«Giornalisti peggio del coronavirus»: cronache dallo Zen di Palermo

Il crollo di quasi due terzi dei reati dovuto al lockdown non deve ingannare. La criminalità organizzata è quieta ma non dormiente, e soprattutto nel sud Italia cerca di tornare ai suoi principi fondanti. La mafia delle origini si affermò in territori in cui il potere – prima del Regno delle Due Sicilie e poi dello Stato unitario – non riusciva a penetrare. Oggi (per molti non è scontato) ancora esistono zone del Paese in cui vige un ordine di leggi parallelo a quello di Roma. Una di queste è la Zona Espansione Nord di Palermo, quartiere popolare noto ai più come Zen.

Insulti e minacce per i giornalisti che smascherano il marketing delle cosche allo Zen

Ha creato scalpore (anche all’estero) l’inchiesta di Repubblica dei giorni scorsi sulla distribuzione di generi alimentari alle famiglie più povere del quartiere da parte di Giuseppe Cusimano, fratello di un narcotrafficante condannato a dieci anni e sei mesi.
La mafia ritorna alle origini. Nella situazione di emergenza – che giorno dopo giorno aggrava le condizioni di persone già precarie da una vita – si sostituisce allo Stato e riafferma la sua volontà di controllare il territorio e fungere da (apparente) ammortizzatore sociale ed economico.

La mafia – in Sicilia, come in Campania, Puglia, Calabria – dopo essere “scomparsa” per decenni nei suoi interessi internazionali si offre nuovamente ai propri conterranei come soluzione alternativa a istituzioni e organizzazioni benefiche. Offre beni primari alle famiglie in difficoltà e prestiti usurai ai commercianti in crisi di liquidità.
La mafia costringe i propri “beneficiari” a dover scegliere. L’associazione San Pio, che distribuisce la spesa allo Zen, con le parole di Benedetto Alfano (armiere della cosca) si dice dispiaciuta «per quella gente a cui non siamo riusciti a dare qualcosa perché è arrivata più gente. Non abbiamo dato niente a chi percepisce già dallo Stato». Di fatto li costringe a parteggiare.

zen palermo
Il post Facebook nel quale il fratello del boss mafioso si scaglia contro i giornalisti, che definisce poi «peggio del coronavirus».

La mafia si riserva quindi anche di poter togliere gli aiuti generosi e disinteressati a chi non dimostra di meritarseli. Minaccia di fermare la propria rete di assistenza perché accusata dai giornali di essere banalmente quello che è. Mafia. E ribadendolo recapita vergognose minacce all’autore dell’inchiesta Salvo Palazzolo, palermitano impegnato dal 1992 nella lotta a Cosa Nostra.

Non serviva Gomorra per scoprire l’esistenza di microstati paralleli presenti nella penisola

Per quante inchieste e documentari siano stati prodotti, la vita dello Zen (come Scampia ma anche in Nord Italia, pensiamo a Zingonia vicino Bergamo) è comprensibile solamente per chi vi è immerso quotidianamente. Lo Zen è un territorio con propri ordini e regole. Ha una criminalità organizzata che funge da protezione sociale per quei cittadini invisibili alla burocrazia statale. Essa mette a disposizione servizi essenziali, persino di urbanistica, allacciamenti di luce e gas e compravendita di case popolari. In cui non ci si sorprende se durante le vacanze pasquali le persone erano in strada a fare grigliate.

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In un bellissimo articolo di qualche anno fa, Roberto Alajmo scrive questo. «Bisognerebbe far venire esperti da tutto il mondo, per studiare quel che succede allo Zen di Palermo. Non solo giornalisti: sociologi, politologi, giuristi. Bisognerebbe organizzare seminari, borse di studio, master e tesi di laurea al solo scopo di interpretare cosa è veramente questo quartiere: un trattato a cielo aperto su mafia e antimafia.
Un carotaggio esemplare è stato eseguito nei giorni scorsi sulla base della denuncia di una famiglia che s’era stufata di subire ritorsioni e aveva sporto denuncia. Da qui è partita l’operazione di polizia che ha confermato tutti i pessimi luoghi comuni che da sempre circolano sulla Zona Espansione Nord. In sintesi: la cosca locale ha soppiantato integralmente la funzione statale».

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Case popolari del quartiere Zen a Palermo.

Possiamo parlare dunque – usando un’espressione usata anche dall’associazione Libera – di un vero e proprio sistema di welfare mafioso. A Palermo (come in altre città) entra in concorrenza aperta, più che con lo Stato (volente o nolente spesso assente ingiustificato), contro associazioni come Caritas e Moltivolti. Ma attenzione a usare la scivolosa metafora del welfare, spiega la vicepresidente di Libera Enza Rando: «Non chiamiamolo welfare. Non crea benessere».

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Per l’ennesima volta la politica (e l’opinione pubblica) non comprende i bisogni di chi non ha alternativa al rivolgersi alla criminalità

Abitiamo un’epoca strana. Siamo collettivamente sempre più poveri ma incanaliamo allo stesso modo più ribrezzo e ilarità nei confronti dei nostri simili. Neanche un anno fa ridevamo insieme per Candy Candy Napoli che in modo goffo chiedeva informazioni per il reddito di cittadinanza che le avrebbe probabilmente consentito di portare il piatto in tavola. Al di là degli spiccioli moralismi e considerazioni sociologiche annesse, il neoliberismo ci ha portato a pensare alle classi più disagiate come indolenti (c’è addirittura un modello economico dominante chiamato teoria dello scansafatiche), se non succubi e complici della criminalità organizzata.

Siamo inclini a far di tutta l’erba un fascio. Lo fa il quotidiano tedesco Die Welt che, nella recente lotta ideologica contro gli eurobond, chiede espressamente alla Merkel (ormai metonimia per Unione Europea) di centellinare gli aiuti all’Italia. «Dovrebbe essere ovvio che gli aiuti finanziari riservati all’Italia – dove la mafia è una presenza costante nell’intero Paese e non aspetta altro che la pioggia di denaro in arrivo da Bruxelles – sarebbero da destinare al solo comparto sanitario, e non dovrebbero finire nel sistema sociale e fiscale». E persino Matteo Salvini capisce. «Le dichiarazioni di Die Welt fanno schifo: è vero il contrario. Se non diamo soldi al Sud sarà la mafia a prestare loro i soldi».

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Se la mafia torna alle sue origini, torniamo anche noi alle origini della lotta contro di essa

Siamo vittime di una narrazione tossica per cui, nelle zone del “degrado”, hanno più risalto le notizie negative (il rider rapinato allo Zen mentre faceva consegne) rispetto a quelle di solidarietà e condivisione (sempre allo Zen, dei presidi e professori che si autotassano per regalare cibo ai più poveri o esercizi commerciali che offrono buoni spesa alle famiglie numerose).
Non dobbiamo mai dimenticare che se abbiamo ottenuto successi nella lotta ormai secolare contro le mafie è spesso grazie a persone che in quei quartieri sono nati e cresciuti, e come tanti altri non si sono piegati al potere della criminalità. E hanno acquisito gli anticorpi per combatterla con più forza di chi non ha mai abitato nella stessa palazzina con un pusher e un rapinatore.

Anche per quest’ultimi dobbiamo ricordarci, senza per questo assolvere incondizionatamente ogni crimine e ogni criminale come fatalisticamente avrebbe fatto Dostoevskij nei suoi primi romanzi, che se nasci in una certa condizione la strada della delinquenza è tra le poche se non l’unica che consente di sopravvivere. Proprio per questo riconoscere e condannare chi, come Cusimano, porta queste persone a non avere scelta. Per dirla sempre con lo scrittore russo: «Pietà quanta se ne vuole, ma non lodate le cattive azioni: date loro il nome di male».

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