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Spettacolo

«E noi come stronzi rimanemmo a guardare». Pif si è fatto FuUber?

Published by
Davide Zazzini

Arturo (Fabio De Luigi), lavoratore digitale, è licenziato al lavoro dall’algoritmo che lui stesso ha creato. Rimasto senza soldi e senza donna, diventa fattorino per la multinazionale FuUber (nomen omen) che gli offrirà anche un amore ologrammatico (a rate) su misura. Dal 29 novembre su Sky Cinema e in streaming su Now Tv c’è E noi come stronzi rimanemmo a guardare, l’ultima fatica di Pif (alla terza regia dopo i gradevolissimi La mafia uccide solo d’estate e In guerra per amore), commedia drammatica prodotta da Vision Distribution sullo sfruttamento dei rider, schiavi senza diritti al tempo della rivoluzione digitale, imbrigliati da questa sorta di Leviatano invisibile che è Sua Crudeltà l’Algoritmo .

Arturo (Fabio De Luigi) in una scena del film.

Con questo film Pif si pianta (finalmente) con tutti i due piedi dentro le contraddizioni socio-economiche del suo tempo (da figlio d’arte qual è) partorendo una satira dolceamara del nostro tempo iperdigitalizzato, rubacchiando qua e là al Jacques Tati di Playtime, alla prima stagione di Black Mirror e soprattutto forse (per scenografie e temi) a Her di Spike Jonze.

Leggi anche: Il contratto nazionale per i rider è un accordo legittimo?

Solo che i suoi meriti finiscono qua, perché la sceneggiatura (partorita a quattro mani con Michele Astori), ben imbastita benché tradizionalissima nell’impianto, si impantana in un finale da soap opera. La recitazione ammalinconita di Fabio De Luigi, poi, non decolla mai, neanche con le spalle comico-umoristiche che il regista cerca di affiancargli (tra cui lo stesso Pif, in veste di professore di filologia precario e hater compulisvo “per arrotondare”). E Roma, poi, travestita da città futuristica, piena di grattacieli su cui svolazzano droni come vespe, non convince per eccesso di inverosimiglianza.

Così anche il (pregevolissimo) nocciolo inziale del film si sfalda pian piano in una raggiera di sottotemi che rendono confusionario e monco il messaggio finale. Per cui sui titoli di coda il dubbio rimane: di cosa vuole veramente parlarci Pif? Della vexata quaestio dell’uomo “sconfitto” inesorabilmente dalla tecnica? Dell’inumanità degli algoritmi che soppiantanno (soppianteranno) l’ingegno umano? Dello schiavismo dei rider? Della frustrazione dei quarantenni italiani condannati a un eterno precariato? Dell’amore al tempo delle app? Della sparizione volontaria della privacy al tempo dei social? Della nostra impotenza davanti a tutto questo scenario? Il risultato è che la troppa carne al fuoco diventa alla fine quasi sempre o bruciata o insipida.

Sicuramente, però, Pif vuole denunciare lo strapotere delle multinazionali e lo sfruttamento interclassista. Benissimo. Tuttavia (eccetto qualche anteprima qua e là e la prima alla Festa del Cinema di Roma), il film non è passato per le sale. Ma direttamente su una pay tv internazionale che tramite l’Algoritmo profila incessantemente i suoi clienti chiedendo loro un (costoso) abbonamento mensile (che coincidenza eh?). Un’alternativa? La piattaforma streaming gestita della stessa pay tv che prospera sulla potenza di fuoco delle profilazioni dell’algoritmo. Di chi? Di noi (chi scrive in testa) che paghiamo a rate e come stronzi rimaniamo a guardare.

Leggi anche: Cinema su mobile: il futuro è verticale?

Un film che denuncia quelle stesse condizioni che lo hanno finanziato e reso possibile. E che, denunciandole, le incoraggia e le foraggia.

La domanda sorge spontanea: Pif si è fatto fuUber?

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Davide Zazzini

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