Un nuovo equilibrio politico dopo le elezioni del 20 e 21 settembre

Sono già passati alcuni giorni dalle elezioni del 20 e 21 settembre che hanno portato alla luce risultati ampiamente pronosticati alla vigilia, ma non solo. La vittoria del Sì nel referendum costituzionale non è mai stata in dubbio, nonostante una corposa campagna elettorale per il No nelle prime settimane di settembre, in particolare da parte del Comitato NOstra e da varie personalità politiche durante la manifestazione di Fermiamo il populismo, a Milano.

Per quanto riguarda le regionali, le conferme di Luca Zaia, Giovanni Toti e Vincenzo De Luca rispettivamente in Veneto, Liguria e Campania erano certe, così come, seppur con margine inferiore, l’elezione di Francesco Acquaroli a nuovo presidente della Regione Marche. La vera sorpresa è arrivata dalla Puglia, con la vittoria del governatore uscente Michele Emiliano a discapito del favorito nei sondaggi Raffaele Fitto. L’altro risultato chiave per il centro-sinistra italiano è quello della Toscana, con il candidato Eugenio Giani capace di avere la meglio sull’eurodeputata leghista Susanna Ceccardi. Con questo nuovo quadro politico e i conseguenti equilibri rinnovati, quali saranno le prossime sfide dei partiti e del Governo?

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La Lega perde, Luca Zaia stravince: il caso del Veneto

I candidati leghisti alle Regionali erano due: Luca Zaia e Susanna Ceccardi. Riducendo all’osso e rendendo superficiale il conteggio, si potrebbe osservare un 1-1, una vittoria e una sconfitta, ma così non è. Premessa: dopo le europee del 2019 molti politologi e scienziati sociali avevano correttamente fatto notare che a ogni tipologia di elezione corrisponde un certo tipo di voto. Nel maggio 2019 la Lega è risultata la prima lista con il 34,26% di voti. Percentuale che, un anno fa, sovrastimava l’avanzata di Matteo Salvini a livello nazionale. In quest’ultima tornata elettorale, la Lega ha ottenuto in media (aritmetica, con riferimento a sei regioni) il 15,57% delle preferenze.

In Veneto, il partito che nell’ultimo biennio ha fatto incetta di consensi nei sondaggi ha raggiunto appena il 16,92%. Quasi trenta punti sotto alla lista Zaia Presidente (44,57%). Ora, chi sta pensando che il partito guidato da Matteo Salvini oggi valga meno del 16% sta commettendo un peccato mortale di superficialità. L’affetto dell’elettorato veneto verso “il Doge” è noto da anni e la gestione dell’emergenza coronavirus dell’ex Ministro delle politiche agricole (giusta o sbagliata, non è questo il luogo per valutare) l’ha solo incrementato. Ciononostante, se a livello regionale l’empatia della popolazione verso Luca Zaia ha portato la rielezione del trevigiano con percentuali monstre, è necessario ricordare che almeno la metà degli elettori della lista Zaia Presidente, a livello nazionale, sfocia proprio nella Lega (Nord), partito a cui il governatore del Veneto appartiene da lustri, seppur con alcune differenze ideologiche rispetto alla Lega a trazione sovranista del suo segretario Salvini.

La situazione della Lega ad oggi resta più che mai complicata. Nei sondaggi continua a perdere consensi da oltre un anno, con proiezioni che la danno attorno al 24/25%. Il delta con il Partito Democratico non è mai stato così ridotto, ma Matteo Salvini e compagni non sembrano temere questo calo di consensi. Il Capitano ha dalla sua parte un asse di centro-destra ancora solido, nonostante l’avanzata prepotente di Giorgia Meloni che è data quasi appaiata al M5S. La coalizione formata da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia resta largamente in vantaggio sui giallo-rossi. Gli equilibri interni, però, potrebbero ridisegnare il ruolo di FDI nei prossimi mesi.

Elezioni del 20 e 21 settembre
Luca Zaia. Foto: Wikimedia Commons.

Italia Viva e la voglia di sentirsi importante

Come spesso accade, Matteo Renzi è l’uomo che maggiormente divide in prossimità delle tornate elettorali. Il risultato di Italia Viva alle elezioni del 20 e 21 settembre è stato pressoché un disastro, eccezion fatta in Campania dove si sono registrate delle buone percentuali per la lista dell’ex Premier. In Veneto la candidatura di Daniela Sbrollini non era particolarmente ambiziosa. Infatti, la lista IV in ticket con il PRI e il PSI ha raggiunto appena lo 0,60%, meno del movimento no vax guidato da Paolo Girotto. La grande delusione è arrivata dalla Puglia, dove Ivan Scalfarotto (che ha corso da solo) ha ottenuto solo l’1,60%, mentre la lista IV appena l’1,08%. Nessuno aveva ipotizzato un risultato oltre il 6/8%, ma una débâcle così significativa per un personaggio politico di un certo calibro e con una carriera non indifferente ha lasciato di stucco i renziani. Non è bastato l’endorsement di Carlo Calenda verso il pescarese per evitargli un risultato difficilmente digeribile.

Valutazioni tra il sufficiente e il discreto in Campania e in Toscana. Nella regione governata da Vincenzo De Luca, la lista Italia Viva è risultata la quarta con il 7,37%, dietro solo al Partito Democratico (16,90%), la lista De Luca Presidente (13,30%) e il Movimento 5 Stelle (9,92%). Una nota dolce per un partito che stenta a trovare un’identità forte e a fare breccia in quell’elettorato centrista ancora orientato altrove. Tuttavia, questo risultato rischia di diventare auto-celebrativo, considerando il reale impatto in un’elezione dominata dal governatore uscente, rieletto con il 69,48% dei voti.

Discorso completamente diverso in Toscana, dove Italia Viva ha giocato un ruolo cruciale in quella che è da ormai un lustro abbondante definita la regione di Renzi. Il 4,48% ottenuto dalla lista congiunta con +Europa a sostegno di Giani è stato determinante per la vittoria del centrosinistra. Nelle regione simbolo della vecchia subcultura rossa, Eugenio Giani ha superato di circa otto punti la leghista Susanna Ceccardi. Matteo Renzi si è detto soddisfatto complessivamente dei risultati ottenuti alle elezioni del 20 e 21 settembre. Tuttavia, il futuro di Italia Viva sembra tutt’altro che roseo.

Elezioni del 20 e 21 settembre
Matteo Renzi. Foto: Wikimedia Commons.

Al Partito Democratico ora manca “solo” un’identità forte

Il principale partito di centrosinistra esce parzialmente vittorioso dalle elezioni del 20 e 21 settembre. Nonostante un diffuso scontento per la posizione presa dalla segreteria nazionale in materia di referendum costituzionale, al Nazareno Nicola Zingaretti può dirsi soddisfatto delle tre regioni che sono rimaste “rosse” (così come vengono spesso identificate sulle mappe politiche i territori del csx, mentre con il blu si caratterizza il cdx) e dei comuni che hanno premiato i candidati del Partito Democratico.

Evitare il tanto attesto 4 a 2 è stata una grande vittoria per il PD, che però deve necessariamente fare i conti con delle débâcle non indifferenti. Se consideriamo i dodici candidati principali delle sei regioni osservate, possiamo notare che la percentuale più bassa è stata quella ottenuta dal professore patavino Arturo Lorenzoni che complessivamente è arrivato al 15,72%. La regione dove la lista del PD ha preso più voti è stata la Toscana (oltre mezzo milione, 34,71%), mentre il dato più allarmante arriva proprio dal Veneto con sole 244881 preferenze (11,92%).

I sondaggi danno il Partito Democratico stabile attorno al 20%. Tuttavia, se lo scorso settembre il PD è riuscito ad arginare il centrodestra, ciò non significa che il futuro sia solo rose e fiori, anzi. Oramai ci siamo tutti abituati a sentir parlare di un (im)possibile ritorno di Matteo Renzi o di una probabile nuova scissione e per questo non restiamo più stupiti di ciò. Il punto chiave dei prossimi mesi per Zingaretti e compagnia sarà trovare una linea politica comune in grado di riavvicinare definitivamente quella porzione di elettorato insoddisfatto da anni di mala gestione del Partito.

I temi sono senza dubbio divisivi e potenzialmente letali per gli equilibri di governo. Ma se il PD vorrà tornare a essere un traino per la sinistra moderata italiana non potrà esimersi dal prendere posizioni forti. Tra questi spiccano i diritti civili, la questione legata alle periferie e, soprattutto, l’emergenza migranti e il superamento definitivo dei dl Sicurezza (iter già cominciato il 5 ottobre con il via libera del cdm al nuovo decreto sull’immigrazione). Un primo passo importante è quello intrapreso dall’On. Alessandro Zan con il suo disegno di legge in materia di omotransfobia e violenza di genere.

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Nicola Zingaretti. Foto: Wikimedia Commons.

Il Movimento 5 Stelle, una bolla destinata a implodere?

Il clima tra i pentastellati è più teso che mai. Le ultime dichiarazioni di Alessandro Di Battista che hanno scomodato persino l’UDEUR e l’ex segretario Clemente Mastella sanno molto di implosione imminente. Da un lato c’è chi festeggia per aver portato a termine una delle storiche battaglie del M5S, ossia il “taglio” dei parlamentari. Dall’altro c’è chi più realisticamente fa i conti con un partito che continua a perdere consensi ovunque. L’unica regione in cui il candidato pentastellato ha superato il 10% è la Puglia (la lista M5S invece si è fermata al 9,86%).

Inoltre, ad alimentare le tensioni interne si è messo anche Davide Casaleggio, figlio del co-fondatore del MoVimento Gian Roberto. Il proprietario della Casaleggio Associati ha recentemente dichiarato: «Niente supporto al Movimento 5 Stelle se diventerà un partito». Ora, tralasciando il fatto che il M5S è a tutti gli effetti un partito, è necessario valutare l’importanza delle parole di Casaleggio. La frattura tra i fondatori e il nuovo establishment pentastellato risulta sempre più evidente. A notarlo sono anche i vecchi elettori, che stanno progressivamente prendendo le distanze dal partito ora guidato da Vito Crimi. La loro natura composita ha palesato differenze di vedute, di approccio e di metodo incompatibili sul lungo periodo che porteranno ad una crepa difficilmente risanabile. Sarà tra una settimana o tra un anno? Questo non possiamo saperlo, ma il destino del M5S “di Grillo”, per intenderci, sembra oramai segnato.

Per quanto riguarda i sondaggi osserviamo un M5S in leggera crescita, a livello nazionale, dopo l’esito del Referendum costituzionale, con una percentuale di consensi che oscilla tra il 16 ed il 16,5%. Da primo partito nel 2018, a terzo a metà 2020 e quarto dalle ultime rilevazioni degli scorsi giorni (Fratelli d’Italia è stimato attorno al 16% ed è in continua crescita). Negli scorsi mesi si è ipotizzata spesso un’eventuale Lista Giuseppe Conte che, sempre secondo i sondaggi, è data attorno al 10% e che sottrarrebbe altri punti percentuali al Movimento 5 Stelle.

Alessandro Di Battista. Foto: Wikimedia Commons.

Nei prossimi mesi giocheranno un ruolo fondamentale per i nuovi equilibri politici la gestione dell’emergenza coronavirus e l’utilizzo del Recovery Fund. Se il Partito Democratico dopo le ultime elezioni può dormire sonni abbastanza sereni (ma non troppo), il M5S non ha più margine d’errore. Nel frattempo, tra i leader del centro-destra si dovrà necessariamente rivalutare la leadership, il ruolo di Fratelli d’Italia e della sua leader Giorgia Meloni, da poco eletta presidente del Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei (ECR).

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