Firma digitale e referendum, cambia la democrazia

Lo scorso luglio il Parlamento ha approvato un emendamento che introduce la possibilità di sottoscrivere proposte di referendum utilizzando la firma digitale. Questa novità ha prodotto effetti immediati sulle campagne referendarie in corso, in particolare su due raccolte firme promosse dall’Associazione Luca Coscioni (ALC), non-profit attiva nel campo dei diritti civili.

La prima è la campagna Eutanasia Legale, che aveva già raggiunto e superato la soglia minima di cinquecentomila firme e ha ricevuto un incremento di trecentomila sottoscrizioni con firma digitale. La seconda, invece, riguarda la legalizzazione della cannabis. È stata lanciata online, generando un’ampia mobilitazione che ha permesso di raggiungere in meno di una settimana il traguardo necessario per depositare il quesito referendario.

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Questi risultati hanno evidenziato il ruolo centrale della firma digitale nella sottoscrizione dei referendum, dando luogo a discussioni e dibattiti sull’opportunità di una riforma più estesa dell’istituto referendario.

Alle origini dell’emendamento

L’emendamento, presentato dal deputato di +Europa Riccardo Magi, è stato approvato nella notte tra il 19 e il 20 luglio, durante i lavori di conversione del decreto semplificazioni in Commissione Affari Costituzionali e Ambiente. Ma la discussione che ha portato all’introduzione della firma digitale come strumento per aderire a un referendum inizia nel 2015, grazie a un ricorso all’ONU a opera di Mario Staderini e Michele de Lucia, due attivisti.

Il ricorso, che chiedeva di valutare la violazione diritti politici in materia referendaria, ha portato a una condanna nei confronti dell’Italia nel 2019, a cui non ha fatto seguito nessuna azione concreta da parte del Governo per agevolare la partecipazione di tutti i cittadini alle campagne referendarie.

Diverse associazioni, tra cui ALC e Eumans, hanno quindi intrapreso azioni e iniziative per mettere pressione al Governo affinché si impegnasse in questo senso. La protesta è culminata questa estate con uno sciopero della fame, indetto con l’obiettivo – raggiunto – di fare approvare l’emendamento Magi, che aveva ricevuto parere contrario dal Ministero della Giustizia.

La firma digitale rivoluziona i referendum?

theWise Magazine ha incontrato Samuele Degradi, community organizer e attivista per i diritti civili. Ha partecipato alla campagna Eutanasia Legale come autenticatore di firme e in passato si è impegnato per altre battaglie referendarie.

Degradi spiega che la procedura di costruzione di un referendum – creazione dei comitati, lancio della campagna di comunicazione, raccolta fondi – non cambia con l’introduzione della firma digitale. «Questo strumento modifica l’atto finale, quello della firma, estendendo il diritto a una platea più ampia» racconta Degradi, sottolineando l’importanza di questa nuova possibilità per diverse categorie di persone, come i disabili o coloro che vivono in zone remote d’Italia.

«Non sono d’accordo con chi sostiene che questo emendamento provocherà una valanga di referendum sui temi più disparati» aggiunge Degradi, citando i limiti già previsti dalla Costituzione per prevenire consultazioni su argomenti di bilancio o relativi a trattati internazionali. «La Corte Costituzionale impedisce queste distorsioni: non c’è nessun rischio» afferma Degradi.

Un banchetto di raccolta firme per Eutanasia legale
Un banchetto di raccolta firme per Eutanasia Legale (foto su gentile concessione di Samuele Degradi).

Associazioni e policy making

Secondo l’attivista il successo di queste campagne prescinde dall’introduzione della firma digitale. «Eutanasia Legale ha raggiunto il traguardo di cinquecentomila prima che la piattaforma per raccogliere le firme online venisse lanciata» spiega Degradi, puntualizzando che l’esigenza per queste leggi è evidente, visto il numero di firme raccolte.

«La grande mobilitazione a cui abbiamo assistito certifica il ruolo delle associazioni come policy maker: i referendum hanno successo perché agiscono in luogo della politica, che non decide» continua Degradi. Che aggiunge: «Ai gazebo ho visto una adesione trasversale, slegata dalle opinioni politiche e religiose. E anche tanti giovani informati.»

Degradi sostiene che spesso è la politica a creare ideologie e contrapposizioni inesistenti. «I partiti non si esprimono, ma a livello locale i singoli amministratori prendono posizione» racconta l’attivista. «Anziché discutere degli strumenti i partiti dovrebbero occuparsi del merito delle questioni, e dirci come la pensano» aggiunge.

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Azioni correttive

Non mancano, tuttavia, le voci critiche. Studiosi e opinionisti hanno iniziato a ragionare su possibili miglioramenti all’istituto del referendum, per adeguarlo alle nuove condizioni di raccolta firme.

Abbiamo parlato con Francesco Clementi, professore associato di diritto pubblico comparato all’Università di Perugia. Clementi afferma che non ci sono pericoli per la democrazia, ma sottolinea l’importanza di azioni correttive.

Francesco Clementi
Francesco Clementi (Francesco Pierantoni/Creative Commons).

«Gli istituti di democrazia cosiddetta “diretta” vanno intesi come strumenti integrativi in una democrazia rappresentativa come la nostra» spiega il professore. «Io non vedo conflitti, ma integrazione reciproca tra queste due forme di democrazia, in particolare se l’innovazione arriva dal digitale» prosegue Clementi, precisando che «uno scenario che introduce strumenti nuovi richiede regole nuove».

Clementi propone di agire su due aspetti. In primo luogo suggerisce di anticipare (e ridurre) la finestra temporale in cui la Corte di Cassazione si esprime sulla legittimità del quesito referendario. «Si potrebbe fissare, per esempio, al raggiungimento delle prime centomila firme. A quell’obiettivo la campagna si ferma e la Consulta dà il proprio giudizio: se il quesito viene bocciato, la raccolta si interrompe prima che gli organizzatori investano ulteriore tempo e risorse per portarla a termine» illustra Clementi.

Il Palazzo della Consulta a Roma
Il Palazzo della Consulta a Roma (Francisco Anzola/Creative Commons).

«Il parlamento può intervenire subito su questi aspetti modificando la legge n. 352/1970, che è una legge ordinaria» prosegue Clementi, soffermandosi sul fatto che queste correzioni garantirebbero ai comitati promotori maggiore riconoscimento del loro ruolo e consentirebbero di programmare le campagne referendarie con più precisione e sicurezza.

Un referendum non si gioca solo sulla raccolta firme, ma anche sul convincere gli elettori a votare per raggiungere il quorum. A questo proposito Clementi propone di vincolare il quorum alla percentuale di votanti alle elezioni politiche più recenti, anziché al numero di aventi diritto di voto. Una soluzione che, secondo il professore, avrebbe un doppio vantaggio perché «da un lato incrementerebbe la qualità della partecipazione e dall’altro conferirebbe agli elettori un ruolo ancora più importante nella vita politica del nostro Paese».

Tempi (e silenzi) della politica

Quest’ultima proposta – cosi come l’innalzamento del numero minimo di firme, suggerito da diversi osservatori – richiede una legge costituzionale. Una riforma che prevede tempi lunghi, quando mancano solo quindici mesi a fine legislatura. Come fare, quindi? «In diritto il tempo ha un valore, da sempre» risponde Clementi. «Da gennaio 2022 entrerà in vigore la piattaforma nazionale per la raccolta digitale delle firme, e sarebbe necessario che la politica intervenisse prima di quella data, quantomeno sulla legge ordinaria che ho citato prima. Il tempo tecnico per farlo c’è, ma serve anche la volontà dei legislatori».

Le campagne referendarie su eutanasia e cannabis hanno dimostrato che l’opinione pubblica è in grado di imporre la propria agenda di priorità anche quando la politica decide di occuparsi di altro. «A questo proposito» ricorda Clementi, «è utile fare presente che la Corte Costituzionale aveva già esortato il parlamento a occuparsi di eutanasia nel 2019, chiedendo di promulgare una legge sul fine vita entro un anno».

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