Perché il confine irlandese sta creando problemi alla Brexit?

Il divorzio tra Regno Unito e Gran Bretagna, deciso dalla maggioranza degli elettori inglesi nel giugno 2016, sembra avere più insidie di quanto sperassero i burocrati inglesi. I legami tra il paese e l’Unione non sono pochi, l’integrazione negli anni è diventata sempre più pervasiva e sciogliere tutti i nodi sta risultando molto complesso. Con il termine della cosiddetta Brexit fissato al 29 marzo 2019, lo scorso dicembre si era arrivati finalmente ad una bozza di accordo che prevedeva un periodo di transizione di circa due anni e delle linee guida per accordi più dettagliati da firmare entro dicembre 2020. L’accordo è però ormai naufragato. Il parlamento inglese, infatti, lo scorso 15 gennaio con 230 voti ha rifiutato la proposta di accordo presentata dal governo guidato da Theresa May. I punti su cui l’opposizione fa leva sono diversi, ma sicuramente il più importante è quello riguardante la questione del confine irlandese e sul cosiddetto “backstop”.

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Manifestazione anti Brexit. Fonte: Ilsole24ore.

Il confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, lungo 499 km, è l’unico confine terrestre (oltre a Gibilterra) del Regno Unito ed è un confine invisibile dal 1998, data degli accordi di Belfast. Secondo l’accordo firmato a dicembre tra i negoziatori dell’UE e quelli del Regno Unito quest’ultimo, una volta realizzatasi la Brexit, si impegnerebbe a non introdurre una frontiera fisica tra le due irlande. Inoltre, il negoziato contiene un “backstop”, ovvero una clausola di salvaguardia. Clausola per la quale, in caso non si trovi un accordo specifico sulla questione entro dicembre 2020, cioè alla fine del periodo di transizione, nessuna frontiera fisica verrà introdotta tra l’Uster e l’Eire. In questo modo, resterebbe in vigore l’unione doganale tra l’Unione Europea e il Regno Unito e l’Irlanda del Nord si troverebbe comunque a dover rispettare alcune norme del Mercato Comune Europeo, anche se ufficialmente ne sarebbe fuori. La clausola, inoltre, non prevede la recessione unilaterale, per cui, affinché venga annullata, deve esserci l’accordo di entrambe le parti, cosa che attualmente sembra impossibile. Tutti i leader dell’Unione Europea si sono detti non disposti a modificare i termini dell’accordo, soprattutto nella parte che concerne la clausola di salvaguardia. L’unico ad aver mostrato un minimo di apertura nei confronti del Regno Unito è stato il Ministro degli Esteri della Polonia, che ha proposto di limitare la durata del backstop a cinque anni. Proposta che però cade nel vuoto, in quanto per approvarla il Consiglio Europeo dovrebbe votare all’unanimità.

I problemi per il governo di Theresa May non sono solamente all’estero. Infatti, quella dei Capi di stato europei non è l’unica opposizione che la premier sta incontrando e, probabilmente, non è neanche la più difficile da combattere. Sul fronte interno, infatti, la Brexit sta facendo sentire il suo peso sia politico che sociale. L’accordo presentato dal governo è stato bocciato dalla Camera dei Comuni con circa 230 voti a sfavore e il fronte dei “no” è trasversale: non si tratta solamente dei partiti di opposizione e qualche franco tiratore. Lo stesso partito conservatore della May è spaccato all’interno tra chi vorrebbe una hard brexit e accusa la premier di essere stata troppo concessiva, e chi invece sostiene ancora il “Remain”.

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La premier britannica Theresa May in parlamento durante il voto sull’accordo Brexit, 15 gennaio 2018. Fonte: Corriere della Sera.

Il nodo principale, anche in questo caso, è la questione del confine irlandese e del backstop, che ha suscitato parecchie critiche tra i partiti di maggioranza. La soluzione, infatti, non piace né all’ala più conservatrice del partito dei Tories né al DUP, partito unionista irlandese vitale per la tenuta del governo. Per quanto riguarda i primi, i cosiddetti “hard Brexiter” vedono nel confine invisibile e nel mantenimento dell’unione doganale una negazione stessa della Brexit e un tradimento del risultato del referendum elettorale del 2016. Con la permanenza dell’unione doganale e delle sue regole, verrebbe meno la retorica utilizzata in questi anni dai promotori del “leave” delle “nuove politiche commerciali”, indipendenti ed autonome, che il Regno Unito avrebbe potuto portare avanti una volta fuori dall’Unione. Gli unionisti nord irlandesi del DUP, invece, hanno paura che lasciando il confine aperto si metta a rischio l’unità del Regno. Infatti, in quel caso la vera frontiera verrebbe spostata dalla terra ferma al mar del Nord, quindi l’Ulster rimarrebbe fisicamente nell’Unione Europea e dovrebbe trattare Londra quasi come un paese terzo, restando, almeno economicamente, fuori dal Regno. Ipotesi che gli unionisti vogliono evitare a qualsiasi costo. Il diverso status del mercato nord irlandese non sarebbe gradito neanche alle altre tre regioni dell’UK: il partito indipendentista scozzese, SNP, ha già minacciato un nuovo referendum nel caso l’Ulster dovesse acquisire uno status privilegiato.

Nonostante le opposizioni, il governo May non sembra disposto a fare passi indietro sulla questione irlandese. La premier ha più volte ribadito, sia in Parlamento che fuori, che nessun confine fisico verrà reintrodotto tra le due irlande. Quello che si vuole evitare, ovviamente, è che le tensioni tra le due regioni, conclusesi solamente alla fine degli anni Novanta con il cosiddetto “Good Friday Agreement”, ritornino. La reintroduzione di un “hard border” potrebbe dunque sfociare nella violenza di coloro che da ormai vent’anni vivono nelle zone di confine e sono abituati a fare avanti e indietro tra i due paesi. Il terrorismo irlandese ha segnato con il sangue gran parte della storia del dopoguerra britannico, provocando circa tremila morti dal 1960 al 1998, nessun leader vuole essere ricordato come colui che ha riportato la violenza nella regione, tanto meno Theresa May.

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Manifestazione contro Brexit in Irlanda del nord. Foto: Internazionale.it

I motivi per cui il confine è malvisto non sono però solamente politici e sociali. Importanti sono anche le ripercussioni economiche. Una barriera fisica si ripercuoterebbe sull’interscambio interno e sui rapporti economici con l’Eire con effetti disastrosi per l’economia di entrambi i paesi. Problemi ci sarebbero anche con il backstop, ovviamente, che crea perplessità anche agli economisti europei. Infatti, la clausola prevede l’unione doganale, ma non che l’UK rimanga nel mercato unico, con il pericolo che venga compromesso il “level playing field”: quella garanzia di condizioni economiche uguali per tutti gli stati parti del Mercato Unico, il tutto a svantaggio dell’Europa. Un modo per evitare l’impasse sarebbe quello di adottare un “Norway plus”, cioè un accordo commerciale simile a quello che l’Unione ha con la Norvegia e che prevederebbe la permanenza del Regno nell’unione doganale, con tutti gli obblighi che ne derivano. Quest’ultima ipotesi incontra l’opposizione dei “brexiter” più duri ma anche della stessa Theresa May, in quanto limiterebbe molto la capacità della Gran Bretagna di negoziare accordi commerciali con paesi terzi.

Intanto, la May sembra essere riuscita a ricompattare i suoi durante la seduta del parlamento dello scorso 29 gennaio. Nessun rinvio per la data del 29 marzo in cui è prevista la Brexit, ma è stato votato un emendamento per modificare l’accordo raggiunto, in particolar modo nella parte concernete il backstop. Una vittoria del governo che però sembra essere una “finta vittoria”. Mentre Theresa May si è detta pronta a incontrare di nuovo i negoziatori europei per formulare un nuovo accordo, questi ultimi non sembrano affatto disponibili. La rinegoziazione è un’ipotesi complessa e la premier britannica, con il  mandato del parlamento, dovrà ora tornare in Europa a rinegoziare il trattato da lei stessa concluso, in cerca di “soluzioni alternative”.

Per cui, quali sono i possibili scenari a questo punto?

  • Unione Europea e Regno Unito rinegoziano un accordo, ipotesi molto remota;
  • Il Regno Unito il 29 marzo esce dall’UE senza nessun accordo, la cosiddetta ipotesi del “no deal” che l’opposizione guidata dal labourista Jeremy Corbyn vuole in ogni modo scongiurare;
  • Estensione dell’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea e rinvio della data del 29 marzo per l’uscita dall’Unione Europea. Ipotesi scongiurata dal voto parlamentare del 29 gennaio e che trova un ulteriore ostacolo nelle elezioni europee del prossimo maggio. Mentre la May potrebbe sfruttare il cambio di maggioranza nel parlamento europeo per arrivare a maggiori concessioni nell’accordo, l’Unione Europea si troverebbe davanti al problema di far votare o meno i britannici per essere rappresentati nell’assemblea parlamentare.

Il governo britannico al momento è alle prese con un “piano B” che però non sembrerebbe discostarsi troppo dall’accordo iniziale. Theresa May rimane ferma su alcuni punti: il “no” ad un secondo referendum, “no” al Norway plus e “no” all’estensione dell’articolo 50. Cosa succederà non è ancora ben chiaro, le voci si rincorrono sulle diverse questioni e le tensioni stanno nascendo ovunque, come dimostra l’esplosione di un’autobomba a Derry, in Irlanda del Nord, attribuita alla “nuova Ira”. Gli sviluppi della situazione, dunque, sono ancora incerti e l’incertezza, si sa, non fa bene né all’economia, né all’umore popolare.

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