Perché il rifiuto della complessità non è più accettabile

Quanto segue nasce come risposta a questo articolo pubblicato sempre su questa rivista in cui si esaltano le contronarrazioni semplici, dove per contronarrazione si intende una narrazione che si oppone a quella dominante. In particolare, l’articolo elogia quando questo avviene nei media mainstream. La tesi principale è che la semplicità apra la conoscenza a un pubblico più ampio e ne massimizzi la diffusione.

L’autore, in modo lungimirante, prova a rispondere preventivamente ad alcune critiche. Per esempio, quando nota come nel momento in cui prodotti mediatici di contronarrazione diventano fenomeni di culto, questi vengono ridotti spesso a una vendita di gadget e altri prodotti affini. L’esempio è quello di Squid Game, in cui i soldati, membri obbedienti di un establishment che soverchia i deboli, sono finiti per diventare le mascotte del prodotto, quasi elementi positivi, nella misura in cui sono vendibili. Il tutto per non parlare di tutti i prodotti mediatici, tra cui filmati, videogiochi e l’annesso indotto di streamer, che si soffermano sul citare le meccaniche di gioco ignorando completamente la critica sociale della serie.

Secondo l’articolo, questi elementi sono visti in chiave positiva, perché permettono alla contronarrazione di penetrare i muri degli strumenti della narrazione dominante che se ne fa promotrice. E se in realtà questo fosse una sconfitta? Piuttosto che di penetrazione, forse sarebbe il caso di parlare di assorbimento. La cultura dominante permette l’esistenza di contronarrazioni nella misura in cui questa possa assorbirle, farle proprie e ridurle a mere esperienze catartiche. Così come per gli antichi greci era importante inscenare la tragedia e la violenza, in modo che il cittadino medio potesse viverla nella finzione al posto che nella realtà, un meccanismo analogo si replica in ogni forma di pensiero sovversivo.

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Se la satira, notoriamente uno strumento di derisione del potere, diventa uno strumento usato per deridere le contronarrazioni, possiamo davvero parlare di narrazione efficace?

Chiariamoci: per pensiero sovversivo non si deve per forza intendere qualcosa di radicale e/o estremo, ma ogni singola forma di pensiero critico che mina non solo le basi ma una qualunque caratteristica problematica dello status quo. Infatti, nessuno dei prodotti citati dall’autore è riuscito a smuovere davvero la collettività. Hanno però portato molti soldi all’industria mediatica che, grazie alle sue narraizioni e contronarrazioni, genera profitti.

Un altro modo in cui l’articolo cerca di difendere la propria tesi è quello di sottolineare la differenza tra semplice e semplicistico. Il problema è che fare questa distinzione non coglie il punto, perché all’atto pratico nei prodotti mediatici questa distinzione è irrilevante. Se la narrazione dominante si nutre di messaggi semplicistici, è perché punta a coloro che fanno del rifiuto delle complessità l’imperativo categorico morale e di interpretazione della vita. In una società sempre più complessa, questo è un lusso che non possiamo più permetterci.

La riduzione alla semplicità come manifesto falsamente pragmatico è una trappola in cui tutti possono cadere, e non bisogna fare l’errore di pensare che sia un’esclusiva di gente poco istruita. L’istruzione e il pensiero critico sono sì armi di difesa, ma la battaglia è soprattutto interiore. Molte persone intelligenti e colte, soprattutto quando queste sono specialiste in campi che studiano la complicazione e non la complessità, tendono a usare la propria competenza specialistica come pretesto per giustificare i propri bias. Chiunque, quando esce dal proprio dominio di esperienza specialistico, tende a misurarsi con una complessità che fa spavento, e rifuggirne è una scelta ovvia che ci permette di scomporre le cose in problemi più semplici e quindi risolvibili. Anche all’interno dei domini specalistici può esserci questo problema: un esempio eclatante è l’avversione di Einstein per la meccanica quantistica, frutto di una tendenza consolidata nelle scienze di prediligere le teorie semplici ed eleganti.

Finché questo fenomeno si manifesta tra specialisti in contesti ristretti, dove i metodi scientifici sono costruiti in modo da arginare questo problema, poco male; è nel “Paese reale” che il rifiuto della complessità diventa dannoso. Antipolitica, populismo, complottismo e ideologie estreme sono tutte l’effetto dello stesso rifiuto della complessità. Sono proprio quelle contronarrazioni semplici (anche quando non semplicistiche) a degenerare in questi fenomeni. Si parte da un’idea semplice, come quella di una élite di poteri forti che vuole soggiogare l’uomo comune, e poi da lì si costruiscono teorie di varia natura. Quando queste si fanno cervellotiche diventano teorie del complotto (è più facile credere ai poteri forti che a una rete casuale di gente che specula sulle fake news). Quando si traducono in politiche dilettantistiche si fanno populismo (è più facile credere che “uno vale uno”, rispetto a entrare nel merito delle singole questioni). Quando le si spreme fino all’irragionevole diventano estrema destra ed estrema sinistra (gli immigrati ci rubano il mestiere, non vengono da condizioni diverse per motivi diversi, così come dare il potere ai lavoratori non ferma i monopoli).

Un altro effetto di questa semplificazione come stile di vita è la polarizzazione, i cui effetti in politica sono sempre più manifesti. Di fronte a una politica fatta solo di slogan, non conta più quale rappresentanza politica offre le soluzioni ai propri problemi: si sceglie una visione del mondo e la si segue. L’estremo è quello di lasciarsi pensare da chi urla lo slogan più bello, quello più deresponsabilizzante o soddisfacente. Di fronte a chi sceglie una visione del mondo preconfezionata, non sarà di certo offrendogliene un’altra che si potrà fargli cambiare idea. È solo permettendo al cittadino di attingere dalle varie scatole il necessario a fornirsi la propria visione del mondo sfaccettata che forse si può ottenere una politica di compromesso e, forse, con un minimo di efficacia.

Di fronte a un mondo sempre più interconnesso, dove sempre meno possiamo permetterci di ignorare ciò che accade fuori dal nostro orticello, il rifiuto della complessità è anacronistico. La semplicità, in questo contesto, può essere un’arma di introduzione all’argomento, ma non l’unico modo per i media di esprimersi al di fuori del mondo di intellettuali e specialisti. Dobbiamo rassegnarci al fatto che, se vogliamo vivere in democrazia, non possiamo scaricare il lavoro sporco ai professoroni né criticarli in modo acritico quando portano avanti una narrazione che non ci piace. Dobbiamo educare il pubblico, che è cittadino, all’idea che le cose sono sempre un po’ più complesse e bisogna difendersi con strumenti altrettanto complessi.

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