Storie dal confine: lettere da Damasco

Nella notte tra il 5 e il 6 febbraio 2023, due scosse di terremoto di magnitudo 7,8 hanno colpito la zona di confine tra la Turchia meridionale e il nord della Siria. L’evento calamitoso ha provocato oltre cinquantamila morti, di cui 44.000 accertati in Turchia e circa 6.000 accertati nella regione del Levante. I danni alle infrastrutture pubbliche e private, inclusi ospedali scuole e strade, sono incalcolabili. Le aree più colpite dal sisma, zone rurali, sono rimaste interamente isolate a causa dei danni alle vie di comunicazioni, rendendo ancor più complicato l’accesso a servizi di base come cibo, acqua e medicinali.

L’area più colpita dal terremoto in Siria è quella nordoccidentale, al confine con la Turchia.
Qui si trova la regione di Idlib, l’ultima roccaforte in mano ai ribelli delle fazioni legate ad
Ankara e in parte all’organizzazione jihadista Hay’at Tahrir al-Sham (Htc). L’area è abitata
da circa quattro milioni e mezzo di persone, metà delle quali sono sfollate da altre zone del
Paese a causa del conflitto civile. Altrettanto colpite sono state le zone controllate dai curdi nel nord-est della Siria e altre controllate dal regime, come quella intorno alla città di Aleppo, tornata sotto il controllo del regime sei anni fa, dopo la terribile offensiva russo-siriana, che l’ha lasciata in gran parte distrutta.

Fonte: liveuamap.

La crisi sanitaria in Siria svela un quadro drammatico all’interno del quale va letta la
travagliata storia di un Paese esasperato dalle tensioni sociali ed economiche seguite allo
scoppio della guerra civile del 2011. La storia recente della Siria è infatti una storia segnata da grande instabilità politica ed economica.

Nel 2011, la dura repressione delle manifestazioni pacifiche contro il governo di Bashar al-Assad da parte delle forze di sicurezza siriane è culminata in una guerra civile che ha dilaniato la regione del Levante per undici anni, causando la morte e l’esodo di centinaia di
migliaia di cittadini siriani e la creazione di gruppi terroristici come Isis e al-Qaeda. La posizione strategica occupata dalla Siria nello scacchiere politico ed economico mondiale ha determinato l’ingresso all’interno del conflitto di numerose potenze straniere, come Turchia, Iran e Russia, ciascuna con le proprie mire e i propri interessi sulla regione. Il conflitto civile ha così raggiunto dimensioni enormemente più vaste, con scontri su più fronti tra gruppi con agende geopolitiche divergenti nella regione.

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Nello specifico, la Russia si è impegnata in un massiccio intervento militare in Siria nel
2015, fornendo sostegno aereo e terrestre alle forze di Assad. L’obiettivo principale di
Mosca era consolidare il controllo del governo di Damasco sull’intero Paese e proteggere gli interessi russi in Medio Oriente. Questi interessi includevano, ma non si esaurivano, nel mantenimento della base navale di Tartus, l’unica base militare russa nel Mediterraneo, e nel sostegno al loro alleato Iran.

damasco
Foto: Bbc.

L’Iran, da parte sua, ha fornito aiuti economici, politici e militari al regime di Assad, guidato dall’ ambizione di espandere la propria influenza nella regione e di consolidare la propria posizione strategica contro Israele. Da non sottovalutare anche il desiderio del
governo di Ali Khamenei di utilizzare la guerra come pretesto per ampliare il suo sostegno
ai gruppi sciiti in Iraq e Yemen.

La Turchia, infine, da sempre opposta al regime di Bashar sl-Assad, ha sviluppato una
politica estera diversa dagli altri Paesi regionali, rivolta al consolidamento di legami con i
gruppi ribelli moderati, tra cui il Free Syrian Army (Fsa) con l’obiettivo di prevenire la
creazione di uno Stato curdo indipendente ai suoi confini, e parallelamente rafforzare la
propria presenza nella regione.

Oltre alle potenze soprammenzionate, a entrare in scena furono anche altre fazioni, tra cui
ribelli, e gruppi jihadisti come l’Isis, che finirono per esercitare la propria influenza su
diversi territori della regione, fino al 2017. In risposta all’ingresso nel conflitto civile da parte di potenze straniere filogovernative, alla vessazione e cruenta repressione perpetrata per dodici anni da Assad e dai governi a lui fedeli, e al suo coinvolgimento nell’uso di armi chimiche, l’Unione Europea e gli Stati Uniti diedero vita a un pacchetto di sanzioni internazionali volte ad isolare politicamente ed economicamente il governo di Bashar.

Alle misure varate dalla comunità internazionale nel 2011 si sono poi aggiunte quelle del
2020, con l’entrata in vigore della legge statunitense Caesar, volta a colpire qualunque
persona, azienda o istituzione faccia affari con il governo di Damasco, da loro ritenuto
illegittimo, o contribuisca alla ricostruzione del Paese. Le sanzioni internazionali hanno inevitabilmente aggravato la situazione economica già fortemente fragile della regione medio-orientale. Il combinato disposto dello scontro civile ha portato a un’emorragia economica senza precedenti per il Paese, con la perdita di gran parte della produzione industriale e agricola e una contrazione del Pil nazionale di circa il sessanta per cento rispetto ai livelli ante-guerra. L’embargo internazionale ha contribuito al crollo del
valore della valuta locale e alla riduzione della produzione di petrolio, da cui la Siria trae
gran parte del suo reddito, con il conseguente aumento dei prezzi di carburanti ed
elettricità.

Alla crisi economica si è poi infine sommata una profonda crisi umanitaria, con un
aumento esponenziale del numero di cittadini costretti a livelli di estrema indigenza e
privazione. Molti ospedali e centri sanitari, bersaglio degli attacchi russi, non sono più
operativi. Ragione per cui negli ultimi mesi un’epidemia di colera ha acquisito un grado di
pericolosità molto elevato per l’assenza di strutture e condizioni che ne possano limitare la
diffusione.

Tornando ad oggi, le misure finora adottate dal governo di Damasco per far fronte alla
crisi si sono rivelate insufficienti. L’isolamento sulla scena mondiale, sommato alla mancanza di coordinamento, all’inefficienza e alla corruzione sistemica nella distribuzione
degli aiuti e nella gestione dei fondi destinati alla ricostruzione, ha alimentato una sfiducia
dilagante nei confronti delle autorità governative.

Diverse inchieste condotte negli ultimi anni dal Center for Strategic and International
Studies (Csis) hanno rivelato la scomparsa di somme astronomiche destinate agli aiuti
umanitari in Siria e finite nelle tasche del regime. Secondo uno dei report, si stima che tra
il 2019 e il 2020 il governo siriano si sarebbe impossessato di circa cento milioni di dollari in aiuti umanitari provenienti da agenzie dell’Onu attraverso l’imposizione di un tasso di
cambio estremamente sfavorevole. Il governo di Bashar al-Assad si è dovuto così rivolgere ai suoi alleati, in un quadro di rafforzamento della cooperazione economica con altri Paesi della regione, in particolare Iran e Russia.

Nonostante le sanzioni, anche dal fronte occidentale, in risposta alla crescente domanda di
assistenza da parte della popolazione siriana, la comunità internazionale ha disposto
numerosi programmi di aiuto e sostegno umanitario. Questi aiuti si sono però dovuti
scontrare da un lato con la ferma opposizione di Assad, il quale, sullo slancio della propria
indipendenza politica, rivendica l’obbligo che tutti gli aiuti passino dal suo vaglio, denunciando le misure internazionali come un tentativo di minare la sovranità nazionale.
Dall’altro, devono fare i conti con le difficoltà fisiche di far pervenire gli aiuti alle zone più
colpite dal sisma.

Ad oggi infatti, dei quattro passaggi di frontiera esistenti nel 2014, solo uno è ancora percorribile, dopo la chiusura pretesa dalla Russia e dalla Cina di un valico in Turchia e di altri due in Giordania e Iraq. La situazione è particolarmente grave nel nord-ovest della Siria, il territorio controllato dai ribelli dove gli aiuti dell’Onu sono arrivati solo il 14 febbraio, quando una delegazione è entrata per la prima volta dopo il terremoto per valutare le necessità della popolazione duramente colpita dal disastro. Il giorno prima, il presidente siriano Bashar al-Assad aveva accettato di aprire altri due valichi di frontiera, Bab al-Salam e al-Rai, tra la Turchia e la Siria nordoccidentale, per un periodo iniziale di tre mesi, in modo da consentire agli aiuti di entrare nel Paese.

Foto: DW.

Il regime di Assad ha colto questa limitazione del meccanismo transfrontaliero come
un’opportunità per usare gli aiuti umanitari internazionali a proprio vantaggio e rafforzare
la sua base e le sue istituzioni, obbligando così le Nazioni Unite a riconoscere il suo potere
su tutto il territorio in modo da ottenere la tanto agognata legittimità internazionale.

La situazione in Siria rimane altamente instabile e complessa. Seppur il peggioramento
della crisi economica sembrasse aver ridotto il sostegno al governo, molti oppositori
temono che il terremoto possa rappresentare un’occasione d’oro per il regime. Assad, non nuovo a mettersi in scena al capezzale della sua popolazione, vorrà, secondo alcuni studiosi, tentare di utilizzare il terremoto per distogliere l’attenzione dagli abusi, dagli omicidi e dalla repressione, e dall’incapacità cronica di fornire servizi e soddisfare i
bisogni più elementari di nove milioni di siriani che vivono sotto il suo controllo. Il quadro sociale e politico siriano risulta ulteriormente esasperato per via delle molte
potenze regionali e internazionali che continuano a sostenere i propri interessi, lungi dal
voler trovare una soluzione al conflitto. Le speranze di una pace duratura nella regione
dipendono dalla capacità degli attori regionali e internazionali di trovare un compromesso che risolva le questioni chiave, come la formazione del futuro governo di Damasco e la riduzione del coinvolgimento straniero nella regione.

Resta da vedere quale potrà essere il ruolo degli Stati Uniti, alleati dei curdi in Siria, e
come reagirà la Turchia, che da mesi minaccia un’invasione nel nord della Siria per
allontanare i profughi siriani dal suo territorio. Gli interrogativi sono ancora molti e gli equilibri labili, in un momento storico molto delicato per il Medio Oriente e in una stagione che vedrà presto la chiamata alle urne per i cittadini turchi nelle elezioni presidenziali e parlamentari di maggio.

Tutto questo mentre i due Paesi devono fare i conti con i propri morti e le proprie macerie,
nel tentativo di ricostruire passo dopo passo una fiducia che sembra essere stata colpita in
maniera ugualmente profonda dal terremoto.

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