Il futuro della scuola italiana tra ragazzi abbandonati e mezzi insufficienti

L’articolo 34 della nostra Costituzione afferma che «la scuola è aperta a tutti» e che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Il 4 maggio di quest’anno si è dato inizio alla tanto agognata Fase 2 dell’emergenza COVID-19, un timido passo verso una riapertura generale. Chiusa rimane invece la scuola italiana: nessuna attività didattica in classe per l’anno scolastico 2019-20, si continuerà fino a giugno con lo smartstudying.

Le attività scolastiche per il nuovo anno non sono ancora delineate, anzi, c’è molta confusione tra gli addetti ai lavori su come procedere al meglio. Il Governo ha istituito una task force apposita per permettere il ritorno degli studenti a settembre in tutta sicurezza. Negli ultimi giorni ha fatto molto discutere la proposta del ministro Azzolina sulla didattica mista. Metà studenti da remoto, l’altra metà in classe, ma solo per le classi più grandi. Un’uscita a dir poco bizzarra, per non utilizzare altri termini più coloriti. Ma «era solo una proposta, non sono decisioni già prese o imposte, sono elementi di dibattito», ha poi smentito Lucia Azzolina.

Il ministro era ironico, come non capirlo. La bozza ad ora discussa prevede obbligo d’indossare mascherine, ingressi scaglionati, banchi distanziati e la misura della temperatura a chiunque entri nell’edificio scolastico. Il testo deve essere ancora vagliato, per poi essere inviato al comitato tecnico-scientifico incaricato per una valutazione preliminare.

Il problema docenti

La scuola italiana, da anni vittima sacrificale prediletta di tagli ai fondi, soffre di enormi criticità, e la proposta di Lucia Azzolina pare un piano abbozzato alla bell’e meglio. Le classi troppo numerose potrebbero essere una nuova bomba batteriologica, c’è necessità di nuove aule, molti edifici sono vecchi e necessiterebbero di un completo rinnovamento dei locali. Mancano strumenti adatti a una didattica multimediale. Secondo la professoressa Maura Striano, docente di Pedagogia generale e sociale presso l’Università Federico II di Napoli, quello della mancanza di strumenti adeguati è un problema «presente da parecchio tempo».

«È una questione legata alla formazione dei docenti. Il corpo insegnanti del nostro Paese non ha una preparazione all’altezza», afferma la professoressa. Un problema diffuso che il MIUR aveva tentato di risolvere con l’istituzione a fine anni Novanta della SSIS, la Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario. Dei corsi dalla durata di due anni sarebbero serviti a preparare al meglio la futura classe docente delle scuole secondarie di primo e secondo grado. La SSIS è stata però chiusa: gli ultimi esami si sono tenuti nel 2010.

«Si è passati a percorsi più veloci dopo la chiusura, i famosi 24 CFU. In questo corso però non c’è nulla riguardante l’utilizzo di nuove tecnologie», continua la professoressa Striano. Un’ampia fetta del corpo docente quindi non ha ricevuto una sufficiente preparazione per l’utilizzo di nuove tecnologie. Il professor Pierpaolo Triani, ordinario di Pedagogia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, condivide una posizione simile. «Mancano delle solide fondamenta tecnologiche non solo per gli insegnanti, ma anche per studenti e famiglie. In questi mesi sia stato attivato un processo di formazione di queste competenze che non andrà perso», afferma il professor Triani.

Classe vuota
Foto: Ivan Aleksic, via Unsplash

Spaccature digitali nel Paese reale

Un enorme problema che l’istruzione italiana ha dovuto affrontare durante la quarantena è stato quello del digital divide. Esistono infatti molte zone del nostro Paese non raggiunte dalla banda larga o ultralarga. Nonostante il progetto Open Fiber di Enel sia stato lanciato ormai nel 2015, non tutti i cittadini hanno accesso ad una connessione a fibra ottica. Non si tratta solo di aree sperdute del centro Italia come si potrebbe pensare, ma anche di zone centrali della pianura padana. Il sistema educativo si scontra quindi con problemi tecnici e logistici, di accesso alle tecnologie. Molti nuclei familiari, per problemi sociali o economici, non hanno accesso a più device tramite i quali i figli possono seguire le lezioni da casa, rimanendo assenti.

L’istruzione diventa quindi assimilabile a un lusso. Vengono a mancare le fondamenta dell’articolo 34, quello della scuola aperta a tutti. Una dicotomia che mostra come l’istruzione possa essere un lusso per alcuni, soprattutto per la scuola secondaria di secondo grado. Se si interpreta il sistema scuola come parte fondamentale della crescita e dello sviluppo di un individuo, è lampante come questo strumento di coesione e uguaglianza sociale, nei casi dell’impossibilità a frequentare, venga a mancare. Tutta una serie di dinamiche che possono instaurarsi nel solo ambiente scolastico, crollano. «Paradossalmente le nuove tecnologie non danno pari opportunità. Alcuni studenti non hanno partecipato per propria volontà, altri perché non avevano i mezzi necessari per farlo», afferma il professor Triani.

Ragazzi che vivono in situazioni di disagio sociale e che tramite la scuola potevano avere una possibilità di essere recuperati sono stati abbandonati a sé stessi. «Sono venute a mancare enormi possibilità educative. La scuola non serve solo all’insegnamento, ma anche a instaurare relazioni con adulti al di fuori del proprio nucleo familiare e a creare nuovi modelli culturali. E anche con l’utilizzo della tecnologia questi sono fattori difficili da recuperare» afferma la professoressa Striano. Il fare scuola non si configura come un mero stare in classe ora dopo ora, non è solo erogare la prestazione di una lezione, ma è accompagnare gli studenti in un percorso di crescita.

La scuola garantisce l’opportunità di accesso, ma non garantisce il successo formativo che rimane subordinato a differenze sociali ancora predominanti. Le famiglie in condizioni più gravi sono quelle dove i ragazzi rischiano di perdersi. La situazione è ancora più drammatica per quei nuclei con figli disabili. L’insegnamento dovrebbe appiattire queste differenze. «Si deve agire sul lungo periodo con un processo che tocchi diversi punti», continua il professor Triani.

«In primis, intercettare le situazioni di difficoltà e potenziare al meglio le risorse già esistenti. In questi mesi gli sforzi delle scuole si sono moltiplicati, mettendo a disposizione dei propri alunni i device necessari, ma qui sorge un altro problema, quello della formazione della famiglia nel loro utilizzo. Ritengo quindi non si possa immaginare una scuola dove la didattica a distanza sia predominante rispetto a quella tradizionale, creerebbe troppe disparità», conclude il professore. Sembra che lo Stato si stia muovendo per appiattire le differenze: in arrivo quattrocento milioni di euro per portare la banda ultralarga in più istituti. Il progetto verrà però realizzato entro due anni. È stato poi promesso alle famiglie con un ISEE inferiore ai ventimila euro un voucher di massimo cinquecento euro per l’acquisto di tablet e PC.

Non sono emerse solo note negative durante questi mesi di smartstudying obbligato. Le potenzialità di software e nuove tecnologie sono presenti e concrete: manca, come già detto, una corretta implementazione, subordinata ad altri fattori. Chi non aveva dimestichezza si è divertito a sperimentare e a studiare. È un aspetto positivo: per molti atenei l’idea di erogare delle lezioni a distanza era un’idea molto lontana.

I ragazzi, qualcuno pensi ai ragazzi

Il dibattito rimane acceso anche sulle modalità di svolgimento della prova di maturità. Dopo alcune prime incertezze, l’esame di fine anno della scuola secondaria di secondo grado sembra stare prendendo una forma concreta. Il 6 maggio il ministro Azzolina, durante il question time alla Camera, ha delineato le modalità di svolgimento. L’esame sarà orale e in presenza, via lo scritto. Nessun colloquio online come è avvenuto per le lauree universitarie, quindi. Le prove d’esame potranno svolgersi in videoconferenza solo in casi estremi, ovvero se le condizioni epidemiologiche saranno talmente gravi da necessitare nuove disposizioni da parte delle autorità competenti.

Si chiederà la discussione di un elaborato riguardante le discipline d’indirizzo, un breve testo di letteratura italiana studiato durante il quinto anno e del materiale scelto dalla commissione. Il colloquio durerà un’ora e la prova potrà valere fino a quaranta punti, i crediti scolastici fino a venti. Nulla è cambiato per la promozione: agli studenti è sempre richiesto un punteggio di almeno 60/100 per terminare il loro percorso di studi.

Riforma sì, riforma no, riforma bum

La situazione che il Paese sta vivendo potrebbe essere il momento perfetto per pensare a una radicale riforma scolastica. Il percorso di rivoluzione dovrebbe partire dalle fondamenta, cercando di reinterpretare e svecchiare i metodi educativi della scuola italiana da anni immota. Questa riforma dovrebbe includere anche il corpo docenti e le metodologie con cui esso viene formato. È necessario creare una nuova classe di insegnanti più preparati all’utilizzo delle nuove tecnologie e meno ancorati ai fondamenti dell’insegnamento classico. Il viceministro per l’Educazione Anna Ascani ha proposto l’applicazione del metodo Montessori, già in uso al di fuori dell’Italia, per le scuole primarie. Per la professoressa Striano bisognerebbe «utilizzare il quartiere come spazio educativo», con la scuola al centro dello spazio-città. Re-immaginare il contributo che il territorio può dare alla scuola in termini educativi.
Proposte radicali, necessarie per cambiare un sistema ormai agli sgoccioli.

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