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Lo Stato Islamico si riaffaccia in Mali

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Carlo Paganessi

Lunedì 18 novembre un attacco, poi rivendicato dallo Stato Islamico, ha ucciso trenta soldati di pattuglia presso la regione di Gao, in Mali. Il convoglio è stato attaccato sulla strada che da Ménaka porta ad Ansongo, all’altezza di In-Delimane. Il gruppo che ha materialmente portato avanti l’attacco è l’ISGS, Islamic State in the Greater Sahara, guidato tra gli altri da Adnan Abu Walid al-Sahrawi, un estremista che, come suggerisce il nome, ha avuto un trascorso anche con il Fronte Polisario. Nel 2015 al-Sahrawi giurò fedeltà a Abu Bakr al-Baghdadi, entrando a far parte della filiale subsahariana dello Stato Islamico e scalandone rapidamente le gerarchie anche grazie alla sua lunga esperienza.

Il Mali, un Paese difficile

Il Mali è un Paese di quasi diciannove milioni di abitanti, esteso su un territorio grande due volte il Texas e con un esercito che difficilmente arriva ai diecimila effettivi, includendo anche la riserva. Va da sé che con numeri di questo tipo il controllo del territorio è difficile, se non impossibile, e la situazione peggiora notevolmente quando si considera lo stato degli armamenti (buona parte delle armi proviene o da dismissioni europee o da Paesi del secondo mondo prima della caduta del Muro di Berlino). A questo si aggiunge una struttura ancora in fase di consolidamento dopo l’integrazione dei tuareg, protagonisti di una guerra civile (la guerra di liberazione dell’Azawad) a scopo secessionista, che nel trattato di pace hanno accettato di conferire alcuni effettivi all’esercito nazionale.

Soldati ciadiani delle forze di pace. Foto: BBC.

Per sopperire agli eventuali problemi che un Mali instabile potrebbe causare, nel Paese sono presenti militarmente diverse potenze africane sotto l’ombrello dell’AFISMA (African-led International Support Mission to Mali): Ciad (che apporta oltre duemila uomini), Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Niger, Nigeria, Guinea-Bissau, Liberia, Senegal, Sierra Leone e Togo. Nel Paese è presente anche una missione a guida Nazioni Unite, la MINUSMA (Mission multidimensionelle intégrée des Nations unies pour la stabilisation au Mali) che conta oltre cinquanta Paesi, e due dell’Unione Europea (EUCAP e EUTM Mali).

Leggi anche: Terrorismo islamico: cenni storici.

Nonostante tutti gli aiuti dall’estero, il Mali rimane un Paese tendenzialmente instabile. Oltre alla già citata guerra di liberazione dell’Azawad, il golpe del 2012 e la ribellione islamista hanno contribuito a tormentare il Paese subsahariano. Quest’ultima ha visto una recrudescenza dopo la fine del regime di Gheddafi, quando i mercenari maliani assoldati dall’allora governo di Tripoli fecero ritorno a casa dopo la sconfitta. Gran parte di questi sono rientrati nei ranghi dell’ISGS e in altre formazioni islamiste affini. Più che sugli attacchi, lo Stato Islamico in questa parte del mondo punta forte sulla destabilizzazione etnica: con attacchi mirati verso le comunità di etnia dogon, hausa e fulani gli islamisti puntano a metterle l’una contro l’altra e, successivamente, a offrire loro protezione cercando di sostituirsi allo Stato.

Un villaggio dogon. Foto: Reuters.

Uno contro l’altro

Il Mali ha destinato a protezione delle comunità hausa, dogon e fulani circa un terzo delle proprie forze armate ma, dal momento che il territorio occupato da queste etnie oltrepassa i confini nazionali, ecco che l’instabilità si propaga con enorme facilità anche in altri Paesi come il Burkina Faso e la Costa d’Avorio. Anche questi Stati, nonostante la situazione sia notevolmente migliore rispetto a quella di Bamako, rischiano di subire un’opera di destabilizzazione. Il ruolo della Libia è quella di testa di ponte verso l’Africa occidentale, dove riparano parte dei fuggitivi dalla Siria e dall’Iraq.

Leggi anche: Lo Stato Islamico in Asia centrale.

Un eventuale aumento della conflittualità nell’area andrebbe a ingrossare i flussi migratori verso l’Europa, con una lunga serie di effetti a catena. I leader dell’Africa occidentale hanno allocato in totale circa un miliardo di dollari per la lotta al terrorismo, ma lo sforzo necessario non è esclusivamente militare: tutti gli Stati dovranno necessariamente ricomporre i rapporti con la componente musulmana della popolazione per evitare che vadano a ingrossare le file degli estremisti e scatenino così una guerra civile africana che genererebbe, come un sasso in uno stagno, una lunga serie di ripercussioni a livello regionale, continentale e mondiale.

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