Gli articoli precedenti
1. Come nasce il capitalismo agroalimentare
2. Modernizzazione agricola: «Io sono l’Italia!»
3. Per una questione di economia e tecnica agraria
L’agricoltura in un paese rurale e poco industrializzato come l’Italia della prima metà del Novecento si prende carico dello stentato sviluppo economico del paese, ma non solo. Il suo valore sociale diviene strategico e centrale per la conquista del consenso popolare – e soprattutto contadino – per i due regimi totalitari nati dalle ceneri lasciate dal primo conflitto mondiale: quello comunista in Russia, e quello fascista in Italia. L’agricoltura durante il fascismo si pone come filo conduttore rispetto alle azioni del passato nel tentativo di modernizzazione, ma con una novità: la possibilità e la capacità di trasmettere l’immagine di un regime forte e capace di rispondere alle problematiche rurali del paese, con il forte contributo della cinematografia. La battaglia del grano intrapresa dal regime a partire dai primi anni Venti del Novecento è rappresentativa di un’intera politica agraria e nazionale, che ha lasciato un’eredità all’agricoltura – non solo italiana ma anche mondiale – capace di rispondere ai problemi che sarebbero occorsi nella seconda metà del secolo, e che è tangibile anche ai giorni nostri.
L’agricoltura come strumento politico
Il bilancio agricolo nell’immediato dopoguerra è a dir poco rovinoso: le ingenti emigrazioni verso il nuovo mondo causate dalle crisi degli ultimi decenni di fine Ottocento e le perdite umane dovute alla Grande Guerra portarono a una forte diminuzione di manodopera in agricoltura (nonostante rimase il settore che più dava lavoro ai cittadini). Questo fu il principale fattore che influenzò il drastico calo della produzione italiana di frumento (il cereale maggiormente coltivato nella penisola), che nel giro di sei anni (1913-1919) diminuì da 57 milioni di quintali a 37. Diretta conseguenza di ciò fu logicamente l’aumento delle importazioni di grano che toccarono nel 1921 i 28 milioni di quintali, con un’incidenza variabile tra il 50 e il 60% sul valore della bilancia commerciale. Mentre alle porte della guerra le importazioni e le esportazioni riuscivano a pareggiarsi, nel 1919 il rapporto era rispettivamente di cinque a uno. Incombeva sempre di più la necessità di aumentare le rese agricole, fino ad allora prerogativa delle sole cattedre ambulanti, che si prendevano carico della diffusione di nuove tecniche di coltivazione e di sperimentazioni in campo di nuove possibili varietà di cereali, di cui si aveva particolare bisogno. In più, la piena consapevolezza emersa con l’Inchiesta Jacini dell’enorme diversità climatica e geografica del bel paese poneva ulteriori limiti alla massimizzazione produttiva, e alla stesura di una politica agraria comune a tutto il paese che tenesse conto di questa diversità, determinante oggigiorno per la reputazione estera del made in Italy. La fase liberista del governo Mussolini non aveva portato a molto di positivo se non alla possibilità per la popolazione di acquistare i beni primari a un prezzo accettabile. Nel 1925 i ministri delle finanze e dell’economia nazionale fautori dell’iniziale apertura commerciale del Regno d’Italia (Alberto De Stefani e Cesare Nava) furono sostituiti. Nello stesso anno, il 25 giugno alla Camera dei Deputati, Benito Mussolini tenne un discorso con il quale dichiarò formalmente guerra al grano straniero. Iniziò in quel momento la Battaglia del Grano e con essa tutta una serie di politiche in linea con la tendenza mondiale di isolamento e protezionismo commerciale. Infatti, già in tempi di guerra nella patria del liberismo economico (l’Inghilterra) si percepivano motivi d’isolamento: nel 1915 vennero istituiti di diritti sull’importazione per risparmiare spazio sulle navi e garantirsi entrate per finanziare la guerra. Questi dazi non furono tuttavia aboliti finita la guerra, anzi, vennero potenziati. Nel 1921 per proteggere settori strategici e vitali dell’industria inglese vennero imposti dazi doganali del 33,3% sul valore dei prodotti importati.
La battaglia del grano consistette fondamentalmente nel perseguimento della sovranità e dell’autosufficienza alimentare, per la quale venne istituita un’apposita commissione che si occupò dei concorsi, mentre le tariffe doganali relativamente al grano nel 1924 si alzarono a 7,50 lire al quintale. Di primaria importanza per il raggiungimento di tale obiettivo furono l’aumento del rendimento unitario medio per ettaro, l’aumento della superficie coltivabile, e la diffusione di nuove tecnologie e mezzi con cui aumentare la produzione. L’aumento della superficie coltivabile venne perseguito in due modi: tramite le campagne colonialiste in Etiopia e in Libia, e tramite le bonifiche di terreni paludosi e inutilizzabili. Dalle bonifiche nacquero nuovi centri urbani soprattutto nell’Agro Pontino, e i terreni ottenuti vennero redistribuiti tra i reduci di guerra, essenzialmente quelli provenienti dalla bassa veneta. I risultati ottenuti con il primo concorso per la vittoria del grano – in cui veniva assegnato un premio in lire agli agricoltori più produttivi – furono motivo sufficiente per ripetere il bando negli anni a venire. Nel 1924 il premio di 36.000 lire fece partecipare più di mille agricoltori distribuiti su cinquanta provincie del Regno, e l’anno successivo la produzione media di grano aumentò di circa 5 quintali per ettaro. Il vero salto produttivo nella coltivazione di frumento si ebbe quando entrarono in uso le varietà ibridate da Nazareno Strampelli. Aumentare le rese di grano significava cercare di limitare i danni da ruggine (un fungo patogeno), da allettamento (ossia la pianta che ricade verso il basso dopo un’eccessiva crescita), e siccità. I frutti del lavoro di Strampelli furono varietà contenute in altezza, sufficientemente resistenti ai funghi e precoci. Furono il risultato di vent’anni di lavoro e selezioni, dopo aver riesumato gli studi di Mendel e riscoperto di conseguenza la legge di disgiunzione dei caratteri nella seconda generazione. Queste varietà ottenute e impiegate per combattere il grano straniero furono estremamente importanti per due motivi: il primo fu l’impressionante aumento delle rese di tali grani, che nel 1934 toccarono e superarono i 70 quintali per ettaro (decretando la vittoria, risultante in un periodo di autosufficienza alimentare per quanto riguardava il frumento); il secondo fu l’adattabilità di tali varietà ai diversi microclimi italiani. Infatti, le varietà ottenute da Strampelli (il Mentana, l’Ardito, il Gentil Rosso e l’Edda) furono rispettivamente impiegate con successo in pianura, collina, altopiano e fondo valle. In più, la precocità di tali grani contribuì non solo alla possibilità di raccogliere prima e seminare una coltura intercalare per ottenere un secondo raccolto, ma anche alla lotta alla malaria – a cui si iniziò a porre rimedio con le bonifiche – in quanto ridusse l’esposizione degli agricoltori alla zanzara vettore della malattia.
Durante la battaglia del grano furono emanati numerosi provvedimenti per sostenere l’agricoltura nazionale, oltre a quelli a sostegno della granicoltura. In primis l’uso e la diffusione di trattrici per le lavorazioni meccaniche del suolo (aratura, dissodamento) fu sostenuto da un fondo a esse dedicato, nonché dall’istituzione di premi per la motoaratura e l’uso e l’istallazione di linee elettriche. A sostenere il primo tentativo di meccanizzazione dell’agricoltura ci fu inoltre l’esenzione dal pagamento del dazio doganale per il petrolio destinato all’uso agricolo. Dal settore chimico invece giunsero in soccorso dell’agricoltura gli studi compiuti dall’ingegnere Giacomo Fauser, il quale riuscì a sintetizzare artificialmente l’ammoniaca nel 1921 (essenziale per fertilizzare il terreno). Risultato importante, considerando che il brevetto della sintesi di ammoniaca era gelosamente custodito dalla Germania (Haber-Bosch, 1908). In seguito Fauser entrò in società con la Montecatini, catalizzando una sempre maggiore diffusione in agricoltura di concimi chimici incentivata dallo Stato. Durante i primi anni della battaglia del grano, i complessi associativi come la Federconsorzi si preoccuparono di fornire agli agricoltori i nuovi mezzi meccanici e chimici di produzione, soprattutto provenienti da aziende come la Fiat e la sopracitata Montecatini. In seguito alla crisi del ’29 ci fu un nuovo impulso di protezionismo, questa volta però riguardante il flusso di capitali (il commercio mondiale, come abbiamo già avuto modo di mostrare, era già pervaso da ogni tipo di dazio e tariffa all’entrata). Il lungo processo di autarchia e di emancipazione dall’estero fu completo, e Federconsorzi acquistò sempre di più un ruolo centrale nella nuova economia nazione, dalla distribuzione degli alimenti, alla gestione delle importazioni e degli ammassi, un’attività in stretta relazione con il settore bancario, incaricato di pagare in anticipo la somma che Federconsorzi avrebbe devoluto agli agricoltori partecipanti agli ammassi.
La situazione di chiusura nei confronti del mercato estero favorì soprattutto i produttori nazionali, ma non i consumatori, su cui gravò l’onere di pagare di più il pane rispetto alla situazione precedente ai dazi. Più nello specifico, la modernizzazione della granicoltura influì nella diminuzione di manodopera impiegata. Sommando a ciò l’opera di “sbracciantizzazione” voluta da Mussolini (che rese i braccianti talvolta proprietari terrieri, talvolta disoccupati), il lavoro nelle campagne stava progressivamente diminuendo, e così aumentava la densità di popolazione nei centri urbani. Le aziende dotate prevalentemente di manodopera anziché di fattori di produzione moderni si concentravano esclusivamente sui prodotti per l’esportazione – spesso sussidiati – come colture orticole, uva da tavola e vino. È in questo contesto produttivo che talune colture vengono progressivamente abbandonate, come il luppolo, tornato a essere coltivato solamente negli ultimi anni. Contrariamente a quanto appena detto, durante il ventennio fascista venne intensificata la coltivazione della barbabietola per l’estrazione dello zucchero, con l’introduzione di un’importante novità: il pagamento del bene non era più in funzione del suo peso ma in funzione del suo titolo zuccherino. Il numero di zuccherifici aumentò significativamente e non tardarono a organizzarsi in consorzi. Anche il consumo pro capite aumentava, e a giovarne fu tutta la filiera. Curioso è il doppio contributo dato dalla produzione di zucchero: da un lato il suo ovvio uso alimentare, dall’altro l’uso del prodotto di scarto dell’estrazione (la melassa) da cui si poteva estrarre alcol etilico per la produzione di esplosivi.
«La cinematografia è l’arma più potente»
La vittoria della battaglia del grano fu possibile anche grazie all’uso strumentale che si fece della cinematografia. I cinegiornali erano quotidianamente impegnati nel racconto di come procedeva l’agricoltura nazionale, diventata oramai non solo mezzo per lo sviluppo economico del Regno ma anche simbolo della superiorità italiana nei confronti dell’estero, simbolo di una nazione capace di autodeterminarsi in ogni suo aspetto. Come tuttavia spesso accade, il cinema non fa altro che da specchio per le allodole. I progressi dell’agricoltura italiana furono notevoli, ma ben lungi dal raggiungere anche solo i livelli delle maggiori potenze mondiali prima della guerra. Inoltre, la polarizzazione e la profonda differenza tra nord (all’avanguardia nelle tecniche agricole e sufficientemente industrializzato) e sud (ancora profondamente rurale e legato alla tradizione latifondista) non venne cancellata. Bisognerà sopportare un’altra guerra per ricevere il giusto impulso – senza coercizione – allo sviluppo dell’agricoltura italiana e per poter intravedere una certa omogeneità nella produzione agricola e nell’organizzazione aziendale. Impulso che sarebbe arrivato sotto forma di aiuto internazionale noto come European Recovery Program, più conosciuto come piano Marshall.
I dati numerici e alcune informazioni relative alle politiche fasciste in granicoltura sono tratte da La battaglia del grano, Giovanni Gualtieri, Longo Editore.