Non si parla mai dei crimini del comunismo?

Il dibattito che Gianluca Falanga apre a principio del suo Non si parla mai dei crimini del comunismo (Laterza, 2022) è attuale. Sono tanti i politici che sfruttano il mito di un presunto silenzio nei confronti del comunismo, non tanto per rendere più note le pagine terribili della storia del Novecento e neppure per commemorare le vittime, quanto per accusare le sinistre di essere reticenti in materia e di non aver fatto i conti col passato. Il che in parte è vero, ma questa non è l’angolatura dell’analisi dell’autore. L’affermazione che dà il titolo all’opera è uno statement politico, basato sull’uso strumentale della Storia che non tiene conto in maniera critica dei crimini nell’Urss di Lenin e di Stalin, quelli nella Cina di Mao Zedong e nella Cambogia di Pol Pot. I dibattiti attorno a questi regimi, secondo Falanga, sono a rischio di processi di revisione.

La memoria antifascista

In Italia e in Francia i partiti comunisti ostacolarono la maturazione di una piena consapevolezza delle violenze di massa nei regimi comunisti. Ma, a giustificazione di ciò, si dice spesso che l’Urss contribuì alla lotta antifascista e, in particolare in Italia, i comunisti ebbero un ruolo importante nella rinascita democratica nazionale. «Dei crimini del comunismo, dunque, se ne parla e […] non si è mai smesso di parlarne»: lo testimoniano i dibattiti dal Sud America alla Corea, della Mongolia all’Etiopia, dalla Jugoslavia all’Albania, dove i popoli fanno i conti con le conseguenze dei crimini del comunismo. All’inizio degli anni Ottanta, un terzo dell’umanità era sotto regimi comunisti o ispirati al marxismo-leninismo. Fortunatamente, i dibattiti sui crimini di comunismo e nazismo «hanno oggi smesso di viaggiare su binari paralleli senza toccarsi, si intrecciano e si stimolano a vicenda». Falanga riflette sul significato di memoria condivisa.

La memoria dei crimini del comunismo

Elenca pure musei e monumenti dei luoghi di riflessione delle efferatezze dei regimi rossi, tra congiure del silenzio e dimenticanze di comodo. «Nazismo e comunismo sovietico sono state due manifestazioni estreme della violenza politica […] del Novecento, una violenza indirizzata […] verso l’esterno, gli altri, nel caso del nazismo, e verso l’interno, la società, per il comunismo». Inoltre, «il terrore nazista degli anni Trenta fu per intensità più feroce di quello fascista in Italia, ma […] più modesto rispetto […] alla qualità del terrore sovietico […], che andava ben oltre l’obiettivo di prevalere sugli avversari nella guerra civile e mirava all’annientamento di qualsiasi forma di autonomia sociale e per quanto assai più totalitario di quello nazista». Curiosamente, «i nazisti non distrussero lo Stato come fecero i bolscevichi, ma si limitarono a rimodellarlo, lo integrarono con apparati paralleli per controllarlo meglio e piegarlo ai propri bisogni».

«Il modello corporativo d’ispirazione italiana (fascista) del socialismo nazionale si limitava alla ridistribuzione delle risorse e alla pianificazione statale dei programmi di lavoro». Il terrore di massa sovietico era d’altra parte sterminatore. Difatti, l’eliminazione degli appartenenti a una certa classe non era fine a sé stessa come lo erano gli ebrei per i nazisti. Purgare gli elementi indesiderati (classe o etnia) assicurava a entrambi i regimi un adeguamento collettivo a un nuovo ordine sociale.

Un gulag negli anni Trenta. Foto: Flickr.

Criminali fascisti e criminali comunisti

Un tema fondamentale del libro è la comune lamentela che i crimini di nazismo e fascismo non sono equiparati ai crimini del comunismo. Jorge Semprún (Quel beau dimanche!) auspicava l’abbattimento delle riserve nei confronti del totalitarismo rosso del Novecento. Semprún, sopravvissuto di Buchenwald, mirava allo sviluppo di una memoria europea “doppia”, ovvero includente anche ai regimi comunisti. Eppure, c’è differenza nel trattare oggi comunismo e nazismo.

Tutti conoscono i vari Heinrich Himmler, Reinhard Heydrich, Rudolf Höss, ma i più ignorano i Feliks Dzeržinskij, Nikolaj Ežov o Kang Sheng e Kaing Kek Iew. Charles Maier ha scritto a proposito di una memoria “calda” del nazismo e una “fredda” del comunismo. Il primo uscì sconfitto dalla guerra che aveva provocato. Il secondo non ha perso il conflitto e non ne ha scatenati. Inoltre, «il terrore nazista assassinava in virtù dell’appartenenza etnica (“razziale”) o politica in quanto tale, si trattò pertanto di un targeted terror. Quello stalinista era invece stochastic terror, un terrore imprevedibile, perché nessuno poteva presagire chi sarebbe stato il prossimo a venire prelevato dalla polizia segreta», scrive Falanga. I regimi comunisti hanno lasciato cadaveri ovunque, ma anche relativa pace nei decenni di repressione, dove la vita quotidiana delle persone andava avanti e si estendeva lungo le generazioni – cosa che non accadde col nazismo.

Il genocidio di classe

La lunga durata del comunismo ha consentito all’ideologia di radicarsi. Falanga analizza uno ad uno gli stereotipi sui crimini del comunismo. Il primo capitolo, Cento milioni di morti!, parte dall’analisi del libro di Stéphane Courtois, Il libro nero del comunismo. Lo studioso francese ha identificato a quota cento milioni le vittime nel comunismo contro le venticinque milioni del nazismo. Il sistema comunista sovietico aveva conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale, ma i crimini narrati nelle oltre ottocento pagine di Courtois raccontano un’altra storia. Parlano di massacri, deportazioni e carestie tra Russia, Afghanistan, Cina, Vietnam, Cambogia, Angola, Etiopia, Mozambico, Corea del Nord, Nicaragua. Tradotto in venti lingue, il libro fu un successo internazionale. Le destre lo celebrarono; le sinistre lo contestarono. Courtois ha denunciato l’assenza di una Norimberga per i crimini del comunismo. La sua formula di “genocidio di classe” aveva l’intenzione di essere equiparata alla Shoah.

Feliks Dzeržinskij, fondatore e primo direttore della Čeka.

Diversi tipi di comunismo

Cento milioni, le vittime dei crimini del comunismo, appare una cifra gonfiata. La conta dei cadaveri non è un buon metodo per fare una storiografia completa, seppure indicativa. Il libro di Courtois «ha fornito munizioni […] alla più squalificata propaganda dei detrattori del comunismo», sostiene Falanga. Il numero non tiene neanche conto dei diversi tipi di comunismo alla luce dei vari momenti storici. Degli anni Venti in Russia, degli anni Sessanta in Cecoslovacchia, degli anni Settanta in Cambogia. Parlare di un comunismo che debba essere sempre declinato al plurale? Dove inserire poi le correnti comuniste in opposizione al marxismo quale il trozkismo, il luxemburghismo, il bordighismo, il marxismo-libertario e l’anarco-comunismo? Fu Lenin che nel 1918 fece assumere al partito la qualifica di comunista per separarlo dal resto del movimento socialista europeo. Nel 1919 costituì l’internazionale comunista a Mosca dove propose il modello leninista del partito.

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Cioè un’organizzazione di rivoluzionari di professione, disciplinata e compartimentata secondo il centralismo democratico. L’Urss avrebbe fatto da guida a tutti i regimi comunisti nel mondo. «Ogni tentativo di realizzare l’utopia marxista della società comunista ha prodotto miseria e sofferenza, invece del paradiso di libertà e giustizia e vivrà un inferno di sangue e schiavitù». Falanga non nega le catastrofi e i crimini del comunismo. In Russia, «i bolscevichi inaugurarono una violenza nuova, un metodico terrore politico e sociale che non aveva all’epoca precedenti perché connaturato all’assoluta novità ed enormità dell’impresa, un colossale esperimento di ingegneria sociale, il più radicale e totale che si potesse immaginare». Costoro «cavalcarono la violenza popolare diffusa nelle sue diverse componenti, legittimandolo e servendosene come un’arma nella lotta politica. Sentimenti di odio e frustrazione sociale […] nella società furono incanalati in uno schema ideologico di contrapposizione di classe».

La Čeka e le purghe

Da qui la Čeka, affidata al macellaio polacco Dzeržinskij, caposcuola per tutte le future Gestapo rosse. La Čeka era un organismo extralegale autonomo da giustizia e tribunali che rispondeva solo al governo bolscevico – «un buon comunista è anche un buon cekista», disse Lenin. Fu un organo di feroce repressione, consentendo la violenza metodica e arbitraria volta alla costruzione dello Stato comunista fondato sul partito e il leader. Instaurò una sorveglianza totale dei cittadini, con limiti alle libertà fondamentali, criminalizzazione e psichiatrizzazione del dissenso. Sarebbe un errore dunque credere alla leggenda del Lenin buono e dello Stalin cattivo. La violenza per affermare il bolscevismo deriva da Lenin. C’è inoltre continuità tra il terrore rosso di Lenin e il grande terrore di Stalin. Tra la prima rivoluzione bolscevica del 1917-8 e quella del 1928-9, con la collettivizzazione forzata dell’industria. Il terrore di Stalin assunse caratteristiche assurde ed irrazionali.

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Le purghe dovevano fare pulizia dei “nemici” del Partito- Stato, dei controrivoluzionari, degli ex militanti politici, degli ex funzionari dell’apparato amministrativo zarista. Le “campagne curative” raggiunsero l’apice tra il 1937-8, quando circa un milione di persone furono arrestate e la metà fucilate. Le purghe fecero strage di polizia e funzionari, tecnici ed intellettuali. Una sostituzione della nomenclatura che non avvenne nella gerarchia nazista. Poi deportazioni dalla Polonia e dai Paesi baltici dopo il patto Molotov-von Ribbentrop. Dunque, il trasferimento di mezzo milione di ceceni nel 1944 in Kazakistan per punirli della loro presunta collaborazione con i nazisti. Il massacro di Katyn’ che Stalin voleva far passare come massacro nazista – il giudice Roman Ruděnko intendeva inserirlo nella lista dei crimini dei nazisti giudicati a Norimberga – fu negato fino al 1989. Si ricordi poi il non-intervento sovietico nella rivolta di Varsavia nel 1944.

I gulag e il terrore

Allora l’Armata Rossa attese oltre la Vistola che i nazisti soffocassero la sollevazione popolare prima di condurre l’offensiva. «Bisognerebbe riconoscere che l’Armata Rossa non combatteva per liberare l’Europa della dittatura, ma per vincere la grande guerra patriottica, e che Auschwitz fu liberata dall’esercito di uno stato che aveva due milioni e mezzo di internati nei gulag. Stalin non liberò l’Europa orientale: la sottomise a una nuova schiavitù». Nel 1950 i gulag raggiunsero la massima estensione: due milioni e mezzo di internati. Fin dal 1944 i popoli centroeuropei provarono la violenza dei “liberatori”. A placare anche la fama dei crimini del comunismo fu il fatto che i comunisti si presentarono come eroi. Si pensi che Mao in Europa era considerato un mito tra le sinistre degli anni Sessanta. Ma processi-farsa, interrogatori violenti, campagne di odio, processi di rieducazione al terrore e incarcerazioni non mancarono in alcun regime comunista nel mondo.

«Il terrore doveva condizionare, spaventare, assicurare al nuovo potere il controllo sociale e una base di reclutamento e di cui prima la guerriglia e poi lo Stato comunista avevano un continuo bisogno. Il coinvolgimento delle masse nell’azione epurativa serviva inoltre a rendere complice la popolazione dei villaggi, stringendo veri e propri patti di sangue fra i funzionari fomentatori e i contadini». Poco importa se questo volesse dire famiglie cancellate, vite segnate alla rieducazione e all’umiliazione perpetua. «Nazismo e fascismo godettero della complicità della società tedesca e italiana per costruire il loro potere, andarono al governo legalmente e non ebbero bisogno di distruggere lo Stato, adattandolo piuttosto ai propri obiettivi per servirsene, approfittando inoltre dell’appoggio […] della classe dirigente e delle élite industriali, militari e della burocrazia statale, oltre che di un crescente ed entusiastico consenso popolare».

Il comunismo come ideologia

Al contrario, Cina e Urss «passarono attraverso un tritacarne della radicale trasformazione imposta del corpo vivo della comunità umana col ricorso ad ogni mezzo disponibile del controllo sociale, della repressione e dello sterminio degli elementi indesiderati». È pacifico che, ovunque abbia attecchito nel mondo, il comunismo ha perpetrato una soffocazione di ogni risorsa vitale dello sviluppo e della maturazione della società prigionieri delle volontà assolutistiche di un potere centrale di un partito e di un leader. Falanga analizza anche il comunismo inteso come ideologia. Ancora oggi c’è chi dice che il comunismo è una buona idea che è stata realizzata male e dunque qualora non funzionasse non è colpa dell’idea, ma degli uomini – tesi discutibile: il nazismo era forse una buona idea applicata male? Ovviamente, no. Karl Marx è stato il filosofo nel comunismo, ma ha scritto ben poco di come dovesse essere organizzata una società comunista.

Karl Marx, il filosofo del comunismo

Secondo Falanga, il filosofo di Treviri concepiva una società post-capitalistica autenticamente plurale e meritocratica basata sul principio che ognuno avesse dovuto contribuire ad essa secondo le proprie capacità. Marx auspicava l’abolizione della proprietà privata e la socializzazione dei mezzi di produzione. Questo avrebbe permesso il fermarsi utopico di un’ideale e interesse unico e comune a tutti, gestito dallo Stato. Ma anche di una società compatta e solidale; ugualitaria, come va di moda dire oggi. Con dittatura proletaria Marx intendeva una situazione politica che si sarebbe installata dopo la rivoluzione e che avrebbe esercitato il potere politico. Non intendeva una dittatura nel senso proprio a danni della borghesia. Mikhail Bakunin criticò Marx. La cui più grande contraddizione era che per abolire lo Stato, concepito come una macchina di oppressione di classe, occorreva dare potere allo Stato. Solo occasionalmente Marx trattò il tema della violenza rivoluzionaria.

Statua di Lenin a Brest, in Bielorussia. Foto: Flickr.

Lo scontro comunista in Europa

«Lenin aveva intuito che uno scontro militare di vasta portata fra le potenze in Europa sarebbe stato utile alla causa rivoluzionaria […]. I massacri al fronte avrebbero convinto le masse a indirizzare il proprio odio contro i governi, trasformando la guerra mondiale in una guerra civile mondiale, che avrebbe accelerato il tramonto del vecchio mondo e la fine del capitalismo». Rosa Luxemburg accusò Lenin di tradimento degli obiettivi dell’Internazionale. Tre gli elementi che stravolgevano il marxismo da parte del leninismo. In primo luogo, Lenin non concepiva che le masse dei lavoratori potessero prendere in mano il proprio destino. Riprese una teoria di Auguste Blanqui secondo cui soltanto una piccola élite poteva condurre la rivoluzione socialista. In secondo luogo, la necessità del terrore. Lenin auspicava una rivoluzione nella violenza. In terzo luogo, il soggetto rivoluzionario non poteva essere il ceto operaio industriale, quanto i contadini delle campagne.

Un elemento che unisce Lenin e Marx è che entrambi parlavano di cose che non conoscevano. Nessuno dei due ha mai lavorato in una fabbrica. Ma il loro “nuovo ordine” doveva assicurare la coesione del movimento operaio dedito anche al culto della giovinezza come forza e audacia. Falanga sottolinea come Lenin si muovesse sui binari del darwinismo e del pavlovismo. Chiese pure consiglio a Ivan Pavlov sull’applicazione industriale dei riflessi condizionati per controllare il comportamento delle persone. Il concetto di uomo nuovo, che non compare in Marx, imponeva una disciplina ferrea che riduceva l’individuo ad un ingranaggio di concezione collettivista della società. L’autore spiega che il sistema di disciplinamento sociale consisteva in tre funzioni: neutralizzare ampi strati della popolazione subordinandoli al partito comunista, reprimere il pensiero critico e perseguitare i dissidenti, e indottrinare con una conformità ideologico-politica.

Comunismo e nation building

Il comunismo di matrice leninista ebbe fortuna anche in Asia e in Africa dove si incrociò col nation building. Tuttavia, ricorda Falanga, dare la colpa a Marx per i crimini del comunismo nel Novecento sarebbe come attribuire la Shoah a Friedrich Nietzsche. È indubbio però che il pensiero di Marx sia un bastione fondamentale nell’ideologia combinata alla ricerca della verità scientifica e del razionalismo puro che divenne compatibile con le intenzioni distopiche e liberticide dei tiranni comunisti. Quanto alla lotta di classe, per Marx era la lotta per la sopravvivenza di una classe rispetto all’altra, non tanto una lotta di classe che riguardasse la situazione del mercato del lavoro. «Il conflitto di classe non era risolvibile con riforme o misure di adeguamento salariale, perché ogni riformismo avrebbe potuto produrre solo miglioramenti passeggeri e ritardato la rivoluzione. Marx non pensava al superamento di determinate condizioni inique».

Comunismo buono e nazismo buono

Difatti, «solo il prevalere di una classe sull’altra avrebbe creato le condizioni per superare le classi e ripristinare un’esistenza umana non alienata». Falanga sottolinea che la criminalizzazione indiscriminata comunista nel Novecento è un atto ingeneroso. Ma se esiste dunque un comunismo buono, esiste un nazismo buono? La risposta è, ancora, no, ovviamente. Qui si apre tutto il dibattito su come il comunismo sia stato travisato e come molti comunisti abbiano sofferto del fatto che la loro ideologia era equiparata alle stragi staliniste. Falanga attribuisce parte del merito delle conquiste sociali del Novecento ai comunisti. Ad esempio, l’emancipazione femminile, l’espansione dei diritti civili, la decolonizzazione, l’antifascismo, l’antirazzismo. I «gravi errori di strategia, di natura ideologica e conseguenze degli orientamenti dettati da Stalin provocarono battute d’arresto e perdite pesanti, confusione e discontinuità, indebolendo il complesso della resistenza antifascista».

In America Latina e Africa il mito della rivoluzione bolscevica fu accolto come tentativo di liberazione dallo straniero. Il comunismo venne rappresentato come un concetto di indipendenza nazionale in funzione antioccidentale. In Africa attecchì dove le culture erano più a contatto con le tradizioni coloniali europee. «Se i nuovi regimi erano scettici verso il capitalismo, questi non si precipitarono nemmeno ad adottare il marxismo-leninismo, preferendo lavorare una propria dottrina, nella quale conciliare le idee socialiste con valori comunitari tradizionali». Tuttavia, gli anni Settanta in Congo, Benin, Guinea Bissau, Capo Verde, Madagascar, Etiopia, Angola e Mozambico scelsero la via del marxismo-leninismo come ideologia per la costruzione della nazione. Gran parte dei problemi che tutti questi paesi hanno oggi sono ascrivibili a questo approccio.

Rosa Luxemburg. Foto: Wikimedia Commons.

Dopo il collasso dell’Urss

Il collasso dell’Urss ebbe ripercussioni in tutta l’Africa, dove i regimi comunisti socialisti alterano la loro agenda politica dopo il 1989-1991. Nessun partito comunista africano o latino-americano scelse di abbracciare quello il cosiddetto Eurocomunismo. Ovvero un’utopica terza via tra socialdemocrazia e comunismo; una foglia di fico per occultare ambiguità e legami che i partiti comunisti occidentali avevano con Mosca anche in termini di finanziamento, pur protetti dall’ombrello della Nato. Oggi la memoria sugli eventi del comunismo è fonte di litigiosità nei Paesi ex comunisti. La propaganda autocratica russa, ad esempio, lavora alla presentazione di un’immagine di Paese circondato da potenze straniere. Ma lo Stato russo oggi non tace sui crimini sovietici. Vladimir Putin non è un nostalgico di Stalin. Il culto delle vittime tacendo i carnefici, tuttavia, è un’operazione volta alla creazione di un nazionalismo oltre la destra e la sinistra.

In Russia la Grande Guerra patriottica è un mito che rende tutti vincitori e rende agrodolce ancora oggi il comunismo a molti. Al contrario, in Germania c’è una coesistenza costruttiva delle memorie concorrenti, scrive Falanga. Ci sono oltre novecento siti di commemorazione dei crimini della Ddr. In conclusione, la soluzione migliore per approcciare il nazismo e il comunismo in Germania è l’utilizzo della formula di Bernd Faulenbach. Quella secondo cui i crimini di Stalin non ridimensionano quelli di nazisti e viceversa. Conclude Falanga: «Ogni memoria del passato è orientata dall’esigenza di conferirle un senso, un significato nel presente, […] riflettendo visioni valori che sono caratterizzanti per ogni comunità. […] Vi sono però considerevoli differenze nell’uso che fanno della storia le singole società […] nella gestione di memoria e concorrenti […], nella modalità di costruzione di paradigmi interpretativi e “verità ufficiali” e nella loro concreta funzionalità».

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