Charles Manson sullo schermo: da Tarantino a Mindhunter

La fascinazione per il male ha radici profonde nella storia della narrazione: ben prima dello shakespeariano Riccardo III, le tragedie e i miti greci raccontavano le gesta dei malvagi e degli eroi che li avrebbero sconfitti. Un cattivo era presentato per esaltarne gli aspetti negativi, educando lo spettatore a ciò che non bisognava fare. Nel Novecento viene man man meno questo valore pedagogico, in favore di una maggiore introspezione psicologica dei caratteri. Gli sceneggiatori moderni, affamati psicologi, si affannano nel districare le turbe e le emozioni dei personaggi più turpi della contemporaneità; tra questi, secondo solo a Hitler per fama, vi è Charles Manson. La sua storia, tragicamente legata a doppio filo con il mondo del cinema, è stata osservata e riportata in libri, film e serie tv, ha ispirato canzoni e artisti e recentemente è stata protagonista di due importanti progetti: la pellicola Once Upon a Time in… Hollywood di Quentin Tarantino e la serie Netflix Mindhunter.

Charles Manson
Sharon Tate e Roman Polanski.

Un’infanzia difficile e violenta porta Charles Manson a trascorrere i primi anni della sua vita in riformatorio e in carcere dove, oltre a sviluppare una passione per la musica, inizia a praticare riti esoterici e satanici. Uscito di prigione nel 1967, in pieno periodo hippie, grazie alle sue doti canore e alla sua forte influenza inizia a radunare intorno a sé una schiera di seguaci, giovani che vedevano in lui una guida e un messia. Gli omicidi non avvennero in realtà per motivi rituali o psico-magici, bensì per insabbiare un delitto precedente di un membro della banda: nel 1969, i membri della Family, su ordine di Manson, compirono una strage nella villa di Roman Polanski, assente poiché al lavoro su Rosemary’s Baby, uccidendone però la moglie e attrice Sharon Tate e altri quattro presenti. Il giorno seguente fu colpita la famiglia dell’imprenditore Leno LaBianca e, come nell’episodio precedente, gli assassini scrissero sui muri dell’abitazione scritte contro la polizia, per far ricadere così la colpa sui militanti afroamericani. Dopo mesi a piede libero, Manson fu processato grazie alla soffiata di un membro della banda, finendo in carcere, dove ha trascorso il resto dei suoi giorni fino alla morte, avvenuta nel 2017.

Gli ultimi due anni hanno visto una curiosa sovraesposizione del personaggio, forse in relazione alla sua recente scomparsa, in prodotti di punta: nel 2018 Mary Harron, regista di American Psycho, gira Charlie Says, pellicola che ha per protagoniste le giovani adepte della Family, mostrando gli eventi dalla formazione della setta fino ai processi. Nel film Manson viene interpretato da Matt Smith (Doctor Who, The Crown). Sempre nel 2018, in Bad Times at El Royale di Drew Goddard, la star Marvel Chris Hemsworth è Billy Lee, capo di un gruppo hippie che riprende per modi, aspetto e moventi il criminale statunitense. Nel 2019, invece, Manson è presente in due attesi progetti e, per caso, è interpretato in entrambi i casi da Damon Herriman. L’attore australiano, per la sua fisicità e somiglianza con il personaggio, ha catturato l’interesse di David Fincher, regista e produttore della serie Netflix Mindhunter, e di Quentin Tarantino per il suo ultimo lavoro Once Upon a Time in… Hollywood. Attraverso questi due interpretazioni, Herriman ha potuto mettere in scena Charles Manson in due diversi momenti storici: il suo apice come leader della Family e il suo periodo in carcere. L’approccio dei due prodotti è molto differente. Tarantino nel suo film ripropone scene, luoghi e personaggi della Los Angeles del 1969, tanto che Sharon Tate (Margot Robbie) è coprotagonista e vicina di casa dei personaggi principali, l’attore Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) e la sua controfigura Cliff Booth (Brad Pitt).

Charles Manson
Charles Manson in Mindhunter, durante l’intervista con gli agenti Ford e Tench.

Se il regista cult non si frena dal mostrare gli atti più famosi e turpi della vicenda, con esiti più o meno differenti, Fincher in Mindhunter fa tutt’altro: la caratteristica della serie è proprio quella di narrare e raccontare, più che far vedere. La coppia di agenti dell’FBI Holdem Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany) si occupa, nel 1977, di intervistare serial killer famosi e redarre una linea di profilazione, per aiutare il corpo di polizia nella cattura degli assassini. Tra le varie personalità incontrate nelle due stagioni spicca, nella seconda, quella di Charles Manson. Trattato come un mostro sacro e inavvicinabile dai protagonisti nella prima stagione, l’atteso incontro con l’ormai pazzo e malato leader della Family si svolge come un interrogatorio, che ricorda i delitti del 1969 e cerca di scavare nella psiche malata del criminale. Nonostante in entrambi i casi a Herriman fosse destinato un tempo limitato, la sua interpretazione in Mindhunter, esaltata da una maggior libertà data dalla componente puramente dialogica, trionfa su quella in Once Upon a Time in… Hollywood, più plastica e asservita alla trama.

In ogni caso presentato, la figura di Manson è presente a livello di impatto ma viene centellinata nel minutaggio, anche nei progetti a lui più largamente dedicati, come a volere solo scalfire la psicologia di una mente malata, a metà tra l’affascinante e il repellente, in maniera simile all’Hannibal Lecter di Anthony Hopkins, presente per pochi minuti nel capolavoro di Jonathan Demme Il silenzio degli innocenti, eppure così incisivo e iconico nella cultura popolare. Gli elementi che caratterizzano la storia di Manson lo inscrivono nella contemporaneità e nella storia, dal movimento hippie da lui tradotto in setta omicida alle canzoni dei Beatles trasformate in sbeffeggiamenti sui luoghi delle stragi; aggiungendo poi l’enorme charme che gli consentiva di raccogliere proseliti e i vaneggiamenti messianici su religione e apocalisse, è chiaro come una figura tanto complessa e contorta abbia attirato l’interesse di alcuni dei più grandi narratori odierni.

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