Per una cultura di genere inclusiva e paritaria: theWise incontra Elisa Rossi

Negli ultimi tempi si sono moltiplicate le proteste degli studenti sul dress code nelle scuole. Il caso più recente è del 16 febbraio a Roma, al liceo scientifico Augusto Righi, ma proteste simili ci sono state anche lo scorso novembre a Milano, Monza e Venezia, tra gli altri. L’obiettivo di queste proteste, raccontano gli studenti, è mettere in discussione un codice di abbigliamento considerato sessista e discriminatorio. Parlano di mascolinità tossica, che vieta alle ragazze di indossare gonne troppo corte o mostrare le spalle, e di disparità di genere. Chiedono un cambio di mentalità per creare un mondo in cui sentirsi liberi e non definiti dai vestiti che si indossano.

Spesso, queste proteste nascono da episodi in cui i docenti giudicano inappropriati i vestiti di qualche studentessa. Non si tratta di una richiesta educata del docente a presentarsi a scuola vestiti in modo adatto, piuttosto di un divieto di indossare alcuni capi per nascondere le forme, non distrarre i compagni (maschi, si intende) e non attirare sguardi indiscreti. Così, le nuove generazioni hanno detto basta e in poco tempo si è formata una nuova forma di protesta: tutti a scuola indossando la gonna.

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Chiedono che le scuole siano un posto dove ci sia rispetto nei confronti di tutti, a prescindere dall’abbigliamento. Chiedono di rendere sicuri gli spazi che attraversano. Vogliono essere liberi di definire la loro identità di genere e hanno scelto di iniziare a scuola, uno dei luoghi di formazione e socializzazione più importanti, e di indossare una gonna, simbolo di femminilità.

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Oggi, per capire il significato di queste proteste, theWise Magazine ha incontrato Elisa Rossi, professoressa associata presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali, dove insegna Sociologia delle relazioni di genere e Sociologia dei conflitti.

In questi mesi ci sono stati diversi articoli sulle proteste studentesche e, nel trattare del tema, i media hanno usato in modo interscambiabile le parole genere, identità di genere e identità sessuale. In realtà sono concetti molto diversi tra loro, ci può spiegare le differenze?

«Prima di parlare di identità di genere è fondamentale capire il significato di altri termini. La differenza fondamentale da cui si deve partire è quella tra sesso, genere e orientamento sessuale. Nell’opinione più accreditata, sia nella cultura che nelle scienze sociali, per sesso si intende il dato biologico, le differenze fisiologiche legate ai corpi maschili e femminili. In questo senso non parliamo solo di organi riproduttivi, ma anche di ormoni, per esempio.

Per genere si intende quel processo di costruzione di significati, aspettative, atteggiamenti, comportamenti e ruoli che rimandano al sesso biologico. Questi aspetti sono prodotti nella quotidianità dei processi comunicativi e sociali a cui partecipiamo. La società, in altri termini, si aspetta che un individuo in quanto maschio o femmina alla nascita diventi uomo o donna rispettando determinate caratteristiche e norme.

L’orientamento o preferenza sessuale, invece, è quell’attrazione che gli individui possono provare nei confronti di persone con sesso, genere o orientamento sessuale diversi dai propri o uguali, o anche entrambi».

Da cosa deriva questa confusione dei termini?

«Da un punto di vista storico e socio-culturale, la narrazione ancora predominante che regola le relazioni di genere è eteronormativa. Vede l’eterosessualità come unico orientamento sessuale normale e possibile. Questa narrazione non è casuale: nasce dalla stretta correlazione con il binarismo di sesso, maschio-femmina, e di genere, maschile-femminile. Non si ammettono combinazioni diverse, spettri di genere, altre preferenze sessuali. Le varianti legate all’intersessualità, per esempio, sono ritenute inaccettabili e quindi corrette in modo chirurgico alla nascita. Questo porta a confondere i termini, perché non ci si interessa al tema o si ha paura del cambiamento.

Gli studi, in realtà, dimostrano come le dicotomie e le differenze non siano così marcate. Esistono spettri di possibilità altre sia di sesso biologico sia di genere sia di orientamento sessuale. L’intersessualità, che è una caratteristica biologica, per esempio, ha tante varianti. Allo stesso modo, nel genere esistono tanti tipi di mascolinità e di femminilità, di essere uomo e di essere donna. È fondamentale dunque chiarire questi termini. Ricordiamoci anche che il corpo biologico non è sempre quello in cui una persona si riconosce e che genere e sesso possono non coincidere: ci si aspetta un allineamento tra corpo biologico e genere, ma non è sempre così e la realtà che osserviamo tutti i giorni lo dimostra».

Nella cultura italiana l’eteronormatività è molto diffusa…

«Sì, perché si tende a voler mantenere una narrazione eteronormativa ed eterosessista che influenza i comportamenti e le relazioni di genere. Tutto è molto legato al patriarcato, un sistema di dominio che nel corso dei secoli ha sancito la superiorità del maschile e degli uomini sul femminile e sulle donne, in tutti gli ambiti. Il patriarcato è pervasivo e tuttora persistente, anche se oggi in forme per alcuni aspetti diverse rispetto al Novecento. Gli stereotipi, i pregiudizi, la concezione binaria del genere e l’eteronormatività sono ancorati a questo sistema tradizionale e patriarcale».

Cos’è, invece, l’identità di genere?

«Anche quando si parla di identità di genere, io propendo per un approccio costruttivista. Non guardo all’identità come a una cosa acquisita e definita a priori. L’identità dipende da come una persona si definisce, si percepisce e si sente. Non è un’essenza, non è sempre uguale, bensì è situazionale: in alcuni casi vengono espressi e rimarcati certi aspetti, ad esempio. L’identità di genere, nello specifico, è processuale perché viene costruita tramite le interazioni e le narrazioni quotidiane. È l’esito di un divenire continuo. Per questo diciamo che l’identità di genere può essere fluida. È una parte fondamentale dell’identità personale, alla cui costruzione ed espressione contribuisce il processo di socializzazione. La teoria classica vede l’identità in modo statico, oggi non la vediamo più in questo modo. Siamo in continua trasformazione e in continua scoperta, influenzati dai modelli di genere che la società comunica».

Elisa Rossi, professoressa associata presso Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.
Nelle critiche, le proteste degli studenti sono state definite come una criminalizzazione del genere maschile e additate come un’assurdità. Si nomina sempre la fantomatica ideologia gender e la sua pericolosità. Questo si può interpretare in due modi: da una parte è un problema culturale, dall’altra è una differenza generazionale. Perché c’è così tanta paura a parlare del genere e ad aprirsi al cambiamento?

«La questione generazionale è presente. La narrazione eteronormativa di cui abbiamo parlato è forse più evidente nelle generazioni precedenti alle nostre. D’altra parte, però, non dimentichiamoci che stiamo osservando anche una precocizzazione della violenza maschile sulle donne, se pensiamo ai casi più recenti di femminicidi. Un cambiamento è in atto: la società si sta aprendo e sta uscendo dal binarismo, anche grazie alle lotte femministe e alla libertà portata dalla comunità Lgbtqi+. Tuttavia, non dobbiamo nascondere che dei problemi ci siano anche nelle nuove generazioni. Nel complesso, c’è paura ad andare oltre alle gerarchie di genere e all’eteronormatività. Certi ambienti cattolici contribuiscono ad alimentare questi timori perché sentono minacciati i ruoli di genere tradizionali e l’eterosessualità in quanto volta alla riproduzione della specie. Si ritorna sempre all’idea di coppia formata dalla donna come madre amorevole e dal padre lavoratore.

L’attacco alla presunta “ideologia gender”, proveniente da questi ambienti, nasce anche dal timore che il maschile si confonda con il femminile e viceversa. Si vuole rimarcare e mantenere il binarismo e la correlazione sesso-genere-orientamento sessuale. La realtà che osserviamo, però, va avanti. A oggi ci sono tanti esempi, nel panorama musicale ma anche nelle pubblicità e nelle manifestazioni, di un maschile che sta cambiando: nella cura del corpo, nell’affettività con i propri figli, nel dialogo con le donne, nella condivisione del lavoro familiare.

I giovani, oggi, hanno meno paura di esprimere i propri orientamenti e a scardinare le aspettative e le norme di genere. Infatti, i ragazzi si sono messi la gonna per protestare nei confronti di ciò che la società si aspetta dalle ragazze, ma anche da loro stessi, dai ragazzi».

In effetti, le critiche alle proteste sono mosse proprio dall’utilizzo della gonna da parte dei ragazzi.

«Certo, non mi stupisco. La gonna è femminilità, un uomo che la indossa è contaminato dal femminile, ritenuto negativo e inferiore al maschile. Più problematico ancora, però, è il divieto di far mettere le gonne alle ragazze. Si impone loro di nascondere le forme e di non distrarre i ragazzi. Questa è una costruzione del maschile che vede ancora i ragazzi come sopraffatti da un desiderio sessuale presunto irrefrenabile e incontrollabile, e che porta al controllo sul corpo delle donne. Anziché aprire un dialogo su questi temi e decostruire gli stereotipi di genere, si incolpa e si rinchiude la donna. La maschilità continua a essere costruita e interpretata in quest’ottica, ma non possiamo presupporre che tutti i maschi siano sempre in preda al desiderio sessuale o violenti, è sbagliato. La questione della gonna è emblematica in questo senso».

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Gli studenti e le studentesse hanno scelto di protestare a scuola. C’è un forte desiderio di cambiamento della società, ma anche della scuola. È molto significativo questo desiderio, non le pare?

«Ci sono due livelli importanti. Il primo è il genere nell’educazione, che comporta ancora oggi una segregazione orizzontale tra studenti, indirizzati ancora a materie scientifiche, e studentesse, verso quelle umanistiche. Il tutto credendo sia “naturale” per loro questa distinzione, riproducendo lo stereotipo che vuole gli uomini razionali e le donne sensibili. Dall’altra parte troviamo l’educazione di genere. Parliamo dei progetti e delle iniziative che sono volti a scardinare i pregiudizi e le discriminazioni e a promuovere una cultura di genere paritaria e rispettosa delle differenze, in primis personali.

Le scuole e le università devono mettersi al passo delle esigenze dei ragazzi e delle ragazze, che sono molto più avanti rispetto a quanto si crede. Il dialogo su questi temi è fondamentale: sia tra ragazzi e ragazze, sia prima ancora tra docenti e gruppo classe. La riflessione sulle questioni di genere e la promozione di un’educazione di genere inclusiva sono importanti per tutti, anche per gli uomini. Ricordiamoci che un certo tipo di socializzazione e di educazione di genere impatta moltissimo anche sulla libertà dei ragazzi e degli uomini. Il femminismo serve a tutti noi. Ragionare su una cultura di genere aperta, fluida e paritaria è utile a tutti, è un cambiamento che dobbiamo fare».

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