«L’Italia ha un debito di sangue col popolo kurdo»: theWise incontra Karim Franceschi

La storia di Karim Franceschi è difficile da immaginare per un occidentale del terzo millennio. Nato a Casablanca nel 1989 da padre italiano e madre marocchina, si è trasferito all’età di sette anni a Senigallia dove ha vissuto fino alla scelta, nel 2015, di partire per la Siria. Qui si è arruolato nelle Unità di Protezione Popolare del Rojava, l’aerea autonoma a maggioranza kurda divenuta celebre in tutto il mondo per la sua resistenza all’avanzata dell’Isis. Unico italiano a partecipare all’epica difesa della città di Kobane, da soldato semplice divenne apprezzato cecchino e ufficiale delle YPG. Una volta tornato in Italia Marcello – questo il suo nome di battaglia, preso in prestito dal padre partigiano – ha raccontato la sua esperienza in due libri (Il combattente e Non morirò stanotte, entrambi editi da BUR) e innumerevoli interviste.

A theWise Magazine Karim Franceschi ha raccontato le più recenti evoluzioni della questione siriana, il voltafaccia degli alleati occidentali nei confronti della causa del Rojava, i meriti e – per la prima volta pubblicamente – i limiti dell’esperienza rivoluzionara del nord della Siria.

Il Rojava è caduto, sconfitto dalle forze preponderanti della Turchia di Erdogan. Tu eri in Italia quando le truppe di Ankara hanno occupato i territori kurdi: come ti sei sentito?

«È importante chiarire come prima cosa che quello a cui ti riferisci non è stato il primo intervento turco in Siria, né il primo in cui i kurdi sono stati attaccati. Io ero in Rojava nel 2016 quando l’esercito turco sconfinò per impedire ai kurdi di unire le due enclave di Kobane e Afrin, allora divise dall’Isis. Le truppe kurde avevano appena liberato Manbij, una città di confine che permetteva ai jhadisti di far arrivare nuove reclute, e questo aveva indebolito enormemente lo Stato Islamico nella regione. La Turchia intervenne per fermare l’avanzata kurda, facendosi consegnare la città di Jalab dall’Isis e prendendo sotto assedio la città di Al-Bab. Ricordo che la nostra fu una corsa contro il tempo per cercare di porre l’assedio alla città prima dei turchi, ma la coalizione internazionale a guida americana appoggiò l’iniziativa di Ankara e l’Isis cedette la città. Fu l’inizio della fine per noi. Da quel momento non fu più possibile unire i diversi cantoni che componevano il Rojava e Afrin rimase isolata. Questo fu il primo intervento turco in Siria, e venne chiamato allora Operazione Scudo dell’Eufrate.

Il secondo intervento ebbe luogo nel 2017: l’esercito turco attaccò il cuore del cantone di Afrin, una zona che viveva in relativa pace e per questo piena di profughi arabi e kurdi che scappavano dalle bombe di Assad. Quest’operazione prese il nome di Ramoscello d’Ulivo e sfollò qualcosa come quattrocentomila kurdi, tutt’ora senza casa. Fu un caso di vera e propria pulizia etnica, e ricordo che per la prima volta assistevo dall’Italia, senza poter fare nulla.

La Turchia è un paese NATO, e in queste operazioni poté usare anche armi prodotte nel nostro Paese. Da notare che in quel momento c’erano anche volontari italiani tra le forze del Rojava: anche loro come gli altri combattenti furono costretti a scappare inseguiti dalle milizie di Erdogan. I kurdi in quel caso furono colti impreparati: lo spazio aereo di Afrin era controllato dalla Russia – mentre nel resto del Rojava erano gli americani a fornire copertura aerea – che contravvenne agli accordi presi con le autorità della regione e permise l’assalto.

Ramoscello d’Ulivo venne silenziata dai media occidentali e italiani. Dal nostro Paese avevo lanciato assieme alla Mezzaluna Kurda una campagna di sostegno e sensibilizzazione chiamata SiAmo Afrin: parteciparono importanti ONG, movimenti, partiti e addirittura alcuni sindaci, ma trovammo un’enorme difficoltà nell’avere spazio su giornali e telegiornali italiani, soprattutto sulle testate RAI. C’era una chiara volontà politica di non infastidire l’alleato turco e quell’operazione di pulizia etnica avvenne in sostanziale silenzio».

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L’ultima offensiva turca, però, quella del 2019, è arrivata anche sulla nostra informazione mainstream.

«Questa è la grande differenza tra le prime due e la terza operazione turca nel kurdistan siriano – quella a cui ti riferivi nella tua domanda iniziale – quando ad essere aggredito fu il cuore del Rojava. L’Europa e gli Stati Uniti si schierarono contro l’intervento di Ankara e i media coprirono il conflitto. Poi, chiaro, anche in quel caso le pressioni occidentali si limitarono a richiami e dichiarazioni, senza nessun gesto che potesse concretamente interrompere l’invasione. Quest’ultimo intervento si chiamava Fontana di Pace ed ebbe conseguenze terribili sopratutto per la popolazione civile, che si trovò nuovamente la guerra in casa in un territorio dove si viveva in pace da oltre cinque anni, con l’Isis lontana centinaia di kilometri. Per me da qui è stato davvero triste vedere il conflitto tornare dove le persone stavano pian piano riacquistando la normalità delle loro vite. Triste ma, devo dirlo, purtroppo non inaspettato».

Facciamo un passo indietro. Come inizia la tua storia, e come decidi di lasciare la tua vita normale per andare a combattere?

«Sono stato il primo italiano ad arrivare lì e tra i primi occidentali – anche se poi occidentale lo sono fino ad un certo punto, essendo di discendenza arabo-berbera per parte di madre. Andai in Rojava da civile, per portare aiuti e fare da media activist. Mi sono trovato di fronte a Kobane, e il resto è storia».

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Nel libro Il combattente descrivi un esercito del tutto particolare, molto meno gerarchico di come comunemente intendiamo il mondo militare. Come sono organizzate le milizie curde?

«La gerarchia nell’esercito kurdo c’era, sia chiaro. Ma effettivamente ai tempi dell’assedio di Kobane era molto meno percepita: il Kurdistan siriano era diviso in tre cantoni non comunicanti tra loro e le milizie non arrivavano a cinquemila uomini. In quelle condizioni c’era meno bisogno di una gerarchia rigida: si lavorava in piccoli gruppi e ci si conosceva tutti, un po’ come i guerriglieri del Pkk al di là della frontiera.

Ma i kurdi aspirivano ad avere un esercito, non semplicemente dei guerriglieri, e dopo la liberazione di Kobane le cose cambiarono radicalmente. Le Syrian Democratic Forces [alleanza che comprende forze armate kurde, siriane e una brigata internazionale, N.d.R.] oggi contano più di centomila effettivi e senza una certa gerarchia non si possono coordinare questi numeri.

L’assedio di Kobane, poi, era diverso anche dal punto di vista ideologico. La prima linea era stata spazzata via, e a difendere la città erano principalmente volontari che venivano dalla vita civile, pieni di speranza e accorsi lì per difendere l’ideale democratico. Vivevamo tutti in una specie di incantamento, consapevoli di essere in quel periodo al centro del mondo e di star combattendo una battaglia la cui importanza andava ben oltre i confini della città che difendevamo. Era un momento sospeso dalla realtà, ma non era parte della realtà siriana e nemmeno del Rojava. Non a caso molti restarono delusi quando videro lo stato in cui versava la rivoluzione nel resto del territorio.

Non è facile da descrivere, ma volendo fare un parallelo penso si possano trovare punti di contatto con la prima ondata della guerra civile spagnola, quando le sorti del conflitto apparivano favorevoli ai repubblicani, nascevano esperimenti comunitari e tutto sembrava possibile».

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Combattenti kurde in Rojava. Foto: Andia/UIG via Getty Images.

Quella del Rojava è sempre stata definita e si definisce come una rivoluzione. Che tipo di rivoluzione è e che ideali la animano?

«Non è facile rispondere. Io sono partito con una prospettiva internazionalista, da sfruttato che prova a difendere altri sfruttati. Una lotta di classe messa in atto. Gli avvenimenti che si sono succeduti dopo la caduta di Kobane – il forte intervento americano, l’invasione turca, la minaccia jhadista – hanno catapultato quella dimensione in un risiko internazionale che ha inevitabilmente messo in stasi alcuni degli obiettivi di quella rivoluzione.

La sperimentazione, la creazione di comunità dal basso è ancora in atto e prosegue il suo percorso, questo sia chiaro. Ma devo dirti che parte dell’entusiasmo iniziale si è fiaccato e alcune scelte, come la difesa della proprietà privata, non mi appartengono».

In cosa la rivoluzione ha deluso le aspettative?

«Quello del Rojava non è mai stato un progetto comunista in senso stretto, ma aveva tra le sue parole d’ordine i concetti di giustizia ed ecologia sociale, che dovevano nelle intenzioni sollevare dalla povertà la popolazione sia kurda sia araba. Questo elemento mi portò a combattere: per intenderci, non mi sarei arruolato con le truppe di Assad, che pure combattevano l’Isis. Le dinamiche sopratutto esterne che si sono determinate su quel popolo e quel processo hanno imposto di mettere da parte certi discorsi che potevano suonare troppo radicali per l’alleato americano e la questione sociale è stata messa un po’ in cantina.

Non posso negare che ho vissuto come un tradimento l’avere il supporto dei grandi proprietari terrieri del Rojava. Parliamo di famiglie ricchissime scappate in Germania allo scoppiare della guerra e che tornano solo per riscuotere gli affitti da chi è rimasto e ha visto i propri figli morire contro l’Isis.

Poi, non mi riconosco nelle altre critiche che spesso vengono mosse al Rojava, in chi accusa i kurdi di aver combatutto lontano dalle proprie terre o aver ricevuto l’aiuto degli americani. È una narrazione miope che non tiene conto dei rapporti di forza sul campo. La questione che pongo io rigarda un certo scivolamento sul terreno politico».

Hai speso parole durissime sul ruolo dell’Italia e dell’occidente. Cosa rimproveri?

«L’Italia è presente in Medio Oriente, in Iraq e nel Kurdistan iracheno. Il nostro Paese, così come le altre nazioni europee, ha un debito di sangue con il popolo kurdo. Se gli attentati in Europa si sono interrotti è perché l’Isis è stato sconfitto sul campo, ma per arrivare a questo risultato i kurdi si son dovuti avventurare ben fuori dai loro confini, sacrificando moltissime persone, giovani donne e giovani uomini. Hanno debellato una minaccia non solo militare ma anche ideologica, che puntava a spaccare il contratto sociale tra le nuove generazioni di fede islamica e il mondo occidentale, andando a creare enormi problemi d’integrazione e convivenza pacifica tanto in Europa quanto in Medio Oriente e nel mondo islamico in generale.

Che nel momento del bisogno – il bisogno di riconoscimento politico – l’Europa si sia voltata dall’altra parte è qualcosa che la storia non perdonerà mai. L’Europa che si fa paladina dei diritti umani e della democrazia ha deciso di ignorare un popolo a cui pure doveva molto. Sarebbe stato sufficiente che il nostro continente si inserisse nei discorsi sulla safe zone proponendosi come forza d’interposizione tra la Turchia e la Siria, un po’ come fa da tempo l’Italia in Libano.

Senza contare che le prigioni kurde sono piene di prigioneri jihadisti con passaporto europeo, e l’Europa non ha mai accettato la proposta di aprire un tribunale internazionale per giudicarli, gesto che già in sé avrebbe implicato un riconoscimento giuridico dell’autonomia kurda. E assieme a quello giuridico è mancato il sostegno materiale, logistico, umanitario».

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Anche di fronte all’espansionismo turco l’Europa e l’Occidente non si sono imposte per aiutare l’alleato kurdo.

«Prima di lanciare Fontana di Pace Erdogan aveva dichiarato le sue intenzioni alle Nazioni Unite in un discorso in cui – con tanto di mappa – spiegò con esattezza quanto e quale territorio intendeva occupare. Nessuno si è opposto a quel piano e solo a offensiva iniziata alcuni leader si sono espressi pubblicamente nel semplice tentativo di guadagnarsi il favore dei propri elettori.

Erdogan si è fermato dopo aver raggiunto i suoi obiettivi militari solo quando i kurdi han dovuto cedere alle condizioni imposte da Assad e dalla Russia, compromettendo ulteriormente il progetto rivoluzionario. In Europa nessuno ha mosso un dito per fermare l’invasione».

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Erdogan illustra il suo piano di invasione della Siria all’ONU. Foto: fanpage.it via GettyImages.

Prima di tornarci come combattente sei stato in Rojava in veste di cooperante e media activist: come ha narrato il conflitto l’informazione occidentale ?

«Finché l’Isis era in forze i nostri media si sono concentrati su di lei, perché parlarne era facile e senza rischi. Prima dell’avvento dello Stato Islamico era Assad a fare la parte del grande macellaio nella narrazione occidentale. Quando poi i gruppi jhadisti hanno iniziato a mettere a rischio gli interessi americani nella regione la Casa Bianca ha avuto bisogno di un’alleato e solo i kurdi erano nella condizione di combattere l’Isis sul campo. Lì è nato il racconto favorevole alla causa del Rojava.

Sconfitto l’Isis, la guerra civile siriana è scomparsa dal radar dei media. I giornali italiani sono tornati sul tema solo quando è morto un altro volontario nostro compatriota, Lorenzo Orsetti, e in occasione dell’ultima operazione turca. Per il resto silenzio.

Sicuramente durante l’assedio di Kobane i nostri mezzi d’informazione coprirono con attenzione gli eventi: questo mi ha permesso di girare sulle tv nazionali e scrivere il libro. Ma anche questo interesse quasi mai si è spinto in profondità. Anzi, spesso si è andati a mischiare kurdi siriani e iracheni, quando sono alla gola gli uni degli altri, han governi diversi e nemmeno parlano la stessa lingua. Pensa che poche settimane fa Trump ha incontrato Mesûd Barzanî, il presidente del Kurdistan iracheno, e lo ha ringraziato pubblicamente per aver accettato la safe zone in Siria, per star trattenendo i prigionieri dell’Isis e per aver salvaguardato i pozzi petroliferi. Parlava ovviamente dei kurdi siriani, coi quali Barzanî non ha nessuna relazione, ed è stato anche un po’ insensibile, perché il Kurdistan iracheno ha perso le sue zone petrolifere, recentemente riconquistate dalle forze sciite. Insomma, ha parlato con l’unico kurdo senza petrolio [ride, N.d.R.].

In generale, comunque, questo è un miscuglio che viene proposto appositamente per non mostrare gli aspetti peculiari di quanto stava avvenendo nel Rojava».

In un’intervista dici di essere “patriottico ma non nazionalista”. Cosa vuol dire per te, e come si concilia con l’esperienza di chi è andato a combattere in terra straniera?

«Perché l’idea di patria non è legata a dei confini o alla descrizione dell’altro, ma a dei principi. Io sono italiano e sono patriota perché credo in dei principi di patria, quelli della Costituzione italiana, che porto con me dovunque vado. Chiunque li condivida è mio compatriota, a prescindere dalla cultura, dalla lingua, dal colore della pelle. Non dico dalla razza perché ne esiste una sola, quella umana».

Hai piani per il tuo futuro? Potresti tornare a combattere prima o poi?

«Assolutamente no. Mi son ritirato, dal punto di vista politico sono già in pensione.

Non vengo da una famiglia ricca, mia madre fa la badante e per vivere devo lavorare. Ora sono un privato cittadino».

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