Cosa succede, se vince il “Sì”?

L’estate più strana che si ricordi ha infine ceduto il posto alla settimana dei conti in sospeso, delle decisioni rimandate dalla pandemia che ora ritornano come ogni canonico nodo al pettine. È la settimana apertasi con un difficoltoso e poco convincente ritorno a scuola dopo mesi di didattica a distanza, e che andrà a chiudersi con le elezioni regionali e il referendum confermativo sulla riduzione dei parlamentari. Riguardo quest’ultimo le ipotesi sono state molte, le opinioni moltissime, ma i dati – sorprendentemente – pochi e confusi. Facciamo un esperimento per capire la reale portata della decisione in oggetto: cosa accadrebbe, se ci svegliassimo la mattina del 22 settembre dopo aver visto la vittoria del “sì” a questo referendum?

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Li mandiamo tutti a casa?

Riscaldiamoci con un punto chiaro a chiunque: non li mandiamo “tutti a casa”, ma una buona parte dei parlamentari dovrà fare le valigie, presumibilmente a partire dalla prossima legislatura. Parliamo di più di un terzo dei rappresentanti politici dei cittadini italiani: si passerà da un totale di 945 parlamentari (630 deputati e 315 senatori) a 600 (400 deputati e 200 senatori). I senatori a vita non sono toccati dal referendum e non sarebbero affetti dalla vittoria del sì. Un taglio di 345 persone che non necessiterebbe di essere recepito, poiché si tratta di un referendum confermativo – e, in quanto tale, privo di quorum – con cui i cittadini accettano una proposta di riforma già avanzata dal Parlamento stesso.

 

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Il bilancio della pubblica amministrazione nel 2016. (Osservatorio Conti Pubblici Italiani)

Taglieremo gli sprechi e risaneremo il bilancio pubblico?

Non è forse questa, la vera domanda? Ma la risposta, purtroppo, è no. L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica stima il risparmio annuale dal taglio proposto in circa 82 milioni di euro lordi, il che si traduce in circa 57 milioni netti e complessivamente utilizzabili. Nel computo sono inclusi, oltre allo stipendio e ai costi di gestione, i vari benefici aggiuntivi goduti da un parlamentare. Non è da considerare, ovviamente, il costo gestionale di Camera e Senato come istituzioni, che rimarrebbe identico poiché tali entità continuano a esistere. Negli ultimi giorni, si è vista una tale quantità di ipotesi numeriche da far impallidire una tombola all’ospizio, ma il calcolo corretto è questo. La vittoria del sì al referendum porta circa 57 milioni netti (su 82 lordi) all’anno, per un totale di 285 milioni a legislatura.

Quanto valgono 57 milioni all’anno rispetto al bilancio annuale dello Stato? Ben poco: si tratta dello 0,007% dello stesso. Se si decidesse di redistribuire questa cifra tra tutti i cittadini, ciascuno riceverebbe 95 centesimi di euro. È normale e comprensibile che il cittadino comune veda una simile cifra come enorme e fuori portata, ma la stessa vale quanto la polvere se paragonata alla gargantuesca macchina statale. In fin dei conti, il Parlamento non costa nemmeno così tanto rispetto alle altre attività che lo Stato porta avanti ogni anno! La spesa sanitaria, per esempio, è stimata in un costo di 115 miliardi all’anno. L’istruzione ne costa 60, e la ricerca 9.

Un po’ per inquadrare meglio le dimensioni in oggetto, un po’ per puro istinto polemico, cerchiamo di affiancare il costo del Parlamento a un altro discorso onnipresente presso l’opinione pubblica del Bel Paese: quello dell’evasione fiscale. Gli ultimi dati ufficiali del Ministero dell’Economia delle Finanze (relativi all’anno fiscale 2016) stimano i tributi evasi in Italia in 107,5 miliardi all’anno (senza considerare i proventi da attività criminose). Basta fare un rapido calcolo per constatare che, se riducessimo l’evasione fiscale anche solo dell’1%, garantiremmo al bilancio dello Stato una cifra di quasi 19 volte superiore a quella guadagnata dal taglio dei parlamentari, ogni anno.

Al lettore non sarà sfuggita la similarità del costo dell’evasione con quello della sanità, e ciò che state pensando è giusto: se eliminassimo l’evasione fiscale in Italia, ogni anno potremmo permetterci di avere il sistema sanitario praticamente a costo “zero”. Oppure, ci potremmo permettere di pagare quasi due volte tutto il macchinario della pubblica istruzione.

Viceversa, la realtà del risparmio dal taglio dei parlamentari è ben differente: 57 milioni sul conto corrente farebbero la fortuna di ciascuno di noi, ma non di tutti noi. Per quanto non sia una cifra da buttare, sul piano pubblico e macroscopico sarebbe impossibile farli corrispondere a un qualsivoglia beneficio: si tratta, per esempio, di appena un quarto del costo necessario a costruire un ospedale di medie dimensioni, e non basterebbero nemmeno a comprare una scorta di mascherine per tutti per il prossimo anno. Un proposito ben lontano da quello di tagliare gli sprechi e risanare il bilancio.

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La vittoria del sì al referendum danneggerà la mia rappresentanza politica?

In questo caso la risposta è sì. Molti stanno erroneamente interpretando l’attuale proposta come una “rivincita” del cittadino italiano verso un’istituzione pesante, corrotta, inefficiente. Ma nessuna di queste caratteristiche sarà in alcun modo smossa dalla vittoria del sì al referendum: a venir meno sarà invece il potere di ogni cittadino nel momento in cui inserisce il proprio voto nell’urna. Non dimentichiamoci che il parlamentare è l’unico rappresentante politico del cittadino italiano nel nostro ordinamento nazionale. Sono le uniche persone che eleggiamo direttamente perché facciano i nostri interessi. Meno parlamentari significa semplicemente meno potere e rappresentanza per tutti noi.

Qualche settimana fa, il manager bocconiano Simone Piunno ha pubblicato su Medium un post nel quale afferma che le ragioni per votare “sì” siano del tutto matematiche, e che la rappresentanza politica in Italia sia oggi troppo alta, fuori scala rispetto ai modelli degli altri Paesi. Per elaborare le sue ragioni del “sì”, Piunno si affida a modelli di ottimizzazione matematica rispetto ai funzionali di costo, spesso utilizzati nelle aziende per capire se effettivamente “valga la pena”, e quanto, avere certe spese.

Il ragionamento del post fila, almeno all’interno dei canoni auto-costruiti nello stesso, ma non tiene conto di due importanti particolari. Il primo è che le variabili date in pasto al modello matematico sono arbitrarie: perché quanto fatto in altri Paesi con storia, forme di governo, caratteristiche della popolazione diverse dalle nostre dovrebbe applicarsi perfettamente all’Italia? Non sono fornite spiegazioni in merito, né sarebbe possibile trovarne. Il secondo e più generico particolare sta nel fatto che, per quanto il fattore matematico sia imprescindibile nella creazione dei sistemi organizzativi – pubblici o privati che siano – non basta da solo a spiegare le ragioni socio-politiche che generano il momento costituente e le complesse relazioni di potere all’interno della società. È, in sostanza, il classico mix di “mele con pere”.

Il parallelo logico che è possibile fare rispetto al referendum è in realtà il seguente: con la vittoria del sì, il numero di voti e votanti rimarrà lo stesso, ma concorrerà per l’assegnazione di meno posti e, quindi, porterà alla concentrazione dello stesso quantitativo di potere nelle mani di meno persone. Se l’intento è quello di “depotenziare” il ruolo del parlamentare, la soluzione è irrimediabilmente sbagliata. Se i posti da parlamentare sono di meno, ogni seggio varrà di più.

Non è un caso che la proposta di referendum sulla riduzione del numero dei Parlamentari sia venuta dal Parlamento stesso, e non è un caso che tutti i partiti maggiori siano incredibilmente concordi nello spingere per la vittoria del “sì”. Tra questi Lega, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico, mentre Forza Italia e Italia Viva lasceranno libertà di voto, sapendo bene in che direzione sia orientata l’opinione pubblica. I grandi partiti sanno che con meno parlamentari disporranno di più potere. Si tratta delle stesse persone che, poco tempo addietro, hanno gentilmente auto-declinato la proposta di ridurre il proprio stipendio, e che ora sono però favorevoli a una diminuzione nel numero dei parlamentari stessi.

Se l’attuale proposta beneficiasse davvero i cittadini e non chi detiene il potere, stiamo pur certi che i grandi partiti sarebbero uniti nel votare “no”. Eppure è il contrario.

 

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Con appena l’1,35% di presenze in Senato, Matteo Salvini è uno dei simboli dell’assenteismo dei parlamentari. Ma la vittoria del “sì” al referendum non danneggerà lui e gli altri leader di partito. Foto: Matteo Salvini/Facebook.

Ci sbarazzeremo delle solite facce attaccate alla poltrona da anni?

No, al contrario: a farne le spese saranno i parlamentari meno noti, quelli meno “stabili” e più a rischio. Forse si tratta di persone che da anni compiono egregiamente il loro lavoro nel silenzio delle commissioni, forse si tratta di assenteisti patentati, ma di certo non saranno le “solite facce”. I parlamentari non saranno tagliati sulla base del grado di antipatia che proviamo per loro o in base agli anni di “abbuffata” sulle spalle dei cittadini, bensì rispetto a ben determinate logiche di partito.

Ciò è reso facile dall’attuale legge elettorale, la quale – anche al netto delle perenni modifiche e critiche – prevede l’esistenza delle liste bloccate. Ciascun partito decide chi viene presentato in lista per la candidatura nei collegi plurinominali, e in quale ordine i candidati sono mandati a ricoprire i seggi in base al numero di voti ottenuti. Come sempre avviene, e come sempre avverrà finché tale regola resterà in vigore, i primi nomi della lista saranno quei personaggi che si trovano in cima alla piramide di partito, non alla base. Sempre le “stesse facce”, per intenderci. La situazione sarebbe diversa se fosse reintrodotto il voto di preferenza, permettendo ai cittadini di scegliere il candidato favorito anziché votare la lista in blocco.

Pertanto, è altamente pronosticabile che i primi a guadagnarsi un posto in Parlamento saranno gli individui influenti, indispensabili alle logiche di ciascun partito e alla sua azione politica. Al contrario, noi cittadini avremo sempre meno scelta poiché a venir tagliati dalla vittoria del sì al referendum saranno i candidati minori, la base della piramide dove avviene più ricambio e l’oligarchia di partito è meno serrata. Dal momento che ogni posto varrà di più, come già accennato, c’è anche da credere che si prometteranno più favori per potersi sudare ciascun seggio, ipotesi potenzialmente deleteria per la correttezza della politica nazionale.

Stesso discorso, ma su scala diversa, vale per i partiti minori: è plausibile che, con meno posti in Parlamento, siano proprio questi a farne le spese, ritrovandosi al di sotto delle soglie di sbarramento e sempre più costretti a entrare in coalizione con i grandi partiti per poter sopravvivere. Ma a stabilirlo sarà un’eventuale modifica alla legge elettorale, successiva al referendum e altamente probabile dopo la vittoria del “sì”. Modifica necessaria perlopiù a “depotenziare” i collegi elettorali per adeguarli al minor numero di seggi e, per lo stesso motivo, ristabilire le proporzioni degli sbarramenti “al rialzo”. Ma sarebbe ingenuo credere che la politica spingerà per la rimozione di quelle liste bloccate che tanto permettono ai partiti di operare come più preferiscono, proprio come oggi è ingenuo credere che il “sì” scalfisca tali apparati di potere.

 

In conclusione…

… se tagliare il numero dei parlamentari non sarà un vantaggio sotto alcuno di questi aspetti, cosa potremmo o avremmo potuto fare diversamente per cacciar via i “parassiti”? Solo una cosa, ma la più importante di tutte: usufruire in modo corretto del più potente diritto di cui disponiamo, quello di voto.

Occorre votare in maniera informata e smettere di votare chi non fa il proprio mestiere in Parlamento. Occorre smettere di votare in base al piccolo guadagno personale, come troppo spesso accade con le promesse di qualche soldino in tasca, con i condoni o gli sgravi fiscali, per non parlare della piaga del voto di scambio o di categoria. Occorre votare guardando al lungo termine, e far sì che vengano elette persone nelle quali ciascuno di noi possa effettivamente rispecchiarsi: qualcuno che possa “rappresentarci”, come suggerirebbe il termine stesso.

Ma paghiamo anche gli errori del passato, e l’aver dato potere a persone che non lo meritavano: oggi ci ritroviamo con rappresentanti che non fanno i nostri interessi al momento di proporre le riforme istituzionali, bensì tentano al contrario in tutti i modi di aumentare la propria influenza, certi di restare lì vita natural durante: come avviene quando, ad esempio, ci si rifiuta di tagliare il proprio stipendio, si crea una legge elettorale con le liste bloccate, o… si propone di tagliare il numero dei parlamentari.

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