Noi: il secondo horror sociale di Jordan Peele

Jordan Peele torna al cinema dopo il successo dell’esordio Get Out con Noi (Us). Il regista afroamericano arriva da una decennale esperienza nella televisione come comico, attraverso i programmi di sketch Mad Tv (2003-2008) e Key & Peele (2012-2015), ad esempio, e porta questa vena nel suo cinema horror. Elementi orrorifici si mescolano ad altri di satira, ricordando una certa tradizione fortunata degli horror anni Settanta e degli zombie romeriani di La notte dei morti viventi (1968), citato esplicitamente come spunto da Peele per Get Out e riutilizzato poi in Noi. Se l’operazione di Get Out ebbe tanta risonanza, fu a causa dei riconoscimenti ottenuti in uno spazio insospettabile per questo filone di genere, cioè gli Oscar: il film ha vinto anche il premio per la miglior sceneggiatura originale. Pur essendo un horror, aveva dalla sua parte un’apprezzata critica all’ipocrisia del liberalismo post-Obama, quindi un commento sul recidivo razzismo statunitense che notoriamente piace all’Academy. Peele con Noi, però, si fa più ambizioso, smascherando altri tipi di ingiustizie che stanno nel fulcro incancrenito degli Stati Uniti, quali – ad esempio – il divario sempre più profondo tra ricchi e poveri. Moltiplica però i piani di lettura attraverso l’uso del doppelgänger, passando dall’evidente punto sociale ad un più generale riflesso psichico.

La società americana come “zombificata”

All’origine della storia di Noi c’è un episodio di infanzia. Nel 1986 la piccola Adelaide (nelle vesti infantili è Madison Curry, in quelle adulte è Lupita Nyong’o) è in vacanza con i genitori nelle spiagge californiane di Santa Cruz. Il matrimonio sembra traballare, presentare delle crepe, la bambina si tiene alle spalle dei genitori nel Luna Park locale. Si allontana ed entra in una vecchia funhouse, una casa dei divertimenti, dove nell’ala degli specchi incontra la sua doppelgänger, che le sorride malignamente. Questo evento segna indelebilmente la psiche di Adelaide, che pare non essere più la stessa, causando la preoccupazione dei genitori. Conserva un turbamento solo apparentemente sepolto e che riaffiora nella vita adulta quando, ormai fattasi una sua famiglia, va con il marito Gabe (Winston Duke, Black Panther) e i due figli al mare di nuovo a Santa Cruz. Adelaide avverte una minaccia incombente, presagisce che il suo doppio si ripresenterà, ma le cose andranno ben oltre il suo vago presentimento. Peele passa dal filone dell’invasione domestica (come Madre!, tra i più recenti), dunque nel luogo protetto per eccellenza, il privato, all’invasione di massa e pubblica, rifacendosi per alcuni aspetti a quella zombie, come accennato. La società di Peele infatti è invasa da un esercito di doppelgänger dei singoli individui, i quali si sono uniti in un intento di rivoltamento verso i propri originali, dopo una vita asservita e di povertà negli ambienti del sottosuolo. Significativo è il rimando, già dalla prima scena di reportage televisivo, all’evento di beneficenza realmente accaduto nel 1986, Hands Across America, dove per quindici minuti sei milioni e mezzo di statunitensi si unirono in una catena umana, i cui fondi, circa quindici milioni di dollari, andarono ai più poveri e ai senzatetto. Gli sviluppi di Noi restituiranno poi l’evento con una curiosa, sinistra rielaborazione, a metà tra la mimesi dell’evento e un accenno a Thriller di Michael Jackson, presente anche nel ricordo d’infanzia di Adelaide nella maglietta-gadget. Il divario sociale è ancora ben presente e lo stesso evento di beneficenza è spesso un azione marginale del borghese, una momentanea pulizia coscienziale, per poi tornare alla solita realtà di benessere recintato e inaccessibile.

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Il figlio Jason è interpretato da Evan Alex. Rilevante è l’uso della maschera nel confronto con il doppio, che ricorda una discesa in sé attraverso usi rituali. Foto: vanityfair.com

Nel “luogo protetto”, infatti, c’è la coscienza americana della middle-class, non più soltanto bianca, ma comprendente anche la parte nera arricchitasi. Il luccichìo dei beni regna sovrano: il marito Gabe, ad esempio, è emblema di un’attenzione per lo status, per i propri possedimenti e per quel che ancora però non si ha, nell’eterna erba più verde del vicino, che ha una macchina più bella e una residenza più lussuosa, in un circolo di brama senza soddisfazione definitiva. Basterebbe questo livello per rilevare un primo discorso di copie, di doppi: ancora prima del confronto angosciante con un clone ostile di sé, c’è il relazionarsi con gli altri, che implica già un’omologazione, una volontà di essere come loro, passando per quello che hanno e che pare indice di benessere. Tale società è già di per sé ossessionata dalla propria immagine, attraverso i mille riflessi digitali, e dalla maniera di deformarla e manipolarla per avere il risultato più appetibile o piacente, lasciandosi dietro uno sgradito rimosso che lentamente erode la coscienza per eruttare poi, come accade nell’incubo di Noi. Tutto è rivolto all’accettazione di un sistema dominante, dove gli stessi scontri tra originali e doppi sono all’insegna dell’ottenimento di un posto al sole. Dunque non si tratta di una vera e propria rivoluzione del sistema, soltanto di una sostituzione che, significativamente, è tra due poli indistinguibili. Peele punta ad un continuo discorso di richiami, di aspetti speculari, tra coincidenze e simbolismi. La società di Noi è già riassunta nella scena dei titoli di testa, dove lentamente la macchina da presa zooma dal particolare al generale, mostrando un intero quadro di conigli bianchi identici, ognuno nella propria gabbia (un uso simbolico del coniglio curiosamente non nuovo nelle recenti uscite cinematografiche, pensando a La favorita). Il titolo originale Us infatti gioca sul doppio significato di “noi” e di United States: non a caso i doppelgänger, alla domanda sulla loro identità, rispondono con piglio ironico: «Siamo americani». Gli zombie di eco romeriana allora si possono rintracciare non solo nei movimenti e nell’incapacità di parlare se non per disarticolati versi dei tethered – traducibile come “gli incatenati”, ovvero i doppi in questione – ma anche nella dimensione sociale che non risparmia nessuno, nella letargia, nella scarsa consapevolezza che caratterizza anche la classe privilegiata. L’etimologia della parola “zombie” ha una derivazione incerta, ma tra le possibilità delle fonti si ammette che possa risalire al creolo zonbi, che nella religione vudù indica una persona privata della propria anima, addormentata e rispondente agli ordini di uno stregone-padrone. La malìa dominante qui sono appunto i falsi idoli consumistici. Ciò è strettamente connesso al ricorrente riferimento nel corso del film al versetto 11:11 di Geremia, dalla Sacra Bibbia. Il Signore, adirato contro gli idolatri, dice a Geremia:

«Ecco manderò su di loro una sventura alla quale non potranno sfuggire. Allora leveranno grida di aiuto verso di me, ma io non li ascolterò; allora le città di Giuda e gli abitanti di Gerusalemme alzeranno grida di aiuto agli dèi ai quali hanno offerto incenso, ma quelli certamente non li salveranno nel tempo della loro sciagura. Perché numerosi come le tue città sono i tuoi dèi, o Giuda; numerosi come le strade di Gerusalemme gli altari che avete eretto all’idolo, altari per bruciare incenso a Baal».

Il riferimento al numeroso nel contesto di Noi può ricordare proprio l’affanno per la quantità proprio del sistema capitalistico statunitense e dei suoi modelli.

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Lupita Nyong’o nei panni dell’Adelaide “privilegiata”. Foto: theverge.com.

Oltre al principale e più evidente sottotesto sociale, però, non può mancare quello psicologico, che spesso accomuna tutta la tradizione del doppio, dalla letteratura al cinema (ad esempio nell’espressionismo tedesco). Lo sviluppo di Us, dove ogni dinamica tra originale e copia ha le sue precise caratterizzazioni a seconda della personalità, non può che far pensare, nella fluidità tra bene e male, al famoso legame tra il dottor Jekyll e il signor Hyde che alberga in ognuno di noi. Il conflitto e la lotta per la sopravvivenza, come di norma, fanno sopraggiungere abilità di difesa e di conservazione che uniformano gli istinti e persino i versi animali tra originali e copie. Anche la fotografia, nutrita spesso di contrasti dualistici tra una fazione di personaggi e l’altra, ricorda la frequente riduzione a un dualismo non solo morale, ma anche politico. Quest’ultimo è comune, ad esempio, alle divisioni nette dell’era di Trump e a cui lo stesso Peele ha pensato esplicitamente durante la preparazione del film. In esso si può comprendere e integrare la rimozione di vasta parte della storia americana, delle origini di violenta appropriazione del continente ai tempi dei pioneri ai danni dei nativi americani e, dunque, più in generale, del sogno americano. Il rimosso identitario di Us passa dallo psicologico individuale al collettivo storico. Si tratta di oscurità profonde, accantonate come polvere sotto ai tappeti fino all’impossibilità di fuggire ancora, perlomeno, dalle proprie inquietanti ombre all’interno della gabbia ancora ferrea.

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