Il corpo femminile nell’arte performativa: un’eredità in evoluzione

Il corpo femminile è da sempre uno dei più grandi tabù e più potenti simboli al contempo, e il suo ruolo nell’arte contemporanea è stato cruciale.

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Correvano gli anni Sessanta e molte artiste colsero l’opportunità dell’arte performativa per dare forza alla voce di moltissime donne, le quali iniziavano a reclamare l’indipendenza del loro corpo. Inizia un così un percorso che riverbera ancora oggi nell’opere di molte artiste, un filo rosso che lega direttamente le performance di generazioni di artiste, in cui il corpo femminile diventa il protagonista, nella sua fragilità, forza e potenza simbolica

Le azioni performative degli esordi

Per poter comprendere a pieno l’evoluzione delle azioni performative delle donne dagli anni Sessanta ad oggi, occorre risalire alle differenze che caratterizzavano le azioni eseguite da uomini e da donne. Si nota un accento che spesso e volentieri rimarca il misticismo o la religiosità nelle azioni maschili, come nello sciamanesimo di Beuys o nei riti in cui ritorna il tema della crocifissione, come nell’Azionismo Viennese. Nella controparte femminile invece è focale fin dagli esordi la rivendicazione sul proprio corpo, spesso con evidenti rimandi alla sfera sessuale e componenti sadomasochistiche.

Un esempio lo ritroviamo in Cut Piece di Yoko Ono, messo in scena la prima volta nel 1964, e in Rhythm 0 di Marina Abramovic messo in scena esattamente dieci anni dopo. In entrambi i casi le artiste si misero completamente a disposizione del pubblico, il quale poteva usare a piacimento degli strumenti sui loro corpi. Gli astanti reagirono violentemente e durante Rhythm 0 ferirono la Abramovic. Altre artiste indagano più da vicino il disagio sociale della loro esistenza, in quanto appartenenti a una determinata etnia o sesso. Se Yayoi Kusama invase gli Stati Uniti con le sue performance osè e coreografie con corpi nudi ricoperti dai suoi contraddistintivi polka-dot, Adrian Piper è colei che, oggi più che mai, può darci uno spunto di riflessione.

Statunitense afroamericana, Adrian Piper visse quella che lei considerava la fortuna e il fardello di avere una pelle chiara. Questa sua eredità la portò ad inscenare azioni tese a creare disagio negli spettatori, lo stesso che provava lei in quanto donna afroamericana nella società statunitense. Spesso si travestiva da uomo, rendendo più scura la propria pelle e applicandosi baffi e barba finti o parrucche in stile afro. Queste sue azioni furono immortalate in fotografie che la ritraggono mentre cammina fieramente in mezzo a folle spaesate e infastidite dalla presenza di un afroamericano tra loro. In altre sue azioni denunciò invece gli spazi invasi delle donne, percorrendo delle tratte di metropolitana con un fazzoletto a tapparle la bocca o girando per le strade con una maglietta che riportava la scritta “wet paint”, ad evocare un corpo che non si può toccare.

Gli anni novanta: una nuova consapevolezza

Raccogliendo l’eredità delle azioni performative degli anni sessanta e settanta, le artiste iniziano in questo decennio infondere al corpo una carica simbolica che si lega all’individuo che lo ospita. 

Impossibile non citare ORLAN e il suo progetto iniziato nel 1990, La reincarnazione di Saint-ORLAN. In questo caso l’artista rivendica il possesso del proprio corpo tramite azioni estreme di body art che consistono in interventi chirurgici: modificando il suo corpo con degli impianti lo rende non catalogabile in qualsiasi stereotipo, creando di fatto un suo canone che la rende libera di sentirsi bella in quanto se stessa, non in quanto donna. Particolarità di questo suo progetto è il mantenimento in appositi reliquiari delle parti del suo corpo che sono state asportate per inserire gli impianti. 

Segue in questo senso l’opera di Gina Pane. Agli esordi si esibì in azioni sadomasochistiche che prevedevano che l’artista si ferisse in zone simboliche, ad esempio sulla bocca per rappresentare tutte le donne messe a tacere, fino ad arrivare alla fine della sua carriera ad accantonare la performance a favore di una rappresentazione dei suoi lavori del passato. Fino al 1990, anno della sua morte, esporrà le testimonianze fotografiche delle sue performance, trasformandole in reliquie e indagando la fragilità del corpo umano a confronto con il valore simbolico e immateriale che lo può permeare.

Si nota un’appropriazione di quei canoni mistici e religiosi che caratterizzavano le azioni eseguite dagli uomini negli anni sessanta: la donne adesso non vogliono solo affermare il possesso sul loro corpo, ma anche il loro ruolo nella società, dando vita ad un dibattito spirituale e ad un nuovo filone di azioni performative che prosegue tutt’oggi.

La potenza dell’immagine

A partire dagli anni novanta, l’arte performativa ha inoltre in parte abbracciato le potenzialità dei nuovi media, in particolare del video e della fotografia. Nascono così i tableau vivant di Vanessa Beecroft, la quale riesce a riunire nelle sue performance le istanze antiche e contemporanee. Nei suoi lavori spicca la ricerca nelle tensioni tra la nudità e moda, forza e fragilità, attingendo di fatto da quei temi che hanno caratterizzato le azioni delle artiste nel passato, ma inserendole nel contesto contemporaneo e in un dibattito sociopolitico attuale. 

In Holy Family, performance che appartiene alla serie South Sudan, Vanessa Beecroft rappresenta la Sacra Famiglia formata da una Madonna bianca e da un Giuseppe e Gesù neri. Si vuole qua scardinare quel senso di supremazia etnica che invade l’iconografia occidentale, dando spazio a una visione più inclusiva che abbatta le barriere. Appartiene alla stessa serie White Madonna with twins, in cui l’artista allatta due bambini africani. Una ricerca questa che idealmente si pone come continuazione di quella rivendicazione spirituale proposta da Orlan e Gina Pane negli anni novanta.
In molti suoi lavori utilizza inoltre modelle, spesso travestite con parrucche e trucco così da creare delle copie di se stessa, che vengono istruite affinché seguano dei pattern di movimento e azioni. Un esempio di questa pratica si può ritrovare in Kaldor Public Art Project 12, in cui un gruppo di modelle seminude si esibisce in pose e coreografie canonicamente riconducibili all’iconografia della moda, dei film e delle arti figurative, rappresentando in un quadro collettivo quella femminilità idealizzata che invade numerosi campi artistici.

arte performativa beecroft
White Madonna with Twins di Vanessa Beecroft.

L’idealizzazione e il tema della bellezza stereotipata sono temi cardine in questa ricerca, a cui le artiste hanno risposto in diversi modi. Se Vanessa Beecroft lavora sulle nudità, arrivando ad intitolare Nudes un servizio creato per il primo numero senza fotografie di Vogue Italia, uscito a gennaio di quest’anno, Cindy Sherman ricorre a travestimenti dal sapore duchampiano che vadano a denunciare i canoni di identificazione sociali in cui l’identità di una persona, nonostante la sua fragilità, deve rientrare. Sulla stessa lunghezza d’onda opera Martha Wilson, celebre performer attiva dagli anni settanta, che in I make up the image of my perfection / I make up the image of my deformity mette a nudo le percezione dei difetti fisici dell’artista. Un atto di ribellione questo, tramite il quale l’artista vuole rivendicare il pieno controllo sul suo corpo, ponendosi contro il controllo, solo presupposto, che gli altri hanno sulla sua bellezza. Così come ORLAN, l’artista reclama i propri spazi e la propria apparenza. 

La corporeità femminile, a distanza di decenni, continua ad essere un tema di cui le performer sentono il bisogno di parlare. La rivendicazione di controllo sul proprio corpo rimane un tema non solo scottante, ma perfettamente inserito nelle istanze della società contemporanea. Per queste artiste,il dibattito sull’identità non può essere slegato dalla percezione del corpo. Proprio tramite la loro presenza fisica, queste artiste prendono possesso dello spazio sociale assieme a quello performativo. Così, nonostante dalla prime performance femminili siano passati ormai sessant’anni, il grande pubblico continua a scandalizzarsi, domandandosi se davvero ci sia bisogno di scoprirsi per fare arte, e le artiste continuano, ormai da sessant’anni a ricordare al mondo intero che ognuno di noi è padrone del proprio corpo. 

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