Storia del pensiero filosofico: Pitagora

Cominciare, cominciare, cominciare. È una bella responsabilità, ma da qualcosa bisogna pur muoversi. Certo, non lo si può negare: cominciare così bruscamente può essere un’esperienza quasi ferale, certamente triviale. Ma non è la vita stessa, ad esserlo? Non siamo un po’ tutti qui per questo? Da qualcosa bisogna pur muoversi, dunque, ma poi bisogna anche andare verso qualcosa d’altro. Tracciare un percorso, per così dire. Ecco, qui si traccia la storia del pensiero filosofico. Niente di serio, però: questa storia non sarà mai troppo rigorosa, né troppo becera. Si tenterà di spiegare qualcosa, questo sì.

Ai più attenti di voi, cari venticinque lettori, non sarà sfuggito che il ritratto che vedete in queste pagine è quello di Pitagora. E, d’altronde, la speranza è che questa vi sembri una mossa più che lecita. Questo che tenete tra le mani, d’altra parte, è il primo numero di The Wise e, che si sappia, Pitagora fu il primo in tutta una serie di cose: utilizzò forse per primo il termine “filosofo”, fu tra i primi vegetariani della storia e intuì per primo l’importanza dei numeri, strumento attraverso cui si preoccupava di leggere la realtà. Andiamo però con ordine.

«Non so di nessun altro uomo che abbia avuto altrettanta influenza nella sfera del pensiero».
B. Russell, Storia della filosofia occidentale, Vol. I, p. 56.

La figura di Pitagora è tra le più suggestive di tutta la filosofia greca. Il suo pensiero si diffuse in tutto il mondo antico, tanto da ispirare Platone e i suoi successori. Come spiega Russell:

«Ciò che appare come il platonismo si trova già, analizzandolo, nell’essenza del pitagorismo. L’intera concezione di un mondo eterno rivelato all’intelletto, ma non ai sensi, deriva da lui. Se non fosse per lui, i Cristiani non avrebbero pensato a Cristo come al Verbo; se non fosse per lui i teologi non avrebbero cercato prove logiche di Dio e dell’immortalità. Ma in lui tutto ciò è ancora implicito».
B. Russell, ivi.

Proprio come Gesù Cristo e Socrate, Pitagora non scrisse mai nulla, e le notizie sulla sua vita sono confuse e poco affidabili. Per ricostruire la sua personalità possiamo soltanto rifarci a ciò che gli antichi, primo fra tutti Aristotele, ci hanno detto di lui.

Pitagora nacque a Samo, un’isoletta del Mar Egeo poco lontana dalla Turchia, probabilmente verso il 575 a.C. Le testimonianze narrano che fu allievo diretto di Anassimandro – a sua volta allievo di Talete, primo filosofo e fisico che la storia abbia mai conosciuto – e che compì diversi viaggi tra l’Egitto e il Medio Oriente. Fu così che conobbe la sapienza di egizi, persiani, caldei, ebrei e indiani. Non vi è alcuna certezza riguardo a questi viaggi, anche se ci sono notevoli punti di contatto tra la sua filosofia e l’orfismo, religione nata in Grecia attorno al VI secolo a.C. che ruotava attorno al culto del poeta tracio Orfeo. È notizia attendibile, invece, quella secondo cui, attorno ai quarant’anni, Pitagora lasciò Samo – forse a causa delle inimicizie con il tiranno Policrate, forse per paura dell’invasione persiana, forse ancora per lo scarso successo che la scuola da lui aperta riscuoteva sull’isola – ed emigrò in Magna Grecia, a Crotone, dove in quegli anni per importanza brillava particolarmente la scuola medica di Alcmeone. È qui che Pitagora fondò la sua scuola, che ebbe un grande sviluppo, godendo anche dei favori riservati dal governo aristocratico della città.

La figura di Pitagora divenne leggenda presso i suoi studenti, che lo vedevano come un dio: secondo la leggenda, il suo nome risalirebbe etimologicamente alla perifrasi “annunciatore del Pizio” (epiteto, quest’ultimo, del dio Apollo). Frutto di un miscuglio di storie, esagerazioni e leggende, le numerose biografie dedicate a Pitagora lo descrivono come un uomo fuori dall’ordinario: discendente degli dei, in grado di compiere miracoli e di realizzare profezie, dotato persino di virtù taumaturgiche. Sul piano scientifico, invece, non possiamo attribuire a Pitagora alcuna teoria: le dottrine astronomiche dei pitagorici, infatti, furono probabilmente sviluppate dai suoi discepoli nella seconda metà del V secolo a.C. Molto legati ai sacerdoti e ai governi degli aristocratici, nel tempo i pitagorici acquistarono un peso politico più che rilevante nelle pòleis della Magna Grecia. La tradizione racconta di una sommossa popolare, avvenuta a Crotone, in cui i democratici incendiarono la casa dove erano riuniti i maggiori esponenti della scuola. Pitagora, per alcuni, si era da tempo ritirato a Metaponto, dove era morto prima della rivolta. Per altri, assente per un caso dalla riunione, riuscì a fuggire a Metaponto, dove morì tra il 497 e il 490 a.C.

Quanto ai pitagorici, c’è da dire che la loro era una comunità religiosa e politica caratterizzata, quello sì, dai forti interessi scientifici. Pitagora è pur sempre stato il primo matematico “puro” che la storia abbia conosciuto. La scuola era aperta a tutti, sia donne che stranieri, ma era davvero dura superare l’apprendistato e seguire tutte le regole che disciplinavano la vita di un pitagorico. Bisognava infatti, fra le altre cose, rispettare gli dei, non mangiare carni né fave, essere fedeli agli amici, non spezzare pani né attizzare il fuoco col metallo, non indossare lana né anelli e non raccogliere ciò che era caduto. Soprattutto, era necessario mantenere il silenzio più assoluto. Divulgare informazioni al di fuori degli adepti poteva costare anche la morte. Ippaso di Metaponto, per esempio, fu cacciato – e forse anche ucciso – per aver divulgato informazioni riguardo le grandezze incommensurabili, cioè non misurabili con numeri interi e razionali.

Ciò che Pitagora insegnava non era mai messo in discussione. Più che un insegnamento, infatti, era una vera e propria rivelazione divina: autòs èpha, ipse dixit, «lo ha detto lui». I discepoli erano divisi in acusmatici – ossia semplici ascoltatori – e matematici, i quali invece potevano anche porre domande e ricevevano insegnamenti avanzati. Pare che i primi mantenessero un interesse ben più vivo per la parte spirituale e misterica della setta, e che gli altri fossero invece maggiormente dediti alla sophìa. Proprio questo, più di ogni altro aspetto, distingueva la setta dai culti misterici dell’Oriente: per l’orfismo, ad esempio, la purificazione delle anime tramite metempsicosi doveva passare per delle pratiche misteriose, invece che attraverso il sapere com’era uso nella scuola crotonese.

Ma cos’è che Pitagora insegnava? Questo non è semplice da stabilire. Quando si affrontano le teorie pitagoriche, infatti, va sempre tenuto in considerazione il fatto che quelle di cui si parla sono teorie più volte rielaborate dalla cosiddetta “seconda generazione” del movimento, operante tra il V e il IV secolo a.C. Aristotele, quando nella Metafisica descrive la posizione dei pitagorici sul problema dell’archè, non distingue tra ciò che può essere attribuito a Pitagora stesso e ciò che invece è una rielaborazione successiva.

Per i pitagorici, afferma Aristotele, archè (la forza primigenia che ha dato origine a tutto) è il numero. Ora, bisogna concedere che questo è quantomeno bizzarro, a prima vista. Per autori come Talete o Anassimandro l’archè è un elemento fisico come l’acqua, o un’idea metafisicamente interessante come l’àpeiron (ossia l’infinito, qualcosa di non osservabile ma teorizzabile per induzione); ma perché, invece, Pitagora sceglie i numeri? Per i pitagorici, questo val la pena chiarirlo, il numero è qualcosa di concreto. I numeri sono grandezze spaziali, raffigurate tramite configurazioni ordinate di punti, aventi un’estensione e una forma.

Questo basta a spiegare come i pitagorici poterono scorgere nei numeri gli elementi fondamentali di cui tutte le cose sono costituite. La scelta, però, resta di fatto inusuale. Insomma, diciamolo, è ben più semplice scorgere dell’acqua e immaginare che questa sorregga l’universo, o fissare l’orizzonte e immaginare che sia da quell’infinito che si scorge che tutte le cose vengono, piuttosto che regolare l’universo su delle cifre ottenute spostando dei ciottoli. Da dove nasce tutto questo interesse per i numeri? Non è assurdo pensare che nasca dall’interesse per l’armonia musicale.

Stando a quanto racconta Massimo Donà in Filosofia della musica (Bompiani, 2006), infatti, il filosofo, mago e scienziato Pitagora rimase colpito dal modo in cui i martelli battevano sul metallo, producendo suoni diversi che si accordavano tra loro. Scoprire dunque, tramite un monocordo, i rapporti tra armonia musicale e numeri, permise – ancora una volta per induzione – di immaginare che i numeri e l’armonia fossero gli elementi costitutivi dell’universo, proprio come accadeva con la musica. E in effetti gli anni, i mesi, le ore e i cicli dello sviluppo biologico seguono un tempo che viene regolato da numeri. Come già detto, quella dei pitagorici era una vera e propria setta, con tanto di regole morali da rispettare, e in questa dimensione contestualizzare cosa rappresentasse la scienza matematica è necessario. Bisogna notare che il numero permette una certa intelligibilità della realtà. I numeri permetto di misurare e ordinare la natura. La matematica diventa così, per i pitagorici, un mezzo per conoscere profondamente la realtà, in un senso mistico che andava oltre la visione meramente scientifica. Se quindi la natura si modella sui numeri, cosa pensare delle opposizioni che esistono in natura? Certamente devono venir ricondotte a delle opposizioni tra numeri. Ora, l’opposizione numerica fondamentale è quella tra pari e dispari. Pari è un numero che può essere diviso in due parti, entrambe pari o entrambe dispari. L’unica eccezione è costituita dal numero uno, detto “parimpari” poiché capace – se sommato a un altro numero – di farlo diventare se pari dispari, se dispari pari.

Notevoli poi sono le varie corrispondenze magico-religiose riscontrabili tra i numeri e i fenomeni della vita: il numero parimpari simboleggia l’intelligenza, immobile e identica a se stessa; il due l’opinione, che oscilla verso diverse posizioni; il quattro e il nove, quadrati del primo numero pari e del primo numero dispari, la giustizia; il cinque il matrimonio, in quanto unione del primo pari e del primo dispari; il sette il tempo critico, in riferimento a periodi particolarmente cruenti della vita umana come il parto settimino, il cambio dei denti a sette anni, la pubertà a quattordici e la maturità a ventuno. Il dieci è, per finire, il numero perfetto: ottenuto dalla somma dei primi quattro numeri, contiene ugualmente il pari e il dispari. Dieci sono anche le opposizioni fondamentali: limitato/illimitato, pari/dispari, uno/molti, destra/sinistra, maschio/femmina, luce/tenebra, buono/cattivo, immobile/mobile, retta/curva, quadrato/rettangolo. Su queste spinte disgregatrici si fonda così l’armonia della natura, armonia che è legge dell’universo e che si esprime al meglio nella musica, modello dell’armonia universale. Pitagora fu allora il primo, forse, a chiamare l’universo kòsmos, termine che significa originariamente “ordine”.

In conclusione, al netto delle difficoltà storiche che sorgono nel tentare di descrivere la dottrina di Pitagora, quel ch’è certo è che i pitagorici furono i primi a rendere razionalmente comprensibile l’universo. C’era sì il mistero tipico delle influenze orientali, ma c’era anche qualcosa di più: l’idea di leggere l’universo attraverso i numeri. E c’era anche una visione del cosmo caratteristica, ereditata da Platone: una visione della vita dedicata al sapere da cui poi Aristotele riprenderà il decimo libro dell’Etica Nicomachea. Tutte caratteristiche, queste, che hanno segnato indelebilmente la storia del pensiero filosofico.

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