Presenza: l’elemento che rende reali i mondi virtuali

«Ogni fatto reale, per quanto obbedisca a proprie, immutabili leggi, ci appare quasi sempre incredibile e inverosimile. E quanto più è reale, tanto più talora ci appare inverosimile».

La citazione di Dostoevskij è estremamente attuale; nella sua semplicità si dimostra facilmente applicabile a contesti diversi tra loro: partendo dalla carta stampata, prendendo in considerazione racconti e romanzi, passando per qualsiasi tipo di media divenuto di comune utilizzo nell’ultimo secolo, fino ad arrivare ai nuovi media come i videogiochi e più in generale la realtà virtuale con il concetto di presenza; ogni tipo di produzione umana mira a coinvolgere il fruitore. Si è portati a credere che, per aumentare il grado di coinvolgimento del lettore, dello spettatore o del giocatore, si debba rendere l’opera verosimile, il più somigliante possibile alla realtà. Ma tale tendenza spesso non si rivela efficace; raccontare la realtà non è sufficiente e potrebbe addirittura rivelarsi controproducente per il coinvolgimento del fruitore.

Con il termine bovarismo si definisce una tendenza della seconda metà dell’Ottocento: gli artisti vedevano nella lettura un mezzo per svincolarsi dalla realtà, per fuggire dalla monotonia della vita di provincia, abbandonandosi alle esperienze narrate che, pur essendo irreali, risultavano essere meno deludenti della realtà. Anche il concetto di bovarismo è facilmente estendibile:nel tempo, in quanto tale tendenza sembra attualmente diffusa, e negli altri media, in quanto ormai non solo i lettori cercano una fuga dalla realtà, ma, in forma diversa e talvolta più accentuata, anche gli spettatori e i videogiocatori.

Non a caso è sempre più diffuso il dibattito sulla sospensione dell’incredulità, in qualsiasi tipo di opera. Anche in questo caso si sta facendo riferimento a un carattere semiotico tutt’altro che attuale: l’espressione è stata coniata da Coleridge nel 1817.

«[…] venne accettato, che i miei sforzi dovevano indirizzarsi a persone e personaggi sovrannaturali, o anche romanzati, e a trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione del dubbio momentanea, che costituisce la fede poetica.»

Ma si trovano riferimenti già secoli prima, con Shakespeare.

«Sarà così la vostra fantasia
a vestire di sfarzo i nostri re,
a menarli dall’uno all’altro luogo,
saltellando sul tempo,
e riducendo a un volger di clessidra
gli eventi occorsi lungo diversi anni;»

Ebbene, la sospensione dell’incredulità è un atteggiamento volontario del fruitore. Dovrebbe essere compito del narratore accompagnare l’utente alla sospensione della sua incredulità, piuttosto che rincorrere la realtà e la verosimiglianza, poiché quest’ultimo è già predisposto a sacrificare parzialmente la logica e la credibilità per il bene del divertimento. Chiaramente è indispensabile mantenere sempre e comunque una coerenza interna, per quanto il contesto possa essere surreale.

Verosimile e inverosimile, bovarismo, sospensione dell’incredulità, sono facce molteplici dello stesso poliedro, fattori che contribuiscono a definire la discussione riguardo il coinvolgimento del fruitore. Una discussione eccessivamente trascurata in un campo in cui dovrebbe essere fondamentale: la realtà virtuale immersiva.

Realtà virtuale immersiva.

Si definisce realtà virtuale immersiva quel tipo di sistema tecnologico grazie al quale l’utente si immerge nel mondo virtuale con la maggior parte dei suoi sensi. L’ambiente virtuale è spesso tridimensionale e interattivo, e viene fruito tramite Head Mounted Display (HMD).

Questo tipo di innovazione è al centro di molti dibattiti in quanto potrebbe rivelarsi dirompente ed entrare in modo capillare nelle abitudini quotidiane di tutti gli esseri viventi. Eppure spesso i dibattiti si limitano a considerare gli aspetti tecnici di questo tipo di tecnologia, o, per meglio dire, quei fattori che rendono i mondi virtuali il più possibile simili alla realtà. Tali fattori, oltre a quelli meramente tecnici, si riassumono nelle cosiddette tre I: immaginazione, interazione e immersione. In particolare l’immersione è al centro dell’attenzione, soprattutto per quanto riguarda il coinvolgimento dei sensi in modo, appunto, verosimile. Ecco quindi fiumi di parole, articoli scientifici e ricerche sulla latenza degli HMD, sulla risoluzione degli schermi, sulla qualità dei modelli tridimensionali e così via.

«Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello. Questo è il mondo che tu conosci.»

La citazione di Matrix è indicativa di come, nel nostro immaginario, la riproduzione della realtà sia riconducibile alla mera percezione e alla condizione fisiologica del cervello.

A mancare, tuttavia, è l’attenzione al concetto che riassume e fa convergere tutti i fattori appena descritti in un unico, grande, e ancora non ben definito elemento: la presenza.

In generale, la presenza fisica corrisponde all’esistenza di un oggetto in specifiche coordinate spazio-temporali, mentre la presenza soggettiva rappresenta la sensazione, la percezione di essere nella stessa regione spazio-temporale in cui si verifica un determinato evento. È proprio la presenza soggettiva l’elemento che rende reali i mondi virtuali.

Si prenda ora in considerazione questo video. Un semplice video promozionale di High Fidelity, la nuova società fondata da Philip Rosedale, già creatore del celebre Second Life. High Fidelity è uno spazio virtuale multiutente realizzato appositamente per essere compatibile con gli HMD e tutti gli strumenti di realtà virtuale immersiva. High Fidelity non è un’esperienza definita e costruita, è piuttosto uno spazio in cui ognuno può costruire le proprie esperienze, oltre a interagire in modo immersivo e multisensoriale con gli altri utenti.

Ebbene, nonostante High Fidelity rappresenti una delle realtà più innovative per quanto riguarda l’attenzione alla verosimiglianza delle informazioni sensoriali — soprattutto l’udito, ovviamente la vista, ma anche il tatto — quel video in particolare potrebbe ricordare classici ambientazioni di giochi di ruolo, ma soprattutto uno: Zork.

Zork è una serie di videogiochi, una cosiddetta avventura testuale. Un gioco sviluppato per mainframe alla fine degli anni ‘70. Incredibilmente attinente e utile in questa analisi perché, nonostante sia null’altro che una serie di messaggi testuali bianchi su sfondo nero, scambiati con una macchina, riesce a dare un senso di presenza pari se non superiore a quella di alcuni videogiochi o esperienze come High Fidelity. Nel video di High Fidelity viene presentata un’ambientazione che è molto simile a una presente in uno dei primi Zork. La questione su cui riflettere è proprio questa: in Zork quell’ambientazione non è “presente”, non c’è nessun disegno, nessuna immagine, nessun suono, essa viene solo descritta e vengono date indicazioni tramite punti cardinali e altre semplici informazioni di questo tipo. Ma l’utente è solo di fronte allo schermo nero e l’unico mezzo che ha per immergersi nel mondo di Zork è il suo cervello, la sua immaginazione. L’unico modo per coinvolgere l’utente in questo tipo di avventura testuale è la presenza, impossibile contare sul coinvolgimento immersivo dei sensi, impossibile interagire con strumenti tecnologicamente avanzati.

Zork, come altri giochi di ruolo testuali, avendo una forte mancanza per quanto riguarda strumenti e interfacce che contribuiscono all’immersione classica, riesce a coinvolgere l’utente costruendo un senso di presenza soggettiva tale da trasmettere la percezione di una regione spazio-temporale, nonostante quest’ultima sia descritta solo tramite testo. Molto più simile a un libro che a un videogioco, dovrebbe essere al centro della discussione sulle nuove tecnologie della realtà virtuale, dovrebbe calibrare il dibattito affinché ci si possa concentrare sugli elementi che contribuiscono a dare un senso di presenza soggettiva più che di immersione, elementi che permettono di sospendere l’incredulità dell’utente, di risvegliare quella tendenza a fuggire dalla realtà per sognare e vivere in un mondo surreale ma meno deludente di quello reale, in pieno stile Madame Bovary.

La ricerca è scarsa, ma non è assente in questo ambito, si pensi ad esempio alla recente tesi di dottorato di Dustin B. Chertoff, Exploring Additional Factors of Presence, in cui l’autore definisce l’esperienza come qualcosa che può essere articolato, definito e schematizzato nella mente di una persona. Esperienze profonde, quindi, creerebbero, secondo Chertoff, memorie più forti in modo tale da rendere più facile l’immagazzinamento di nuove informazioni. Tale ricerca è molto vicina alla teoria elementale della presenza di Kent Bye, che definisce quattro tipi di presenza, una per ogni tipo di elemento: l’aria è la presenza sociale, che consiste nello scegliere attivamente di interagire con altre persone in un’esperienza virtuale; l’acqua è la presenza emozionale, uno stato che evoca una risposta emozionale nell’utente; la presenza incarnata corrisponde alla terra, riconoscere l’esistenza del proprio corpo all’interno del mondo virtuale; il fuoco è invece la presenza attiva, uno stato immersivo conseguente all’utilizzo di strumenti e dispositivi nel mondo virtuale.

La teoria elementale della presenza.
La teoria elementale della presenza.

Quale sia lo scopo di queste ricerche e la meta finale delle evoluzioni tecnologiche riguardo la presenza e più in generale la realtà virtuale è intuibile: creare delle esperienze virtuali perfettamente identiche alla realtà, anzi, migliori di quest’ultima. Ma nel momento in cui questo scopo sarà completamente raggiunto, quale sarà lo scenario? Forse ne avremo un assaggio nel 2018:

«Nel 2045 non c’è nessun posto dove andare, nessuno. A parte l’Oasis.»

Si apre così il trailer di Ready Player One, il film di fantascienza distopico di Steven Spielberg in uscita a Marzo 2018. Basta questo breve video per comprendere tutti i rischi di spingere così tanto sulla presenza, sul migliorare un mondo virtuale per coinvolgere l’utente affinché preferisca il mondo virtuale a quello reale. Uno scenario distopico, certo, ma allo stesso tempo ancora molto lontano dallo stato attuale. Starà a noi decidere se vorremo raggiungerlo.

 

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