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La già ricordata mostra Donne e Matematica e il lavoro di Sylvie Paycha, Women of mathematics, hanno il pregio di introdurre il lato umano nelle biografie dei matematici. Finora, si è parlato della problematica del mainstreaming di genere in questo mondo e della precariato in ambito accademico. Due delle vicende raccontate nella mostra, quelle di Irina Kmit e di Stefka Bouyuklieva, introducono un tema interessante: quello della vita dei matematici in regimi totalitari.
Ci sono diversi casi abbastanza noti e a volte un po’ “pop”. Qualcuno conoscerà la storia di Renato Caccioppoli (Napoli, 20 gennaio 1904 – 8 maggio 1959), matematico napoletano che ha insegnato a Padova e ha raggiunto risultati fondamentali in un ambito noto come Analisi Funzionale – peraltro, nipote del rivoluzionario russo Michail Bakunin. Caccioppoli finì in carcere in diverse occasioni durante il regime fascista. La più famosa seguì l’emanazione di una legge che vietava ai cittadini di girare con cani di piccola taglia, in quanto considerati poco “virili”: Caccioppoli reagì iniziando a uscire abitualmente di casa con un gallo al guinzaglio. Nel maggio del 1938 tenne un discorso contro Hitler e Mussolini, in occasione della visita del dittatore nazista a Napoli: insieme con la compagna, Sara Mancuso, pagò un’orchestrina in un bar per fargli risuonare nel locale le note della Marsigliese, inno nazionale della Francia, dopodiché cominciò a parlare contro il fascismo e il nazismo in presenza di agenti dell’OVRA.
Intorno alla figura di Caccioppoli ruotano diverse leggende, per la sua personalità molto atipica e per la fine tragica che fece (si uccise con un colpo di pistola alla testa nella sua casa a palazzo Cellamare, dopo essere stato abbandonato dalla moglie). Più utile è forse scegliere due altri matematici, le cui biografie sono state meno romanzate, e costituiscono due esempi eminenti e paralleli di impegno politico. Sono personalità molto diverse, ma entrambi hanno portato avanti fieramente la lotta al nazifascismo: Vito Volterra, pioniere nelle applicazioni matematiche alla biologia, e Mario Fiorentini, studioso di geometria, su cui sono stati girati vari documentari.
Vito Volterra
Vito Volterra (Ancona, 3 maggio 1860 – Roma, 11 ottobre 1940) nacque in una famiglia di origini ebree estremamente povera di Ancona. Quando aveva circa tre mesi e l’esercito di Garibaldi stava assediando la città, all’epoca sotto il controllo papale, la sua culla esplose durante il bombardamento da parte dell’artiglieria garibaldina, lasciando miracolosamente illeso il futuro matematico. Due anni più tardi il padre di Vito morì e sua madre, Angelica Almagià, si ritrovò essenzialmente senza reddito a dover mantenere sé stessa e il bambino. Trovarono supporto economico nel fratello di lei, Alfonso, che per un periodo lavorò presso una compagnia ferroviaria, per poi essere assunto come impiegato dalla Banca d’Italia a Firenze, dove si trasferì con Vito e Angelica. Nonostante l’eccezionale talento matematico di Vito, che a undici anni leggeva libri di Legendre e a tredici iniziava ad affrontare il Problema dei tre corpi, Alfonso spinse ripetutamente affinché il ragazzo abbandonasse gli studi all’Istituto Tecnico “Galileo Galilei” di Firenze e andasse a lavorare presso la fabbrica di costruzione di ferrovie di un altro zio di Vito, Edoardo. Fu proprio Edoardo, invece, a insistere perché il futuro matematico proseguisse, aiutato in questo dal professore di fisica di quest’ultimo, Antonio Roiti (che peraltro combatté con l’esercito garibaldino in Trentino e fu fatto prigioniero dagli austriaci). Volterra proseguì così gli studi, accedendo nel 1879 alla Scuola Normale di Pisa con il massimo dei voti all’esame d’ingresso, pubblicando tre articoli prima della Laurea in Fisica e conseguendo quest’ultima nel 1882. Ottenne la cattedra di Meccanica razionale l’anno successivo a Pisa e sposò nel 1900 sua cugina di secondo grado, Virginia Almagià.
Vito Volterra fu un internazionalista e un antifascista convinto. Nel 1916 divenne il primo presidente dell’Associazione Italiana per l’Intesa Intellettuale fra i Paesi Alleati e Amici. Mussolini sale al potere nel 1923; nel 1926, Volterra abbandona la presidenza del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dell’Accademia dei Lincei, ritenendo di essere in conflitto di interessi con la sua contrapposizione al Governo, e firma il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti di Benedetto Croce. Dal 1928 i fascisti lo inseriscono nel loro archivio di “soggetti politicamente sospetti” e da quel momento in poi la polizia inizia a sorvegliarlo. Nel 1931 fu uno dei dodici professori, su oltre 1200 italiani, a rifiutarsi di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, atto che gli costò l’espulsione dall’Università di Roma e con essa la rinuncia a uno stipendio di circa 3000 lire al mese. Per dare un’idea della consistenza di tale stipendio, si tenga presente che nello stesso anno si poteva acquistare un chilo di pane con 2 lire, e un operaio non specializzato prendeva 200 lire al mese: una scelta estremamente impavida, contando anche le origini povere da cui era provenuto Volterra. Fu rimosso dall’Accademia dei Lincei nel 1934 per un analogo rifiuto e dall’Istituto Lombardo di Scienze e di Lettere nel 1938 perché ebreo. Per questa stessa ultima ragione, anche due suoi figli, che detenevano posizioni accademiche, subirono la stessa sorte. Nello stesso anno, l’Università di St.Andrews gli offrì una laurea ad honorem, ma il suo medico ritenne che non fosse in condizioni di viaggiare fino in Scozia per riceverla. Volterra fu costretto a emigrare nel Texas, dove divenne docente universitario di ingegneria aerospaziale. Morì di trombosi venosa superficiale nel 1940 nella sua casa a Roma.
Mario Fiorentini
L’opposizione al nazifascismo di Mario Fiorentini (Roma, 7 novembre 1918) si realizzò per vie molto diverse rispetto a quelle di Volterra, anche se non si può certo dire che uno fosse “più antifascista” dell’altro. Come lo ha definito Il Manifesto in una recente intervista, Fiorentini è l’ultimo in vita dei 48 gappisti italiani. Nel luglio del 1943, gli Alleati sbarcano in Sicilia, prendendone rapidamente il controllo, e a settembre l’Italia firma l’armistizio. Intorno alla fine dello stesso mese, su iniziativa del Partito Comunista si formano i Gruppi di Azione Patriottica (GAP), ovvero piccoli gruppi di partigiani che operavano prevalentemente in città. Fiorentini, che aveva già collaborato con Giustizia e Libertà e col Partito Comunista, istituisce e organizza il GAP “Gramsci”, operando insieme al GAP “Pisacane” nella zona di Roma centro.
Nel dicembre del 1943, Fiorentini e altri tre gappisti – Lucia Ottobrini, Carla Capponi e Rosario Bentivegna – sono incaricati di organizzare un attentato al cinema Barberini, frequentato da tedeschi. Bentivegna, in bici, porta a termine l’attentato facendo esplodere una bomba all’ingresso, causando la morte di otto militari tedeschi.
Successivamente, insieme agli stessi compagni e a Franco Di Lernia, organizza ed è protagonista dell’attacco al Regina Coeli: Fiorentini approfitta del cambio di guardia per passare in bici davanti all’ingresso e lanciare un pacco contenente due chili di tritolo, che esplode e uccide sette militari, ferendone altri venti. Il giorno dopo fu emanata un’ordinanza dal comando militare tedesco che proibiva l’uso della bicicletta a Roma.
Il 23 marzo 1944 avviene l’azione più eclatante da parte del gruppo di gappisti: l’attentato di via Rasella, che causò la morte di 33 militari tedeschi e il ferimento di altri 110, a cui il giorno successivo seguì per rappresaglia tedesca l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Come spiega lo stesso Fiorentini – pianificatore di tutti questi attacchi – in questa intervista, l’attentato non doveva svolgersi in via Rasella secondo i suoi programmi originari, perché era un luogo spesso frequentato dal matematico e dai suoi compagni.
Fu un ordine dai piani alti dell’organizzazione, non si sa se dal comando regionale o dal nazionale di Giorgio Amendola, a imporre che venisse fatto in via Rasella, perché lunga e senza scappatoie. In origine, inoltre, l’attacco prevedeva il posizionamento di due pacchi da un chilo di tritolo ciascuno (che poteva quindi uccidere un paio di militari e ferirne cinque). Questi due spezzoni dovevano fatti esplodere in successione a qualche minuto l’uno dall’altro, intervallati dal fuoco incrociato di 4-5 gappisti con bombe a mano da mortaio Brixia, in cui veniva messa della balistite accesa tramite delle sigarette. Tuttavia, il giorno del 23 marzo (che il comando centrale aveva scelto per la sua importanza simbolica: era l’anniversario della costituzione del partito fascista a Milano) non era ancora ultimata la preparazione dei due spezzoni. Venne ordinato ugualmente l’attacco, seguendo un terzo piano non messo a punto da Fiorentini, secondo le modalità poi passate alla storia. La prassi prevedeva che a quel punto fosse il comandante del colpito terzo battaglione del Polizeiregimen “Bozen”, il maggiore Dobrick, a organizzare la rappresaglia. Per ragioni tuttavia ancora non chiare (il reduce Arthur Atz concorda con Fiorentini nel dire che fu Dobrick a rifiutarsi, mentre altri hanno dichiarato che furono i militari tedeschi a rifiutarsi per motivi religiosi), fu il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler a portare a termine l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Non si è detto quasi nulla dell’istruzione di Mario Fiorentini come matematico, essenzialmente perché fu in larga parte autodidatta. Ha conseguito la laurea in matematica nel 1963 all’Università “La Sapienza” di Roma, e nel 1964 si trasferì in Canada, dove divenne professore in una scuola superiore. Tra il 1964 e il 1971 ha il suo periodo di attività di ricerca maggiore, in sintonia con la tradizione della geometria algebrica italiana della scuola di Beniamino Segre. Si concentra principalmente sui metodi omologici in algebra commutativa e in geometria algebrica, in stretto legame con le idee più avanzate di Grothendieck e della sua scuola. Ottenne poi la cattedra di Geometria Superiore a Ferrara, che ricoprì dal 1971 al 1996, anno in cui andò in pensione.
Conclusione
Questa serie di articoli mostra varie sfaccettature di come i matematici siano inseriti, più o meno volontariamente, nella società. In alcuni casi, come quando si è parlato delle questioni di genere e dei “grafici a forbice”, sono stati tratti spunti per riflessioni sociologiche e culturali. In altri ci si è concentrati sulle difficoltà che il sistema di assunzione nel mondo accademico pone nella vita delle persone, accennando alle strategie degli atenei che tale sistema costringe ad adottare. Stavolta sono stati evidenziati due esempi, simili per obiettivi quanto diversissimi per metodi, di impegno politico dei matematici.
Quello che voleva essere un po’ il denominatore comune a tutte queste riflessioni, oltre alla già citata mostra Donne e matematica, è innanzitutto che non esiste alcun iperuranio in cui i matematici possano porsi, né debbano sentirsi relegati. Considerarsi esclusi dalla società e dalla politica non è solo deleterio per sé stessi come persone e per l’intera categoria: è una bugia. Una bugia comoda, una maschera che spesso scelgono di indossare anche gli altri accademici, e che nasconde in realtà un rifiuto nei confronti del cambiamento e del miglioramento della propria condizione. Prenderne atto e convincersene è un facile esercizio lasciato al lettore.