What a Mes | theWise incontra Paolo Pini

Il dibattito politico si sta concentrando sulle misure economiche necessarie per fronteggiare la terribile recessione che il coronavirus porta con sé. Termini come Mes, Eurobond, Recovery Fund hanno iniziato a risuonare nelle orecchie di tutti noi, e tanto il mondo politico quanto quello accademico sono divisi. Per raccontare gli schieramenti in gioco e provare a capire meglio quanto stia accadendo abbiamo inaugurato con la doppia intervista agli Onorevoli Fassina e Marattin la nostra rubrica sul tema della rinascita post-covid.

Oggi vi proponiamo un dialogo con l’economista Paolo Pini. Ordinario di Economia Politica e Economia del Lavoro e dell’Innovazione presso l’Università di Ferrara, già vicepresidente della Società Italiana degli Economisti, è tra i firmatari di alcuni degli appelli contrari al Mes e alle misure d’austerity che si son susseguiti in queste settimane. A theWise ha raccontato il suo punto di vista sulla crisi, l’Europa, il governo Conte.

Per un diverso parere: What a Mes | theWise incontra Michele Boldrin.

Partiamo dalla domanda che più ha risuonato sui media nell’ultima settimana: com’è andato l’Eurogruppo?

«È andato male, almeno dal punto di vista mio e dei tanti colleghi che speravano in scelte radicalmente diverse. In molti siamo intervenuti a dicembre specificamente sul Mes, e più di recente sull’emergenza coronavirus a marzo e aprile.

A fronte delle richieste che venivano fatte da diversi paesi – Italia, Francia e Spagna in primis – per una diversa politica economica e fiscale da parte delle principali istituzioni europee, si è deciso di non intervenire in modo comune come Europa per fronteggiare l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo e quella economica che purtroppo la accompagna.

Dopo le prime dichiarazioni della Lagarde che certo ricorderà, la BCE si è finalmente mossa. Ma la politica monetaria – lo diceva anche Draghi – interviene per una crisi di liquidità, per calmare gli spread, per far crescere l’inflazione, per il tasso di cambio: non necessariamente per problemi di insolvenza e non può essere sostitutiva di quella fiscale.

L’Italia ha già annunciato oltre 75 miliardi emergenziali in deficit che diventeranno debito, a cui bisogna poi aggiungere le famose garanzie di credito per le imprese. Questo significa che si emetteranno titoli che andranno sul mercato, e verranno comprati da soggetti istituzionali, dalle banche (che però hanno dei limiti precisi), e da privati. Ma tutti questi sono attori che giocano per guadagnare e i mercati finanziari – ricordiamolo – sono dei gran casinò dove si specula su tutto. L’Italia emetterà questa massa di titoli e lo stesso faranno i francesi, gli spagnoli, i portoghesi: questo porterà in sofferenza tutti i paesi coinvolti, e farà lievitare il famoso spread coi titoli tedeschi.

In un primo momento interverrà la Banca Centrale, che li acquista sul mercato secondario, ma questo aiuto non andrà avanti all’infinito. Senza contare che la BCE può acquistare secondo percentuali ben precise – la famosa capital key – legate agli assetti proprietari: se l’Italia detiene, poniamo, il quattordici per cento della Banca Centrale lei non potrà acquistare più di quella percentuale dei titoli italiani. Poi, in situazioni d’emergenza si fan deroghe, ma restano operazioni di breve periodo. Alla fine dell’anno le percentuali di cui sopra dovranno essere rispettate. Lo scenario è cupo».

Come si può affrontare allora questa situazione?

«Visto che la crisi sanitaria non colpisce noi diversamente dagli altri – ma gli effetti economici potranno non essere omogenei – l’unica cosa che l’Europa dovrebbe fare è intervenire affinché la BCE acquisti direttamente tutti i titoli di stato che ogni singolo paese emetterà per uscire dalla crisi. È una cosa strana? No, è quello che sta facendo la Federal Reserve americana, è quello che ha già annunciato la Bank of England, è quello che fà la Banca Centrale del Giappone.

In Europa non si può – le risponderà qualcuno – perché lo statuto della Banca Centrale lo vieta. Ma qua si arriva alla radice del problema. Quelle regole lo vollero soprattutto i tedeschi. In primis per garantire l’indipendenza della Banca Centrale- e fin quì ci può stare – e poi per evitare che si coprissero i debiti nazionali. È per questo stesso motivo che il nord Europa non accetta gli Eurobond, che pure sarebbero una soluzione. Parliamo di titoli di stato emessi dall’Europa nel suo insieme, garantiti dalla BCE, con tassi bassissimi e lunghissime scadenze.

Questa ostilità si spiega in due modi. Intanto hanno paura che questa scelta preluda a una condivisione di tutto i debiti nazionali – anche se si è detto in tutte le salse che questo provvedimento riguarderebbe solo le spese relative all’emergenza coronavirus. Poi ci sono interessi chiari: se viene emesso un nuovo titolo cambia il tasso d’interesse in termini relativi degli altri. Se la Germania paga da anni tassi pari a zero (se non negativi) sui suoi titoli di stato, con l’emissione degli Eurobond potrebbero pagare anche l’un per cento. Ma la divergenza dei tassi d’interesse va avanti da almeno dieci anni, e in un contesto di Europa unita come quello in cui ci troviamo provoca un enorme trasferimento di capitale dal sud al nord».

Molti suoi colleghi, però, dicono che questo vantaggio sia dovuto ad una gestione più oculata delle risorse da parte degli stati del nord.

«Il nostro bilancio pubblico è in avanzo primario da venti anni. Questo significa che spendiamo meno di quanto lo stata incassa con le tasse, altro che paese spendaccione. Il nostro debito cresce per via degli interessi.

Tutto questo, è ora di dirlo chiaro, succede grazie all’euro. Da venti anni sulla moneta unica alcuni perdono ed altri guadagnano, e il paradosso è che chi ne trae vantaggio continua a sostenere di star pagando per gli altri.

Gli Eurobond non sono un’idea nuova: li proposero Prodi e Quadro Curzio già prima della crisi del 2008, ma la Germania non li ha mai voluti».

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L’ex presidente della Commissione Europea Jean Claude Junker visita la sede del Mes | Fonte: Mes.

Torniamo all’Eurogruppo. Perché non la convincono le misure prese?

«L’Olanda – che è mandata avanti dalla Germania come prima della classe, anche se è un paradiso fiscale che vive grazie ai soldi sottratti ai contribuenti degli altri paesi membri – ha fatto sì che uscisse un quadro desolante.

Nella migliore delle ipotesi è la montagna che ha partorito il topolino. Si dice l’Europa abbia stanziato cinquecento miliardi, ma è vero?

Partiamo dal SURE, il fondo anti-disoccupazione. Cento miliardi di volume massimo, dicono. Vero, ma quei soldi non ci sono mica. Sono cento miliardi di movimentazione sul mercato, che partono in realtà da un’ipotesi di venticinque miliardi di base. Questi venticinque miliardi dovrebbero essere raccolti con i versamenti dei diversi paesi europei, ma c’è il trucco: l’adesione è volontaria. Poi chiariamoci, si tratta di prestiti, non di trasferimenti tra nazioni. Questi soldi andranno restituiti, e con un tasso d’interesse ancora da negoziare. Se poi la Commissione Europea ritiene che le tua gestione delle finanze non vada bene – a loro giudizio insindacabile e niente affatto neutro – puoi incorrere in penalità

Dai conti che si son fatti verrebbe fuori che all’Italia da questa partita di giro arriverebbero circa duecento milioni di euro. Non bastano a pagare la cassa integrazione per qualche settimana.

Discorso simile per gli annunciati fondi della BEI: duecento miliardi. Anche qua, in realtà i soldi si devono reperire sul mercato, la BEI comincia da venticinque miliardi, in parte di capitale proprio in parte messo dall’Unione. E quanto ci metterà per attivarsi? Anni, come minimo. Se va come il piano Juncker avremmo il tempo di vedere la fine della crisi».

Ma al Mes si può ricorrere da subito

«Esattamente! Di suo il Mes ha un capitale, quattrocento miliardi circa, e gli stati in difficoltà possono ricorrervi. Ora, questo fondo come funziona? Il paese che ne fa richiesta può usufruirne per le spese sanitarie nella misura in cui queste non superano il due per cento del PIL: circa trentasei miliardi per l’Italia. Se dovessimo superare questa soglia o usare i fondi per altri scopi si passa al regime delle condizionalità, ovvero si firma un memorandum in cui non solo ci impegniamo a restituire quanto ricevuto – quello lo faremmo a prescindere, son sempre prestiti – ma anche a implementare misure simili a quelle applicate in Grecia. Parliamo di tagli alla scuola, alla sanità, agli stipendi dei dipendenti pubblici, alle pensioni, ai servizi.

Ad Atene andò così, e quando han provato a cambiare rotta – penso al primo governo Tsipras – abbiamo visto com’è andata. La Troika ha fatto ciò che voleva.

Uno potrebbe dire bene, restiamo sotto il due per cento e prendiamo i fondi solo per la sanità. Ma anche qua c’è il trucco. Ora il nostro debito pubblico è al centotrenta per cento del PIL, con questi aiuti e le altre spese già programmate schizzerebbe come minimo al centocinquanta per cento. E a quel punto torna l’Europa a dirti che no, così il debito è troppo alto, dobbiamo fare politiche di austerity. È scritto nel documento: una volta passata l’emergenza si dovrà tornare alle vecchie, stringenti regole.

E non stiamo ancora contando gli effetti che può avere la diminuzione del PIL.

Dal governo dicono: almeno portiamo qualcosa a casa col SURE. Gran scemenza! Portiamo qualcosa a casa con la BEI. Poco ma già meglio. Usiamo il Mes? Tanto vale mettersi un cappio al collo. E infatti anche il governo dice che non ci ricorreremo».

Ma allora che strumenti abbiamo per fronteggiare la crisi?

«Innanzitutto bisogna comunque emettere titoli di stato. Nel breve periodo ci si affida alla BCE, contando sul fatto che intervenga per calmare gli spread.

Ci aiuta il fatto che la BCE non funzioni come l’Eurogruppo. Molti dei ministri delle finanze europei sono tra i più ordoliberisti che esistano. E son politici, san poco di economia. Poi ricordiamolo, in Germania non si studia Keyenes, ma Von Hayek.

Nel board della BCE, invece, ci sono competenze più variegate e su più livelli: gli equilibri cambiano. Draghi era riuscito a far passare determinate iniziative perché nella governance si trovava di fronte giusto qualche contrario – il finlandese, l’olandese, il tedesco – ma le decisioni passavano a maggioranza. Nell’Eurogruppo, invece, i paesi più deboli sono schiacciati.

L’Europa non è una grande famiglia in cui ci si vuol bene: è un condominio in cui ogni tanto ci si incontra e si fa di tutto per farsi le scarpe a vicenda. Da questo punto di vista Il Regno Unito, per fare un esempio, è sempre stato bravissimo. Ha saputo evitare ogni meccanismo che comportasse regole sovranazionali – positive o negative che fossero – mentre si è seduto al tavolo solo quando poteva portare a casa qualcosa. Questo, intendiamoci, ha anche fatto sì che Londra abbia rifiutato tutte le politiche europee più garantiste a livello di diritti sindacali, mantenendo la legislazione ultra-liberista dell’era Thatcher.

E così vale per tutti. Hai mai visto un olandese dire ‘forse non è corretto fare dumping fiscale contro i nostri alleati’? Ma neanche per sogno! Junker, che prima di essere presidente della Commissione Europea era Primo Ministro del Lussemburgo, ha firmato patti segreti con le multinazionali dell’IT per aiutarle a evadere le tasse degli altri paesi. Questi sono i personaggi.

I 70 anni di pace, lo spirito europeo, son retorica. E basterebbero gli orrori dei Balcani a dimostrarlo».

Evento FCA. L’azienda madre del brand Fiat è una delle aziende italiane che ha spostato la sua sede fiscale nei Paesi Bassi | Fonte: Facebook.

Il problema, mi sembra di capire, va al di là delle questioni contingenti.

«Sì. Anche perché l’altro grande tassello di questo ragionamento è l’euro. Senza dilungarsi in ragionamenti da paper accademico, è evidente come la moneta unica, invece di appianare le differenze tra stati, le stia acuendo.

Un paese come la Germania che ha una politica storicamente mercantilista – ovvero focalizzata sulle esportazioni – ha tutto da guadagnare da queste diseguaglianze. Se lei esporta verso gli altri paesi membri, è chiaro che questi devono importare. Berlino avrà un grande squilibrio nella bilancia commerciale, e gli altri faranno deficit. Ma se fai deficit vuol dire che gli altri ti stanno finanziando. E così il risparmio della Germania va come prestito alla Spagna, e la Spagna lo usa per acquistare beni tedeschi.

In Grecia è successo esattamente questo: il risparmio tedesco andato nella penisola ellenica ha sovvenzionato l’industria tedesca, specie quella bellica. Poi Berlino si accorge che vuole i soldi indietro, ma quei soldi son già stati usati per acquistare, che so, missili della RWM.

Il sud viene colpevolizzato dal nord per i debiti, ma senza quei debiti il nord non sarebbe così ricco. È questo il paradosso del debito.

All’Italia va meglio perché abbiamo una bilancia dei pagamenti in parità: non ci troviamo con grossi debiti sull’estero. Ma la Spagna, il Portogallo, la Francia sì. E tutti verso la Germania. Esistono in teoria delle regole europee che vietano tutto questo, e i tedeschi le violano. Ma la Commissione Europea non ha mai osato fare una procedura d’infrazione contro Berlino, mentre a Roma, Atene ed altri sono arrivate a iosa.

La Germania preferisce un risparmio maggiore dell’investimento. Questo significa, lo sa chiunque conosca l’economia, che la differenza la deve prestare ad altri perché acquistino i suoi beni.

Nell’impostazione keynesiana questi problemi vengono risolti – a Bretton Wood ne discussero a lungo. Se ci fosse il marco le cose sarebbero ovviamente diverse: col tempo il suo valore crescerebbe, i prodotti costerebbero di più e quindi verrebbero acquistati meno, giungendo così naturalmente ad un equilibrio. Ma con la moneta unica il tasso di cambio non esiste, e la Germania esporta in Europa e nel mondo con una moneta artificiosamente debole. Si stima che il marco oggi varrebbe un trenta per cento più dell’euro. Non venderebbero certo le stesse Polo nel mondo se costassero il trenta per cento in più.

Per questo, però, dico che non sono furbi nel lungo periodo. Se lasciano che Italia, Spagna e altri vadano in sofferenza l’euro salta. E se salta l’euro perdono tutto questo vantaggio che hanno accumulato».

E allora come se ne esce? 

«Serve che Berlino si renda conto di cosa sta facendo, ma perché questo avvenga non basta un tavolo di trattative. In primis c’è una questione culturale: sono protestanti, il debito è visto come una colpa. E poi c’è l’interesse, lo abbiamo detto prima.

Le racconto però una cosa. Un nostro collega che lavora all’istituto Max Planck ha mostrato i risultati di un sondaggio condotto recentemente in Germania. Al campione è stato chiesto se percepiscano come più preoccupante la prospettiva di un eventuale aumento dei tassi a causa degli Eurobond o un’uscita dall’euro dei paesi del sud. È venuto fuori che hanno molta più paura della seconda ipotesi.

Ricordiamoci che le nostre economie sono integrate: ora che le fabbriche italiane sono chiuse quelle tedesche stanno rallentando la produzione, perché molti pezzi delle BMW li fanno qui in Emilia Romagna.

Allora mettiamo sul tavolo quest’opzione. Mettiamo sulla bilancia che, se non si trova un accordo equo, usciamo. Perché finché questo lo fa la Grecia – che costituisce una bassissima percentuale del PIL europeo e ha poche industrie, peraltro ormai tutte in mano a gruppi esteri – non è grave. Ma se esce l’Italia, beh, le cose cambiano.

Questa ipotesi va messa sul piatto. Se le cose resteranno come sono ora non è sbagliato parlare di egemonia tedesca sull’Europa.

Keyenes non a caso si è sempre opposto al mercantilismo. Non solo: dopo la prima guerra mondiale provò a bloccare – purtroppo senza successo – la follia dei debiti di guerra contro i tedeschi. Aveva capito, e lo scrisse, che quella scelta avrebbe portato a una nuova guerra. Punire un popolo e farlo soffrire finché non ripaga un debito inesigibile è pericoloso prima ancora che crudele.

E lo stesso è successo dopo il 1945. Ma stavolta, dopo un po’, imparammo la lezione, e annullammo buona parte dei debiti di Berlino.

Ironia della sorte, anche alla Grecia non vennero mai ripagati i debiti – lo ha ricordato Varoufakis nei giorni delle drammatiche trattative del 2015 – anche se Atene quei debiti non li aveva mai cancellati. Storia economica e storia politica, come sempre, si intrecciano profondamente.

Tornando all’attualità, la questione è una. L’Eurogruppo ha fatto una proposta, ma questa deve essere poi ratificata dal vertice europeo. Uscirà nei prossimi giorni [rispetto alla data dell’intervista: la lettere in questione è disponibile qua, N.d.R] un appello di centinaia di economisti per chiedere a Conte di non firmare niente che abbia quei contenuti. Speriamo ci dia ascolto».

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