Della perduta dignità: lettera al ministro Di Maio

Il cosiddetto Decreto Dignità è legge da pochi giorni. Fortemente voluto dal Ministro del Lavoro Luigi Di Maio, tra le altre cose il decreto riforma il rapporto di lavoro “a termine”, ovvero quello che viene chiamato comunemente “a tempo determinato” o “interinale”. Ci sono benefici in vista per i lavoratori che potranno finalmente essere stabilizzati? Forse sì, almeno nelle intenzioni del legislatore. Peccato però che i primi effetti vanno esattamente nella direzione opposta. Abbiamo provato a dare voce a chi ha subìto i malaugurati effetti del decreto: ecco una lettera che il ministro Di Maio potrebbe ricevere in questo caldo agosto 2018, e ci auguriamo che possa diventare spunto di riflessione.

Caro ministro Di Maio,

anzi, visto che siamo praticamente coetanei, ti do del tu. Caro Luigi. È agosto e sicuramente sei in vacanza. Anche io sai? Solo che le mie vacanze rischiano di essere più lunghe delle tue, perché il giorno dopo l’approvazione del tuo decreto mi hanno licenziato. Sicuramente ti starai chiedendo come mai, visto che ti sei sforzato tanto per garantirci un futuro. Te lo spiego, ma per farlo permettimi di partire dall’inizio.

Lavoravo in un call center. Non vendevo nulla, sia chiaro, mi occupavo di assistenza tecnica. Ci chiamiamo ‘inbound’: siamo quelli che chiami quando non ti si vede più la pay tv, quando non ti funziona internet, quando fai un sinistro stradale e devi comunicare il CID. Una grande azienda, una multinazionale, che nella mia città dà lavoro a circa 1300 persone, tantissime delle quali “precarie”, “interinali”, “a tempo determinato”. Operativi sempre, dalle 8 di mattina alle 24, 365 giorni l’anno, festivi compresi.

Sono arrivato lì tre anni fa, circa, attraverso un annuncio sui portali specializzati, inquadrato come dipendente di un’agenzia. Una storia comunissima, come quelle di milioni di altri ragazzi, fatta di sogni infranti, di disillusione, di bisogno. Perché, caro Luigi, questo non è uno di quei lavori che sogni di fare quando sei un bambino. Non è l’astronauta, il calciatore, il pilota, la ballerina, l’attore, la cantante. In questo lavoro ti metti una cuffia in testa, ti siedi davanti a un pc e ascolti le lamentele della gente per circa 35-40 ore la settimana. Di media. Pagate bene eh, per carità. Magari tutti i lavori fossero economicamente riconosciuti come quello. Ma il risvolto della medaglia è stato rinunciare a tante domeniche, tanti Natali, Pasque, Capodanni, Ferragosti. Facevo parte dell’esercito degli invisibili, quelli che lavoravano quando i dipendenti erano a casa, quelli che facevano lo straordinario tutti i giorni, quelli che non dicevano mai di no. Quelli che rinunciavano ai loro hobby, alle loro famiglie, al loro tempo libero. Che aprivano e chiudevano i servizi, senza soluzione di continuità. Per buona volontà, certo, ma anche e soprattutto per la speranza di venire stabilizzati, per iniziare a programmare un futuro, per avere delle certezze.

Il nostro esercito non poteva avere dei soldati più diversi tra loro, nelle sue fila. Ci sono state tante mamme, che volevano reinserirsi nel mondo del lavoro senza rinunciare a passare del tempo con i loro figli, spesso ancora troppo piccoli. Ci sono stati gli uomini e le donne avanti con gli anni, che nessuno voleva più ma che avevano ancora molto da dare. I neolaureati, che non avevano ancora ben capito come inquadrarsi nella vita. Gli universitari, che si sono pagati studi e svaghi. Quelli come me, che si erano stancati dei lavoretti stagionali in nero. L’Azienda è stata molto democratica, ha dato a tutti le stesse opportunità, rinnovo dopo rinnovo. Ho imparato un mestiere e, cosa che non avrei mai creduto possibile, ho acquisito delle competenze importanti. Sono diventato indispensabile.

E ho conosciuto i miei colleghi. Sono entrato a far parte di un mondo parallelo, una strana famiglia allargata, eterogenea e un po’ disfunzionale. Sai Luigi, quando passi tante ore al giorno in un luogo, quel luogo diventa un po’ come la tua casa. Ci riversi dentro paure, gioie, amore, odio. Quel luogo diventa il contenitore delle tue emozioni. Ho visto nascere (e sfasciarsi) tante famiglie. Ho visto pancioni e passeggini. Ho perso il conto dei caffè alla macchinetta e delle sigarette fumate fuori, con 40° d’estate e 10° d’inverno. Ho gioito con loro, mi sono arrabbiato con loro, ho festeggiato per un mutuo concesso, per un finanziamento accettato, per una macchina nuova. Mentre i dipendenti riuscivano, mattone dopo mattone, a costruire la loro vita io, l'”interinale”, ero lì accanto a loro a stappare lo spumante e a sperare fortemente di essere il prossimo. Perché vedi, Luigi, a un lavoratore a tempo determinato quasi nulla è concesso. È difficile persino farsi passare un finanziamento da poche centinaia di euro, per comprare un cellulare o la Playstation, figuriamoci per qualcosa di più grosso come la macchina o la casa. Ma fa nulla, io ero lì a lavorare con gli altri e a cercare di far fruttare il più possibile ogni euro guadagnato. Un futuro a metà è meglio di nessun futuro, mi ripetevo.

Ogni rinnovo era una tortura, uno stillicidio. Il giorno della scadenza, la convocazione dal superiore, la scommessa. Dentro o fuori? Rinnovi medio-lunghi sommati a proroghe ridicole, dieci giorni, quindici. Perché l’Azienda, ci spiegavano, era soggetta a stagionalità del lavoro. Perché il nostro è un lavoro molto delocalizzato all’estero e quindi molto fluttuante. Oggi possiamo prendere duecento chiamate, domani dieci. Dipende da troppe cose. E noi non siamo che l’ultima ruota di un meccanismo che attraversa talmente tante fasi che l’inizio neppure si vede. Tre anni così. Fino alla scorsa settimana.

Ci hanno convocati, io e i miei colleghi nella mia stessa situazione, e ci hanno detto che gli dispiaceva tantissimo ma il rapporto di lavoro non poteva più continuare. Perché l’attuazione del Decreto Dignità ci rendeva tutti, di fatto, dei fuori legge. Perché non potevano assumerci in un momento di calo del lavoro come è l’estate e quindi ora, in attesa di capire come procedere, dovevano immediatamente licenziarci. Tutti. Senza appello. Ho visto il mio capo, mentre mi diceva che quella sarebbe stata la nostra ultima settimana. Aveva un groppo in gola e gli occhi lucidi. Aveva investito in noi, fino a renderci del tutto autonomi, una meccanismo perfetto. Un reparto che primeggiava per efficienza. Ci ha abbracciati uno ad uno, mentre non faceva che ripetere “mi dispiace, non dipende da me”. Le ragazze hanno pianto. Io mi sono sentito mancare il terreno sotto i piedi. Da chi dipende, allora? Da te, Luigi? Pensavi a questo quando elaboravi il tuo magnifico decreto? Pensavi agli “effetti collaterali” o credevi che tutto sarebbe stato subito bello e facile, che le Aziende avrebbero subito spalancato le braccia per accogliere tutti?

Io non ho più un lavoro, onorevole ministro Luigi Di Maio. Io sono un disoccupato, ora. Ho perso il lavoro per il Decreto Dignità. Ora, agosto 2018, io una dignità non ce l’ho più. L’ho perduta nei meandri di una legge dal nome roboante e dagli effetti distruttivi. Non so nemmeno perché ti sto scrivendo questa lettera, che forse non leggerai mai. Ma ora, mentre scrivo con un peso nel cuore, mi sento vittima di un’ingiustizia, dell’ennesima stortura di un sistema malato che forse volevi aggiustare ma hai finito per complicare ancora di più. Peggio per me, che sono a casa. Peggio per chi è rimasto a lavoro, che dovrà fare anche la mia parte per mantenere alti gli standard. Io non dubito che le intenzioni fossero buone, ma volevo farti sapere qual è stato il primo effetto.

Ora esco, vado a fare una passeggiata. Fuori ci sono 35°, è estate e d’estate ci si diverte, non dicono tutti così forse? Io spero di divertirmi per quel poco che potrò. Tu riflettici su. Le vite delle persone, a volte, sfuggono a un elenco di norme e codici.

Buon rientro dalle ferie

Un disoccupato

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