posto per sedermi, mi sono intrufolato tra i camerini e il retroscena. «Lo spettacolo inizia per davvero» ho pensato. Sono rimasto al buio per non so quanto, poi, quando ho capito che lo spettacolo era iniziato, mi sono infiltrato tra ballerini e i collaboratori. Erano tutti in agitazione, sembravano impazziti. Chi si vestiva in un secondo, chi provava la sua parte, chi urlava.
È stato facile togliere il cappotto, lasciarlo per terra e afferrare con velocità parti di costumi di scena. Ancora più facile è stato intrufolarmi nel gruppo di ballo che doveva entrare in scena e interpretare gli alberi della foresta. Dietro le quinte l’isterismo regnava e non immaginavo che si potesse uscire così tanto fuori di sé in questi momenti. Ho immaginato subito quella tua piccola bocca che urlava innervosita.
Quasi non mi sono accorto che stavo staccando ad una ad una le foglie del mio costume e dietro di me ne avevo lasciato una scia, come se stessi sanguinando. Poi ho preso a mordermi le labbra, forte, le volevo mangiare. A poco a poco ho staccato dei pezzi dal labbro inferiore e li ho inghiottiti. Ci ho passato la lingua sopra lentamente e ho assaporato il sangue e il bruciore della ferita. Poi sono entrato in scena, senza che nessuno potesse fermarmi, senza il mio gruppo di alberi. Subito dopo loro mi hanno seguito per rimediare ma io ti avevo già presa, con le labbra insanguinate e ti ho dato un bacio. Adesso anche tu sentivi il sapore di ferro e potevi capire. E io potevo capire te perché finalmente tutti potevano vedermi. Ti ho presa in braccio e sentivo solo il tuo corpo duro come il marmo, che non si muoveva. I tuoi capelli si sono confusi tra le foglie del mio costume. Il pubblico si è alzato in piedi, ma non capiva se questo facesse parte dello spettacolo. Le luci erano puntate su di noi, eravamo i protagonisti. Il tempo era scandito dal gocciolare del mio sangue sul pavimento e riuscivo perfettamente a sentirlo. Poi tutti dal retroscena sono corsi sul palco, lo spettacolo era finito. Ti volevo solo portare con me nel buio dei corridoi, nel labirinto della mia coscienza.