Da 5 Bloods: Spike Lee torna a raccontare la storia afroamericana

L’omicidio di George Floyd ha riaperto, da settimane, la mai tacita discussione sulla divisione razziale in America, esasperando le già duramente colpite comunità afroamericane che sono esplose in rivolte pacifiche e non. Quasi coincidentalmente, Netflix distribuisce Da 5 Bloods, ultimo lavoro di Spike Lee, regista impegnato e politicamente schierato, che pone un forte accento sulla dinamica dell’essere nero e contemporaneamente potersi sentire e definire americano, binomio che spesso provoca un contrasto di appartenenza. Attraverso la storia, in particolare di uno degli eventi più turpi del secolo scorso, la Guerra del Vietnam, Spike Lee, mette alla luce il conflitto di chi andava a rischiare la vita per un paese in cui non gli venivano riconosciuti pieni diritti.

Nel 1971, un plotone di soldati statunitensi deve recuperare un carico da un aereo CIA abbattuto in territorio Viet Cong. I cinque militari, guidati dall’eroico “Stormin” Norman (Chadwick Boseman), scoprono che l’oggetto da recuperare era una cassa di lingotti d’oro. Decidono di seppellire il tesoro, per andarlo a recuperare in seguito. Ai giorni nostri, scopriamo che Norm è deceduto durante la missione, e i suoi quattro commilitoni si sono recati in Vietnam per cercare le spoglie del loro leader, oltre a riprendere l’agognato bottino. Spike Lee approfitta dei diversi protagonisti per mettere in scena diversi volti e caratteri dell’afroamericano contemporaneo, addirittura presentandone uno schierato dalla parte di Trump, con tanto di cappellino rosso Make America Great Again. La politica è esposta senza freni, e nomi, vicende e scandali vengono passati a rassegna senza alcun tipo di censura. Allo stesso modo, il regista compie una vera e propria lezione di storia afroamericana, coadiuvata da immagini e video che accompagnino la visone ai meno informati, trasformando attraverso l’uso ingente di materiale di repertorio Da 5 Bloods in un progetto dal taglio parzialmente documentaristico.

Da 5 Bloods

Il film alterna i momenti del passato e quelli del presente adoperando un cambio di formato; ogni scena ambientata nel Vietnam del 1971 è in 4:3, replicando uno stile della televisione dell’epoca, che tanto fece scalpore e servì a portare a conclusione i conflitti, avvicinando gli orrori della guerra nelle case degli americani. Nonostante Da 5 Bloods inizi come una pellicola drammatica e agrodolce sull’affrontare i fantasmi del conflitto da parte dei quattro veterani, il tono del film acquisisce sempre più tensione fino a diventare un vero e proprio war movie, giocando con situazioni alla Apocalypse Now, platealmente citato in diverse scene. Il tema degli afroamericani sfruttati come carne da macello per la guerra si presenta in modo simile a quello proposto nella serie Watchmen, tra le più recenti sorprese del piccolo schermo; la battaglia comunicativa messa in atto da Viet Cong puntava molto sul diffondere via radio messaggi che aizzassero i soldati neri contro il resto dell’esercito, sfruttando manipolazioni psicologiche che avevano sempre un fondo di verità. Spike Lee mette in scena questi dubbi, in particolare di fronte alla notizia della morte di Martin Luther King, attraverso il personaggio di Norm, poco presente eppure incisivo nelle decisioni e nei percorsi dei protagonisti fino al finale in epoca contemporanea.

In una delle scene finali, assistiamo a una riunione del movimento Black Lives Matter, che, come se tutto il resto della pellicola non bastasse, ci catapulta nella contemporaneità. Sembra poco casuale l’uscita di questo film, in cui avviene una rivincita di un gruppo di afroamericani, comunque non esenti da difetti e pessime scelte, nei confronti di un mondo che desiderava solo sfruttarli, riducendosi addirittura nella metaforica e palesata sconfitta del tiranno Trump, nei cui confronti Spike Lee non lascia alcuna possibilità di salvezza. Eppure, bisognerebbe anche riflettere che Da 5 Bloods non è che l’ultimo tassello di una narrativa filmica sulla resistenza delle comunità nere, già che negli scorsi anni diverse pellicole, come Blackkklansman dello stesso Lee o Fruitvale Station di Ryan Coogler hanno saputo intercettare le necessità di espressione di un mondo che non può mai esprimersi e lottare abbastanza. È poi consolatorio notare come queste discussioni siano sfociate nel cinema più commerciale, con pellicole come Black Panther dello stesso Coogler o Get Out di Jordan Peele, che, al netto dei difetti, trattengono le tematiche chiave della moderna cinematografia black, potendo arrivare a più persone possibili ed espanderne la discussione.

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