Lo Stato Islamico si riaffaccia in Mali

Lunedì 18 novembre un attacco, poi rivendicato dallo Stato Islamico, ha ucciso trenta soldati di pattuglia presso la regione di Gao, in Mali. Il convoglio è stato attaccato sulla strada che da Ménaka porta ad Ansongo, all’altezza di In-Delimane. Il gruppo che ha materialmente portato avanti l’attacco è l’ISGS, Islamic State in the Greater Sahara, guidato tra gli altri da Adnan Abu Walid al-Sahrawi, un estremista che, come suggerisce il nome, ha avuto un trascorso anche con il Fronte Polisario. Nel 2015 al-Sahrawi giurò fedeltà a Abu Bakr al-Baghdadi, entrando a far parte della filiale subsahariana dello Stato Islamico e scalandone rapidamente le gerarchie anche grazie alla sua lunga esperienza.

Il Mali, un Paese difficile

Il Mali è un Paese di quasi diciannove milioni di abitanti, esteso su un territorio grande due volte il Texas e con un esercito che difficilmente arriva ai diecimila effettivi, includendo anche la riserva. Va da sé che con numeri di questo tipo il controllo del territorio è difficile, se non impossibile, e la situazione peggiora notevolmente quando si considera lo stato degli armamenti (buona parte delle armi proviene o da dismissioni europee o da Paesi del secondo mondo prima della caduta del Muro di Berlino). A questo si aggiunge una struttura ancora in fase di consolidamento dopo l’integrazione dei tuareg, protagonisti di una guerra civile (la guerra di liberazione dell’Azawad) a scopo secessionista, che nel trattato di pace hanno accettato di conferire alcuni effettivi all’esercito nazionale.

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Soldati ciadiani delle forze di pace. Foto: BBC.

Per sopperire agli eventuali problemi che un Mali instabile potrebbe causare, nel Paese sono presenti militarmente diverse potenze africane sotto l’ombrello dell’AFISMA (African-led International Support Mission to Mali): Ciad (che apporta oltre duemila uomini), Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Niger, Nigeria, Guinea-Bissau, Liberia, Senegal, Sierra Leone e Togo. Nel Paese è presente anche una missione a guida Nazioni Unite, la MINUSMA (Mission multidimensionelle intégrée des Nations unies pour la stabilisation au Mali) che conta oltre cinquanta Paesi, e due dell’Unione Europea (EUCAP e EUTM Mali).

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Nonostante tutti gli aiuti dall’estero, il Mali rimane un Paese tendenzialmente instabile. Oltre alla già citata guerra di liberazione dell’Azawad, il golpe del 2012 e la ribellione islamista hanno contribuito a tormentare il Paese subsahariano. Quest’ultima ha visto una recrudescenza dopo la fine del regime di Gheddafi, quando i mercenari maliani assoldati dall’allora governo di Tripoli fecero ritorno a casa dopo la sconfitta. Gran parte di questi sono rientrati nei ranghi dell’ISGS e in altre formazioni islamiste affini. Più che sugli attacchi, lo Stato Islamico in questa parte del mondo punta forte sulla destabilizzazione etnica: con attacchi mirati verso le comunità di etnia dogon, hausa e fulani gli islamisti puntano a metterle l’una contro l’altra e, successivamente, a offrire loro protezione cercando di sostituirsi allo Stato.

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Un villaggio dogon. Foto: Reuters.

Uno contro l’altro

Il Mali ha destinato a protezione delle comunità hausa, dogon e fulani circa un terzo delle proprie forze armate ma, dal momento che il territorio occupato da queste etnie oltrepassa i confini nazionali, ecco che l’instabilità si propaga con enorme facilità anche in altri Paesi come il Burkina Faso e la Costa d’Avorio. Anche questi Stati, nonostante la situazione sia notevolmente migliore rispetto a quella di Bamako, rischiano di subire un’opera di destabilizzazione. Il ruolo della Libia è quella di testa di ponte verso l’Africa occidentale, dove riparano parte dei fuggitivi dalla Siria e dall’Iraq.

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Un eventuale aumento della conflittualità nell’area andrebbe a ingrossare i flussi migratori verso l’Europa, con una lunga serie di effetti a catena. I leader dell’Africa occidentale hanno allocato in totale circa un miliardo di dollari per la lotta al terrorismo, ma lo sforzo necessario non è esclusivamente militare: tutti gli Stati dovranno necessariamente ricomporre i rapporti con la componente musulmana della popolazione per evitare che vadano a ingrossare le file degli estremisti e scatenino così una guerra civile africana che genererebbe, come un sasso in uno stagno, una lunga serie di ripercussioni a livello regionale, continentale e mondiale.

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