Il mondo è stato colto abbastanza alla sprovvista quando, nella sera di mercoledì 23 gennaio, il presidente dell’Assemblea Nazionale Juan Guaidò si è proclamato come presidente incaricato del Venezuela. La dichiarazione segue di pochi giorni il giuramento con cui Maduro ha inaugurato il suo secondo mandato, ricevuto dopo elezioni poco trasparenti e boicottate dall’opposizione. Il golpe Venezuelano è stato promosso dall’Assemblea Nazionale, esautorata dal proprio ruolo a marzo del 2017 attraverso una sentenza della Corte di Giustizia che ha trasferito il potere ad una più “docile” assemblea costituente avente il compito di redarre una nuova costituzione e, nel frattempo, mandare avanti l’attività legislativa “ordinaria” del paese.
L’annuncio di Guaidò è stato immediatamente ribattuto dalle agenzie stampa di tutto il mondo. A strettissimo giro è arrivato il riconoscimento di Trump, tra i primissimi a esprimere il proprio appoggio ai golpisti. A ruota buona parte delle cancellerie americane (sia del nord che del sud) hanno riconosciuto Guaidò come presidente legittimo appoggiando, de facto, il golpe venezuelano. Tra le eccezioni spiccano la Bolivia del presidente Morales, ideologicamente affine a Maduro, e il Messico del populista Lopez Obrador. Nel resto del mondo, invece, la Russia ha immediatamente sostenuto Maduro riconoscendolo come unico presidente legittimo. L’atteggiamento è figlio della stretta collaborazione tra Rosneft e la statale PDVSA, nonché della possibilità di avere un alleato nell’altro emisfero. Tra le altre potenze che appoggiano Maduro troviamo anche la Turchia e l’Iran.
I fondamenti giuridici di questo colpo di mano risiedono nell’aver dichiarato, in seguito ai brogli, la rielezione di Maduro come nulla facendo divenire la sede presidenziale vacante. Quest’eventualità, secondo la costituzione (Artt. 233 e 333), attribuisce l’incombenza di creare un nuovo governo al presidente dell’assemblea nazionale. Guaidò ha infatti dichiarato che Maduro è un “usurpatore” in quanto detiene una carica non sua e che ha ottenuto in maniera illegale. Tale dichiarazione è ovviamente rigettata dagli ambienti vicini a Maduro, che considerano l’elezione dello scorso maggio assolutamente regolare e priva di brogli.
Nei giorni scorsi l’intero territorio nazionale è stato oggetto di proteste: Guaidò ha chiesto ai venezuelani di scendere in piazza e di scioperare due ore nella giornata di martedì. I suoi hanno risposto con proteste a Caracas, a Maracaibo, negli stati di Zulia, Tachida e Bolivar. Maduro tuttavia ha deciso di non mollare e ha risposto congelando i beni di Guaidò e rispondendo agli ultimatum con la possibilità di indire nuove elezioni politiche ma non presidenziali, dato che le ultime sono avvenute meno di un anno fa. Se da un lato ha usato il pugno duro con Guaidò, impedendogli l’espatrio, dall’altro ha teso una mano al fine di analizzare nuove vie d’uscita. L’opposizione teme che invece sia solo un tentativo di ridare respiro al regime e ha annunciato attraverso il portavoce Vecchio di trattare solo ed esclusivamente per l’uscita dalla dittatura.
Più tardi lo stesso giorno Guaidò ha denunciato l’ingresso di alcuni reparti speciali della polizia venezuelana (il FAES) in casa propria durante un comizio, evidentemente in cerca della moglie e del figlio. Altra notizia che ha dominato la giornata è l’arresto di alcuni giornalisti stranieri (cinesi, spagnoli, francesi, cileni e colombiani) senza una precisa accusa. Gli arresti sono stati portati avanti dal SEBIN (Servizio Bolivariano d’Informazione), che rappresenta la maggiore agenzia d’intelligence di Maduro.
La situazione è bollente e il rischio di scoppio di una guerra civile in seguito al golpe venezuelano è davvero molto alto. La possibilità che le due fazioni, con la polizia a supporto di Maduro e parte dell’esercito a supporto di Guaidò, vengano a contatto e inizino un conflitto è sempre più concreta. Quello che può stemperare la situazione è un accordo tra le parti che al momento sembra difficile da raggiungere, considerando che Maduro non vuole né dimettersi dalla carica di presidente né, tanto meno, andarsene dal proprio paese. La comunità internazionale, d’altra parte, è uno spettatore direttamente interessato: specie per quanto riguarda la sfida a distanza tra Russia e Occidente da un lato e la stabilità del resto del Sud America nell’altro.
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