Scrittore non è chi compie l’atto di scrivere

«Scrittore è colui il quale fatica a scrivere più degli altri». Thomas Mann ha condensato in una sentenza la problematicità del sentirsi scrittore, dell’essere scrittore e dell’atto dello scrivere. Una questione che ci si augura sia volontariamente taciuta dai più: significherebbe che almeno la maggior parte degli scrittori emergenti o presunti tali, intimamente possiede la coscienza di non essere una delle nuove promesse della letteratura contemporanea, ma solo sperimentatore o dilettante. Non che l’essere un dilettante possieda necessariamente una connotazione negativa, anzi. Non si intende svilire né quella funzione della scrittura coltivata intimamente, praticata in maniera sistematica e sporadica, né la figura di chi la pratica.

Ciò che si intende fare è ricordare che non tutti i lettori sono anche dei grandi scrittori, e che non sempre la quantità di materiale che si legge influisce sulla qualità di ciò che si produce. Sicuramente influisce sulla qualità del pensiero che si formula – da quello che nasce spontaneamente a quello che si configura come analisi, ricerca, spasmo e violenza verso il raggiungimento di una qualche verità. Qualcuno risponderà che questa distinzione è naturale, qualche altro che è sintomo di mancata elasticità ragionare per compartimenti stagni. Attenzione, allora: innanzitutto gli scrittori talentuosi possiedono in genere anche una vasta cultura letteraria e non solo. In secondo luogo questa è una generalizzazione e in quanto tale è suscettibile di eccezioni. Non si scredita nemmeno la cultura al sensibile che si coltiva con la lettura, né quell’ampliamento nel campo emozionale e intellettuale che si raggiunge per suo tramite. Solamente, non è il semplice atto della stesura di una produzione a rendere scrittori. Ciò che definisce lo scrittore è la dignità del lavoro, indiscutibilmente. 

Il problema ha una pluralità di sedi in cui gettare radici. In primo luogo il tempo che viviamo è dominato da una serie di status symbol, e tra questi non è sfuggito il libro, non è sfuggita la penna. L’abitudine a mostrare ciò che si possiede – anche internamente – ha determinato in qualche modo quella sfrenata corsa allo sfoggio, condotta con ogni mezzo e a qualsiasi compromesso. L’accesso a internet ha condizionato per certi versi la capacità di autocritica, del tutto impunemente. Il social network è diventato quel luogo in cui ognuno ha la capacità di rendersi qualcuno e la sua mimesi con la figura alla quale aspira è facilitata da altri utenti. Essendo loro stimolati dai feedback positivi che ricevono, quegli altri si ritrovano invasi da critici, opinion maker, politicanti, economisti e immancabilmente scrittori. Così si assiste a quella ricerca spasmodica del termine perfetto, al ricorso più o meno giustificato di alcune forme di ironia, allo spam compulsivo di tutto ciò che si produce, nel tentativo di creare quella fascinazione che aggrada e conduce al consenso. Ma non è il rapimento, non è questa fascinazione – per definizione irrazionale – il fine ultimo dello scrittore, al limite dello scrivente. 

La mercificazione di tutti gli aspetti della vita quotidiana ha comportato quella che il critico Guy Debord definì già nella metà del Novecento come «la società dello spettacolo […] che ha la funzione di far dimenticare la storia nella cultura».

A questo si ricollega la seconda sede del problema, che riguarda gli antecedenti eccezionali. Che in età adolescenziale Rimbaud abbia scritto il suo primo poema, purtroppo per tutti, non significa sempre che con dedizione e impegno saremo in grado di riprodurre qualcosa di similare. Si potrà giustamente controbattere: perché no? L’invito, di contro, è quello a porsi un’altra domanda: perché sì? La scrittura quindi è permeabile o ermeticamente sigillata? In questo caso la scrittura indaga e descrive ciò che appare notevole. Di qui la volontà di costruire un proprio personaggio sofferto, dimenticato, extraumano, soprasensibile, che incarni del tutto lo stereotipo di genio e sregolatezza, il cliché dell’intellettuale sottovalutato. Ma esiste un momento secondo, in cui la scrittura di genio, quella reale, capovolge la situazione: è lei stessa a decretare ciò che è degno, ciò che è notevole, arrivando alla maturazione del pensiero che non è l’esperienza ad essere esclusiva, ma la sua percezione. Bravura risiede anche nel non dare scampo a percezioni del tutto scorrette.

«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi».
Arthur Rimbaud.

scrittore
La macchina drogata, Vincenzo Agnetti.

Coloro i quali hanno la presunzione di scrivere per gli altri solitamente sono anche avvezzi al libro, ne hanno esperito la cultura. Ogni libro vero contiene dentro sé stesso un elemento rivelatore, si fa veicolo di una qualche parvenza di verità. Scrivere un libro non è mai un atto autoreferenziale, non può prescindere dal rispetto che si deve avere nei confronti del lettore. L’invito a questo punto è quello a porsi le giuste domande: ciò che ho scritto merita la lettura? Merita il tempo del mio lettore? Quello che dico veicola davvero un messaggio nel modo giusto? Mi sto realmente ponendo al servizio delle parole che utilizzo? O ne mortifico il senso per un mero esercizio stilistico, una discutibile assimilazione di me stesso ad un ideale di scrittore che ancora non posso incarnare?

«Cogito ergo sum, ergo scrivo, ergo mi autopubblico, ergo mi autoleggo e chi s’è visto s’è visto. Stringi stringi: che bisogno c’è dell’editore? Mi pubblico io. Che bisogno c’è del lettore? Mi leggo io». Massimiliano Parente.

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