Il paesaggio nelle arti: dalla sudditanza all’autonomia

Secondo il dizionario, con la parola paesaggio si intende «Parte di territorio che si abbraccia con lo sguardo da un punto determinato. Il termine è usato in particolare con riferimento a panorami caratteristici per le loro bellezze naturali, o a località di interesse storico e artistico, ma anche, più in generale, a tutto il complesso dei beni naturali che sono parte fondamentale dell’ambiente ecologico da difendere e conservare». Un’idea di paesaggio, allora, semplicemente come quella di un panorama, di uno scenario la cui bellezza è necessario preservare.

Tuttavia, questa definizione non tiene conto di quale sia la funzione della presenza antropica, la quale determina l’esistenza stessa del paesaggio – e che in questo modo lo rende diverso rispetto al “bel panorama”. Il paesaggio è infatti funzionale alla scoperta del sé, tramite la quale l’uomo percepisce il senso di essere cosa altra rispetto a ciò che vede e da cui deriva la consapevolezza del peso che ha il suo agire in rapporto alla natura. Se è vero da un lato che alla visione di un medesimo soggetto corrisponde una varietà di percezione, è pur vero dall’altro lato che si creano immagini condivise che da soggettive diventano collettive e che determinano l’appartenenza a una medesima cultura. In questo senso si fa evidente che la cultura sia uno dei fatti possibili della natura e che entrambe sono emozionalmente funzionali all’uomo in virtù della sua autocoscienza e della sua capacità di farsi spettatore del mondo. In questo lo spettatore non solo lo abbraccia con lo sguardo, ma ne fa un’esperienza completa, assorbita da tutti i sensi, mappa lo spazio che da sconosciuto gli si rende riconoscibile, si associa dentro di lui a ulteriori immagini, gli si fa familiare. A questo proposito infatti James Hillman scrive: «Se non viviamo un paesaggio non possiamo sapere dove siamo, siamo fuori del cosmo, fuori posto, soli, in nessun luogo e dunque non siamo nessuno […] in ogni paesaggio ci sono una psiche, un’anima, le nostre anime». In questo senso bisogna tenere presente che ogni cultura ha una sua grammatica e una semiotica propria rispetto a ogni singolo paesaggio.

È chiaro quindi che nel parlare di paesaggio bisogna tenere presente che esistono delle differenze dettate non solo dal tempo ma anche dalla collocazione geografica che spesso determina una differenza culturale importante: un occidentale davanti a una distesa desertica avvertirà uno sgomento del tutto estraneo al nomade che con quelle immagini si rapporta costantemente. Così lo spazio si fa luogo di appartenenza.

L’uomo medievale non era in grado di astrarsi dal territorio circostante. Nelle sue rappresentazioni la natura viene considerata o in subordinazione alla storia in primo piano e alla narrazione di questa stessa, o solo nel suo livello simbolico, senza quindi la necessità di una coerenza tra gli elementi che lo compongono.

paesaggio simbolico dell'arte medievale
Ravenna, mosaico absidale di Sant’Apollinare in Classe, VI secolo.

Diversamente è accaduto invece nell’arte cinese, quando a partire dalla dinastia Tang i paesaggi furono uno dei motivi principali dell’arte pittorica. Nel V secolo nacque la shan shui, la pittura cioè delle “acqua di montagna”. In questa cultura la presa di coscienza della natura come elemento autonomo rispetto alla presenza umana è avvenuta prima che in quella occidentale. Il taoismo ha infatti enfatizzato la consapevolezza della piccolezza dell’uomo in rapporto alla maestosità della natura.

paesaggio cinese del V secolo
Dipinto shanshui di Mr IP Chit Hoo.

In Europa invece non è un caso che il termine sia comparso nel XVI secolo, sul modello del francese paysage. È proprio nel Cinquecento che nasce la rappresentazione del paesaggio svincolato dalla pittura di storia. Fino a quel momento il suo ruolo all’interno delle arti figurative era esclusivamente secondario, relegato a funzione di sfondo o decorazione al margine di affreschi e altre pitture murali. Nel Seicento poi si assiste allo sdoganamento della pittura paesaggistica soprattutto in Olanda, con Rembrandt, ad esempio, o Hans de Jode, poiché successivamente alla Riforma protestante era stata arginata la committenza ecclesiastica e dunque ampliata la varietà di soggetti rappresentabili.

rappresentazione di paesaggio del 1600
Rembrandt, Il ponte di pietra, 1638. Rijksmuseum, Amsterdam.

Da questo punto in poi la pittura paesaggistica va differenziandosi in generi diversi. Si ha quindi il paesaggio eroico o classico, il cui esponente principale è Poussin, quello di fantasia di Marco Ricci, ad esempio, fino al capriccio, genere pittorico paesaggistico ispirato dall’irrazionale con l’accostamento irrazionale degli elementi reali o immaginari, la rivisitazione di rovine classiche e l’inserimento di macchiette.

 paesaggio tramite capriccio architettonico
Charles-Louis Clerisseau, Capriccio architettonico con il Colosseo – Parigi.

Dall’Ottocento in poi il paesaggio diventerà uno dei temi fondamentali della pittura europea fino a diventare strumento di transizione all’astrattismo e al cubismo.

Anche nella fotografia la veduta paesaggistica cambia. Tra Settecento e Ottocento la principale teorizzazione del paesaggio, il pittoresco, diede ai suoi seguaci una serie di norme estetiche e convenzioni con cui valutare le immagini paesaggistiche. La maggior parte dei pionieri della fotografia era dilettante e nei loro scritti il paesaggio viene assunto come principale spunto dei loro esperimento fotografici.
In tempi più recenti, invece, il paesaggio diventa testimonianza e la testimonianza viene adoperata come denuncia. Nel 1984 in Italia si pongono le basi per quella che sarà la Scuola Italiana di Paesaggio. Principale esponente è Luigi Ghirri che con il progetto Viaggio in Italia tenta di rendere ai fruitori un’immagine quanto più possibile reale del nostro paese, con un processo di rappresentazione che accantona il cliché dell’Italia come locus amoenus mostrandone anche le sue debolezze, i punti in cui è fallace, in cui esistono accanto alle bellezze imprescindibili, anche luoghi di provincia e città deserte.
Anche la fotografia di Gabriele Basilico si basa pressoché sui medesimi presupposti. Lui stesso riporta:«Penso che lo spazio urbano, sottoposto a una trasformazione accelerata nel tempo senza precedenti, si presenti come una vera e propria metafora della società, uno scrigno ricchissimo di indizi sulla vita contemporanea, che merita di essere osservato con grande attenzione». Il superamento di questa idea di fotografia di paesaggio, invece, è quello fatto da Ottomanelli, i cui lavori svolgono una duplice funzione: dal un lato la fotografia del paesaggio urbano si rende elemento indispensabile per la costruzione di nuove città, dall’altro invece è strumento tramite il quale queste stesse possono essere salvaguardate.

Baghdad Zoo, Antonio Ottomanelli.
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