Le puntate precedenti:
1. Mama Africa – le origini africane del blues
2. Sinful tunes: il blues afroamericano tra ribellione e rassegnazione
3. La guerra di secessione, il blues dall’emancipazione alla segregazione
4. Da che era Folk: come il blues divenne pop(ular)
5. Chicago: il blues Urbi et Orbi
6. Contaminazione: la vera storia del blues
Steve Ray Vaughan – per i fan anche semplicemente SRV – è stato oggetto già durante la sua breve seppur sfolgorante carriera di una vera e propria adorazione da parte di un pubblico vastissimo e alquanto eterogeneo sia per nazionalità sia per cultura musicale. Il ruolo di Steve Ray Vaughan nella storia del blues può essere analizzato sotto aspetti tra di loro contrari: da una parte si può sezionare il modo in cui Vaughan era visto e percepito dal pubblico e quindi la relazione di Vaughan con la cultura blues preesistente, dall’altro lato della barricata si può analizzare il modo in cui Vaughan, nella veste di artista, ha portato un rinnovamento in senso commerciale ancora prima che musicale o estetico in sé per sé.
L’analisi di Vaughan che sarà affrontata in questo articolo parte proprio da quest’ultimo aspetto, ovvero come Vaughan abbia gettato le basi del modo di lavorare di artisti come John Mayer e Joe Bonamassa, che al giorno d’oggi sono indubbiamente i nomi di punta del blues contemporaneo. Per ‘modo di lavorare’ cosa si intende? Innanzitutto è necessario partire da un presupposto e cioè che mentre Vaughan calcava i palchi più blasonati del pianeta l’industria musicale si avviava a grandi passi verso la cosiddetta “rivoluzione digitale” – che però Vaughan non vide mai essendo morto nel 1990 – in sostanza l’industria musicale e il modo di lavorare (quindi le relazioni tra le varie professionalità del settore) di Vaughan e dei suoi contemporanei sarebbero stati la base da cui poi l’industria musicale ed i bluesman contemporanei sono effettivamente partiti una volta superato lo shock del digitale. In definitiva l’analisi del successo commerciale di Vaughan è un’analisi dei punti cardine su cui lui – ed i suoi contemporanei – basavano la loro vita lavorativa e quindi del contesto in cui album come Texas Flood prendevano vita.
In principio c’era il posto fisso
L’espressione posto fisso si usa in genere per definire una posizione lavorativa che, almeno dall’esterno, non mostra di essere precaria o di essere soggetta a brevi termini in senso puramente temporale e in genere viene associata a una certa sicurezza economica e conseguente libertà. Nell’industria musicale, negli anni in cui Steve Ray Vaughan percorreva in scioltezza i vari gradi di successo fino alla fama mondiale, il posto fisso poteva essere rappresentato dal contratto con la major, ovvero da un contratto discografico con una delle case discografiche più grandi.
Di solito questi contratti comprendevano (e spesso questi aspetti si ritrovano anche al giorno d’oggi) una durata alquanto lunga nel tempo, spesso per cinque anni o di più, a cui faceva da contropartita una richiesta produttiva molto elevata da parte della casa discografica in questione: spesso si trattava di un album all’anno a cui a volte si aggiungevano uno o più singoli al di fuori dell’album a fini puramente promozionali. Inoltre questo genere di contratti regolava nella maggior parte dei casi anche il lavoro live dell’artista, predisponendo accordi con aziende del settore della musica live controllate dall’etichetta con cui si stringeva il contratto. In ultimo, spesso anche i diritti di immagine, gli endorsement e le attività promozionali e la scelta del manager erano fortemente vincolati.
In una situazione del genere si trovò anche Vaughan a partire dal 1987, quando la casa discografica Epic Records venne acquistata dalla Sony (una delle sei major all’epoca insieme a Universal, EMI, PolyGram, BGM e Warner). Vaughan si trovò ad essere in un certo senso la “vacca grassa” del blues dei suoi tempi, dato che il genere da qualche anno era sprofondato in una crisi commerciale senza precedenti e Vaughan era stato capace di rilanciarlo senza quasi rendersene conto.
Lo stile
I motivi per cui Vaughan ebbe un successo enorme non sono solamente musicali in senso stretto, ma afferiscono anche alla sfera prettamente commerciale, la quale comprende l’immagine dell’artista e il modo in cui quest’ultimo si presenta e intrattiene relazioni con i media e il pubblico di riferimento.
Vaughan era riuscito a conquistare in tempo relativamente molto breve un mercato che era dato per moribondo – se non ritenuto del tutto estinto in alcuni casi – e lo aveva portato alla ribalta facendogli conoscere un periodo di intensa espansione, durante il quale il blues ritornò nelle classifiche di Billboard a testa alta. Di conseguenza le generazioni di artisti blues cresciute a partire dagli anni Ottanta e Novanta hanno trovato in Vaughan un punto di partenza ma soprattutto di riferimento.
Steve Ray Vaughan è sempre stato descritto e percepito come il classico stereotipo del texano (all’interno degli Stani Uniti) e come una perfetta rappresentazione dell’americano medio (all’esterno degli Stati Uniti); questo però non voleva dire solo cappello e stivali da sceriffo’, bensì per la sua audience Vaughan aveva tutta una serie di movenze, di cadenze nel modo di parlare e modi di dire peculiari che erano talmente veritieri ed espressi in modo naturale da non lasciare dubbi nemmeno al pubblico europeo o giapponese sul fatto che davanti a loro si stesse esibendo un autentico texano.
Non vi è dubbio che Vaughan fosse del tutto ignaro delle logiche del marketing che regolavano la percezione delle sue performance presso il pubblico, ricordiamo infatti che per ammissione dello stesso Vaughan la sua formazione come musicista era stata del tutto informale: Vaughan non aveva seguito un corso di studi canonico per un chitarrista elettrico, cosa non ancora comune all’epoca, tantomeno aveva ricevuto una formazione in materie come il marketing o la promozione musicale. Pertanto, il Vaughan che si presentava al pubblico era uno Steve Ray Vaughan “senza falle” nello storytelling, tutt’al più poteva esservi una qualche indicazione dei suoi manager nei confronti dello staff che curava il suo modo di apparire (dagli stilisti ai truccatori) in modo che Vaughan apparisse con determinati tratti più marcati e riconoscibili di quanto già non lo fossero nel privato.
Steve Ray Vaughan: the aftermath
Lo stile di Vaughan doveva quindi apparire nudo e crudo al suo pubblico in modo da assicurare il massimo impatto in termini di credibilità dal punto di vista del modo in cui si comportava sul palco e con i media. Il modo in cui Vaughan si comportava sul palco subì qualche modifica durante gli anni finali della sua carriera, soprattutto nel modo di vestire che passò da uno stile texano nudo e crudo a un look quasi da star hollywoodiana: lo si può notare dai numerosi video dei suoi live più famosi in cui spesso indossa delle giacche disegnate sullo stile degli haori giapponesi, sebbene abbinati al suo riconoscibile cappello in stile texano, ovviamente in tandem con gli stivali di foggia identica. Per quanto riguarda invece la parte squisitamente comportamentale delle performance, si può ragionevolmente affermare che lì i cambiamenti siano stati minimi nel contenuto, interessando più marcatamente la forma in cui Vaughan si esprimeva. Vaughan si era infatti costruito fin dai primi concerti una solida reputazione da guitar hero, in ragione dei numerosi e variegati trick che era solito mettere in scena e che fecero di lui uno dei chitarristi più amati anche dal pubblico non strettamente blues. Ricordiamo infatti che Vaughan ha costruito il suo nome negli anni Ottanta, periodo in cui il virtuosismo e gli eccessi erano condizione necessaria all’immagine del chitarrista.
Tra i trick più noti di Vaughan ne ricordiamo soprattutto quelli ispirati al suo chitarrista preferito e mentore cioè Jimi Hendrix, da cui – oltre ad aver appreso molto in termini di stile e suono – ebbe modo di attingere anche dal punto di vista della performance in sé: Vaughan era solito – nel bel mezzo di assoli già cominciati – suonare la chitarra da posizioni per nulla convenzionali, come dietro la schiena o dietro la nuca. Non mancano gli episodi in cui (almeno sembra) abbia suonato la sua First Wife con i denti o con la lingua, e quelle occasioni cui Vaughan ha cambiato il proprio strumento nel bel mezzo dei suoi lunghi assoli a causa di una corda rotta in corso d’opera, suscitando fantasiosi paragoni con Paganini in alcuni dei suoi seguaci. Tutti questi comportamenti sono stati esasperati nell’ultima parte della sua carriera, e visto il successo mediatico di Vaughan, possiamo affermare con certezza che la strategia abbia funzionato.
Le conseguenze di questo stile, inteso come modo di porsi e suonare e quindi risultato di scelte di marketing prima ancora che di suono o composizione, si riflettono in modo evidente nel blues contemporaneo: gli esempi di John Mayer e Joe Bonamassa, richiamati in apertura a questo articolo, sono solo due degli eredi di Vaughan che risultano più influenzati dalle sue pratiche e in seconda battuta da una industria musicale che nel campo del blues ha riscoperto un potenziale mediatico e commerciale proprio grazie a Vaughan.
Bibliografia
Come nel caso dell’articolo precedente è opportuno dire che al momento, per quanto sappia chi scrive, non ci sono testi che affrontino la figura di Steve Ray Vaughan dal punto di vista esposto nell’articolo. Il motivo per cui si è deciso di affrontare questo lato più prosaico di un artista molto amato dal pubblico è quello di dare uno spunto per riflettere sui propri gusti musicali in un’ottica più completa, e a tale proposito si consiglia The Death and Life of the Music Industry in the Digital Age, di Jim Rogers, che affronta i cambiamenti dell’industria musicale e l’impatto che questi hanno avuto sugli artisti a partire proprio dall’era Vaughan.