Dall’Inter alla Serie D portoghese: la storia di Massimo Ingrande

I calciatori italiani all’estero diventano, ogni giorno che passa, un’armata sempre più folta e intensa, a cui vale assolutamente la pena dare un’occhiata. Non solo i professionisti, però, provano esperienze in ambito calcistico lontano dall’Italia. In tal senso, la storia di Massimo Ingrande, ragazzo veneto che a diciotto anni sta provando un’esperienza diversa in tal senso, dopo una lunga gavetta giovanile e qualche occasione di fare la differenza, può essere d’esempio per tanti giovani, non soltanto legati al pallone ma anche – più semplicemente – a una certa visione della vita e delle sue opportunità. Massimo ha accettato di raccontare a noi la sua storia, con la speranza che la sua carriera possa finalmente decollare.

La storia di Massimo Ingrande: dal provino con l’Inter all’esperienza in Portogallo

Partiamo dal presente: per quale squadra giocherai in Portogallo?

«La squadra si chiama Mourisquense e fa parte della “Serie D” portoghese. Concludo l’anno con loro e a luglio torno in Italia. Il mio cartellino, d’altronde, non è di nessuna squadra italiana, non ho firmato un contratto con nessuno, sono in Portogallo da svincolato».

Com’è che ti sei trovato proprio in Portogallo?

«Ho vinto una borsa di studio! Sono finito qui perché ho provato ad accedere a un’associazione che si occupa di far studiare i ragazzi all’estero durante le superiori. Mi sono iscritto, ho fatto qualche test (psicologico, lavoro in gruppo, colloquio coi volontari), ho inviato un sacco di documenti come i miei voti scolastici, cose riguardanti reddito, ISEE, della famiglia eccetera. Mia madre era dipendente pubblica (non lavorava in Comune ma in una lavanderia di una casa di riposo, che tra l’altro è tornata privata da pochissimo). Grazie alla mia media scolastica l’INPS mi ha pagato tutto il viaggio, condizione necessaria per la mia partenza. E ora sono qui! Ho vinto un programma annuale e ho scelto il Portogallo, sia perché amo il Paese e la cultura, sia perché era uno dei pochi che mi dava la certezza di giocare a calcio».

Prima di questa tappa, come si è svolta la tua carriera?

«Dai cinque fino ai tredici anni ho giocato nel Musile, squadra della città in cui vivo, che raggiunse anche la Serie D prima di fallire rovinosamente e creare l’Union Sandonatese – fallita anche quella – e, successivamente, il Musile Mille. Col Musile ho fatto gli esordienti a undici regionali, il resto niente di che. A tredici anni sono stato chiamato al Team Biancorossi, squadra già più “famosa” nel territorio, che mi chiamò per fare i giovanissimi sperimentali. L’anno successivo sono rimasto infortunato per gran parte della stagione e ho giocato molto poco. In questo periodo feci il provino per il Venezia e l’Inter. L’anno dopo è stato quello degli Allievi regionali, dove siamo arrivati terzi. Lo scorso anno, invece, a sedici anni, sono passato al San Donà, squadra che al momento milita in Serie D (promossi lo scorso anno) per fare gli Allievi regionali e la Juniores regionale. Per una stagione intera ho giocato sia sabato sia domenica, capitano con gli Allievi (cinque gol da difensore in stagione) e titolare con la Juniores regionale. E adesso sono qui, arrivato al Mourisquense, squadra che milita nella Serie D portoghese. Mi sto allenando con la Juniores e con la prima squadra da inizio anno. Ora che sono arrivati i documenti, esordirò sicuramente in D! Nell’anno in cui sono passato al San Donà ho fatto anche un provino col Mestre. Il provino andò benissimo, ma purtroppo saltò tutto per via dei problemi finanziari della società».

Massimo Ingrande
Massimo Ingrande con la maglia del Mestre.

Dicci di più sul tuo provino con il noto club nerazzurro.

«Come detto, il provino all’Inter avviene tra l’ultimo anno di Musile e il primo di Team Biancorossi. Il nostro mister mi venne a dire che l’Inter aveva organizzato un provino con dei ragazzi di varie società e, tra i vari nomi, c’era anche il mio. Il provino, se non sbaglio, si è svolto a Casale, un paese vicino a me, la cui squadra quell’anno aveva l’affiliazione. Eravamo undici contro undici, mi ricordo ancora bene il riscaldamento: un preparatore vestito con le divise ufficiali ci ha fatto palleggiare prima, riscaldare poi. Era per me surreale, le panchine e le tribune piene di persone con taccuino e penna a segnarsi i nomi. Ho giocato tutta la partita come difensore centrale, ruolo che mi accompagna da quando ero piccolo, assieme a quello del terzino destro. Mi è piaciuto un sacco, ma a quell’età ancora non capivo bene cosa potesse significare quel provino. A fine partita il mio mister mi ha fatto i complimenti e mi ha avvisato, dicendo che non devo mai limitarmi al “compitino”. Mi è servito molto, purtroppo dopo non ho ricevuto nessun contatto dall’Inter».

Secondo te andare via dall’Italia può essere una mossa vincente per tentare di fare carriera in questo campo?

«Sicuramente approcciarmi a un altro tipo di calcio mi sta aiutando a crescere e formarmi come giocatore. Il mio pensiero è quello di essere pronto a trovare una squadra al mio ritorno in Italia, a luglio. E sinceramente io non ho ancora smesso di sperarci e crederci. Magari non mi aspetto di finire al Barcellona, al Real Madrid, ma se mi impegnassi e trovassi qualcuno disposto a credere in me non escluderei anche un approdo nel professionismo italiano. Ovviamente io spero sempre in alto ma tendo a rimanere con i piedi per terra. Sicuramente anche giocare in Serie C o in Serie B non sarebbe male, anzi!».

Hai trovato differenze sostanziali tra l’approccio al calcio italiano e quello portoghese?

«Parlando di settore giovanile, ho trovato molte differenze negli allenamenti, che si occupano meno della parte fisica per concentrarsi sulla parte del giocare la palla, dell’imparare prima a muoverla e giocarla e poi metterci dentro, progressivamente, la tattica. Anche in prima squadra, ci sono moltissimi allenamenti con punto focale la palla, il passaggio, la tecnica e lo sviluppo dell’azione. I giovani corrono molto in campo, cercano sempre la giocata con la palla e spesso si dimenticano di quegli schemi tattici che sovente nel nostro calcio sono inculcati nei ragazzi. In termini generali, c’è molta più creatività».

Come ti è sembrato dover lasciare casa così presto per una realtà tanto diversa? Hai trovato difficoltà oggettive?

«Sinceramente è stata una mia decisione partire, quindi ero pronto ad affrontare il viaggio. Nonostante me la cavi con le lingue e ora sappia già parlare perfettamente il portoghese, a livello di difficoltà oggettive devo ammettere che molto probabilmente il primo mese non capivo quasi nulla. Poi è stato difficile dover trovare una seconda famiglia ospitante, dopo che la prima ha avuto problemi di divorzio e non poteva più tenermi. Per fortuna il mio paese qui si è attivato per trovarmene una e alla fine un mio compagno di classe si è offerto; adesso vivo con lui!».

In virtù di questa esperienza di globalizzazione e di amicizia, credi che un calcio con meno razzismo sia possibile?

«Un calcio con meno razzismo è ampiamente possibile. Io, in prima persona, mi trovo perfettamente integrato e trovo perfettamente integrati anche i ragazzi brasiliani che giocano con me. Come possiamo vedere, però, gli episodi di razzismo molte volte vengono da fuori, i “buuu” non si trovano in campo ma spesso e volentieri sugli spalti. Nonostante questo, con una buona educazione al rispetto e dei controlli efficienti, impareremo sicuramente ad amare il calcio e limitarci agli sfottò sulle maglie, evitando il colore della pelle, anche perché ormai essere di un’etnia o un’altra ha sempre meno influenza su questo mondo globalizzato».

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