In Italia abbiamo ancora un problema con la comunicazione

C’è un aspetto, che riguarda la gestione della pandemia di questi (quasi) due anni, sul quale più o meno tutti convergono: le difficoltà di comunicazione sul Covid-19 che attraversano i diversi livelli di rappresentanza istituzionale. Dal governo alle regioni, dal Ministero della Salute alle Asl dei territori. In principio erano la fase 1 e 2 del lockdown, poi il sistema delle zone a colori, “i congiunti” e ora le regole di quarantena, isolamento e autosorveglianza. Limitare questa confusione comunicativa al solo livello politico sarebbe un errore, perché il problema è strutturale, di sistema. Attraversa dunque i rapporti tra i diversi livelli istituzionali. Non si tratta del diverso “stile comunicativo” tra Conte e Draghi, ma di avere – in un momento di crisi – una comunicazione istituzionale che sia autorevole, robusta e trasparente. E nemmeno il governo guidato dall’ex presidente della Banca Centrale Europea è riuscito in questa impresa perché, come detto, il problema è strutturale. 

Da Conte a Draghi: la questione non è (solo) politica

La narrazione che ha accompagnato la fine del secondo governo Conte e l’avvicendamento a Palazzo Chigi di Mario Draghi assomigliava in qualche modo al racconto di una liberazione. Dopo le enormi difficoltà del primo anno di pandemia, in cui tutto sembrava non funzionare, l’Italia finalmente poteva contare su una guida autorevole e risolutiva. Le conferenze stampa in ritardo e gli hashtag emozionali lasciavano spazio a comunicazioni puntuali e azioni concrete. Per fare un esempio, a marzo di un anno fa sembrava che il merito per l’arrivo dei vaccini in Italia fosse da attribuire alla sola azione del generale Figliuolo, il commissario straordinario all’emergenza scelto dal presidente del Consiglio in sostituzione di Domenico Arcuri, l’uomo di Conte. Lo stesso generale che, pochi giorni fa, ha chiesto “pazienza” ai cittadini italiani paragonando le file per i tamponi a quelle per il black friday.

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In molti, durante gli ultimi mesi, hanno scritto riguardo allo stile comunicativo del governo Draghi: c’era chi ne apprezzava l’essenzialità, chi ne sottolineava il disinteresse politico, chi lodava la sua “forza tranquilla”. Senza dubbio sotto questo punto di vista rispetto al governo precedente molto è cambiato. Gli articoli citati offrono spunti interessanti per analizzare il problema. L’impressione, però, è che lo si faccia sempre muovendosi all’interno del piano politico, confondendo lo “stile” con la “struttura”, gli “strumenti” con i “rapporti”. Da un lato infatti è condivisibile l’analisi secondo cui gli slogan e le mire elettorali del premier Conte sono stati sostituiti dalla concretezza super partes di Mario Draghi. Dall’altro lato però è evidente che questo cambiamento di stile non sia riuscito a guarire quella percezione di confusione che attraversava la popolazione durante il primo lockdown e che si è riproposta in questi giorni. Non si può dunque pensare che un cambio di governo risolva un problema strutturale e insito del nostro Paese. 

Autorevolezza, robustezza, trasparenza

Un anno e mezzo fa, a fine lockdown, proprio su queste pagine provavamo a capire quali fossero i problemi strutturali della comunicazione del governo Conte bis. Non si trattava, come detto, di analizzare solo il racconto sensazionalistico dei giornali o l’atteggiamento spesso paternalistico del premier. Andando al di là dello spettacolo politico, l’intento era quello di verificare se la comunicazione del governo avesse seguito un protocollo stabilito. Se rispettasse, cioè, le tre regole principali della crisis communication: autorevolezza, trasparenza, robustezza. La risposta era stata negativa, il governo le aveva mancate tutte e tre.

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Comunicazione autorevole

Sebbene ci troviamo in una situazione diversa rispetto a un anno e mezzo fa, alcune delle dinamiche già vissute durante le prime fasi della pandemia si stanno riproponendo ora che l’ondata dei contagi causata dalla variante Omicron si è abbattuta sul nostro Paese. Ancora una volta, sembra che anche questo governo si sia trovato abbastanza impreparato a gestire una situazione di crisi. Come era successo al premier Conte, anche la comunicazione di questo governo non risulta autorevole poiché non è univoca. In parte perché la materia in questione, quella della sanità, è gestita dalle regioni e dai territori di riferimento. In parte però perché anche in questo caso le indicazioni del governo non sono state subito recepite dai territori. Migliaia di cittadini si sono trovati a gestire in autonomia le proprie condizioni di isolamento/quarantena. Soprattutto, come in questo caso, le Regioni hanno deciso in autonomia – e spesso in ritardo – quali provvedimenti attuare per cercare di far fronte al caos tamponi.

Comunicazione robusta

Si arriva dunque al secondo punto, quello della comunicazione robusta. Un piano di crisis communication non era previsto nonostante l’enorme impreparazione dimostrata durante la prima ondata, e le infrastrutture in questo senso non sono migliorate. Impossibile contattare il 1500, unico numero d’emergenza attivato dal Ministero della Salute, preso d’assalto durante i giorni festivi. Molto difficile mettersi in contatto con le Asl dei territori che, come detto sopra, spesso hanno seguito strade diverse per la gestione dell’isolamento e delle quarantene. L’unico baluardo rimasto è stato quello dei medici di base, che però non dovrebbero occuparsi solo di burocrazia e spesso in alcuni territori non avevano nemmeno il potere di segnalare un positivo o riattivare un green pass. A proposito, questa è quella che viene definita “l’odissea dei non più positivi” in relazione all’ottenimento del super green pass. No, anche in questo caso la comunicazione non è stata robusta. Le infrastrutture della comunicazione non sono state potenziate, spesso a farla da padrone è stata la confusione

Comunicazione trasparente

Infine, non si può dire che nemmeno il terzo principio cardine sia stato rispettato. Innanzitutto c’è stato un continuo spostamento dell’asticella rispetto alla percentuale necessaria di vaccinati da raggiungere per ottenere l’immunità di comunità. Prima il 70 per cento ci avrebbe protetti, poi l’80, fino ad arrivare alla decisione dell’obbligo vaccinale per gli over 50 di pochi giorni fa. Ormai di immunità di comunità non si parla nemmeno più, in quanto è ormai chiaro a tutti che sia un concetto in questo momento fuori dalla realtà. Inoltre, la richiesta di differenziare il bollettino quotidiano sul Covid tra vaccinati e non vaccinati non è mai stata accolta. Anzi, in questo momento, essendo saltato il tracciamento, stiamo vivendo la stessa situazione del primo lockdown, quando il numero di nuovi positivi era di molto sottostimato rispetto alla realtà. Su questo abbiamo assistito a un lampo di “trasparenza” da parte della provincia autonoma di Bolzano, proprio qualche giorno fa. 

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Infine, la variante Omicron. «È contagiosa, ma poco aggressiva». «Solo la terza dose può arginarla». «In realtà per i vaccinati è solo un raffreddore». «Fortemente consigliati i tamponi prima dei cenoni di Natale». Perché di fronte a informazioni per nulla trasparenti un cittadino vaccinato dovrebbe scegliere di acquistare a sue spese più tamponi per la sua famiglia in modo da limitare la diffusione del contagio? Se la tutela della salute pubblica è una questione collettiva, perché viene lasciata in balia delle decisioni individuali?

Qualcosa è cambiato per la comunicazione sul Covid-19?

No. Sul piano della comunicazione, del rapporto tra istituzioni e della trasmissione di informazioni ai cittadini, nulla sembra essere cambiato. Anche la comunicazione del governo Draghi, messa alla prova dall’aumento dei contagi, non è stata né autorevole, né trasparente, né robusta. Si potrebbe pensare che dal punto di vista dello spettacolo elettorale e della comunicazione politica qualcosa sia cambiato, e forse è davvero così. Ma ne siamo proprio sicuri dopo che il premier Draghi, poche settimane fa, si è definito «un nonno al servizio delle Istituzioni»?

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